LA PARESSIA di M. Tozzato
Nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù (Feltrinelli, 1996) Salvatore Natoli nell’affrontare la voce “Verità” parte dalle lezioni “tenute da Foucault presso l’Università di Berkeley alla fine del
<<riguarda proprio la verità e, in questo caso, la verità nella forma greca della parresia. Che cos’è la parresia? La parresia equivale all’”essere franco”, al “parlare chiaro”, a partire dal verbo greco parresiastai che significa ‘dire tutto’, da ‘pan’(tutto) e ‘rhema’ (ciò che viene detto). […]Nella parresia il parlante ritiene di dire la verità per il semplice fatto di esprimere quel che veramente pensa.[…]Non a caso – almeno inizialmente – la parresia si formula come antiretorica. Il retore, infatti, usa tecniche artificiali per persuadere chi lo ascolta: le usa se non per mentire certo per fingere. Il parresiastes, al contrario, parla “chiaro e tondo”, esprime quel che sente, enuncia le sue opinioni senza orpelli e infingimenti.>>
Il “parresiaste”, quindi, nel suo discorso cerca di attenersi a una certa forma di moralità, la sua sincerità si contrappone alla menzogna come un’agire “buono” di fronte all’azione “cattiva” di chi dice il falso. Nel linguaggio di chi fa politica, invece, la parola è dosata e usata in relazione all’effetto utile che può indurre nell’interlocutore; essa viene sottoposta al principio dell’efficacia e anche a quello dell’efficienza nella misura in cui spesso vince – nell’agone politico – chi riesce a massimizzare il “rendimento” del messaggio che viene trasmesso al corpo politico. A questo punto, però, Natoli osserva che
<<nel nostro dire[…]può sempre darsi uno scarto tra ciò di cui siamo convinti e quel che è effettivamente vero, che ritrae lo stato delle cose così come sono. […]Non vi è alcun testo – dice Foucault – nella cultura greca antica in cui il parresiastes sembri avere il minimo dubbio sul fatto di possedere la verità. Perché la differenza tra certezza e verità sia messa a tema in modo specifico e definitivo bisogna giungere a Cartesio. Cartesio, nel tentativo di attingere l’evidenza in tutta la sua purezza, mostra come non è necessario sia vero quel di cui si è semplicemente certi. Non così per i greci ove “non sembra esservi un problema circa l’acquisizione della verità”, ma la verità è garantita “dal possesso certo di qualità morali”.>>
Ma, a me sembra, che esista un ulteriore problema soprattutto quando affrontiamo la figura di Socrate. La giustizia e la moralità erano al centro della problematica socratica e che la virtù fosse una condizione necessaria per arrivare alla conoscenza vera era, mi pare, un elemento importante del suo pensiero. Però Socrate considerava come una virtù anche il sapere di non sapere e la consapevolezza metodologica che la conoscenza era il prodotto di un processo dialogico al cui risultato dovevano, per forza, contribuire due o più interlocutori. La scepsi, il dubbio metodico, la necessità del dialogo per disvelare ciò che deve essere compreso, dietro l’immediata apparenza empirica, rappresentavano l’indispensabile complemento della rettitudine morale che da sola non poteva garantire la conoscenza delle cose esterne a noi in quanto tali. Ma non solo: anche la conoscenza di noi stessi non può essere attinta dal “demone” che abita la nostra mente – in cui a volte crediamo di ritrovare la “voce della coscienza” e la “illuminazione interiore” – ma può nascere solo dal confronto con il mondo – in particolare quello sociale – e con gli individui che osservano se stessi e le cose in maniera diversa dalla nostra. Ai nostri giorni, inoltre, chi ritiene di detenere la “verità” solamente perché si ritiene migliore, moralmente migliore, e “nel giusto” perché portatore di valori da “lui” ritenuti incontrovertibilmente “superiori” rischia di risultare altrettanto dannoso di chi esplicitamente mente all’interno di una strategia di potere e di egemonia ideologico- culturale finalizzata alla supremazia su altri gruppi sociali. L’atteggiamento critico, la consapevolezza di dover verificare le proprie asserzioni e ipotesi, la capacità di accettare il fatto che ci è possibile cadere in illusioni ed ingannarci riguardo a molte cose e fatti oltre che su noi stessi, sono indispensabili per agire anche politicamente in maniera sensata e realistica. Quando ci illudiamo di poter attingere ad una comprensione trasparente di noi stessi, ci capita purtroppo di pensare di essere in grado di intuire immediatamente e con “certezza” la verità del mondo. Nel mio piccolo penso, invece, che la via del pensiero è anche la via della disperazione in cui si misura la tenacia di coloro che vi si applicano dal fatto che non desistono dal percorrerla nonostante il continuo errare e i continui errori e le frustranti falsificazioni che il duro impegno scientifico comporta. Concludo, sempre tratto da Natoli, con un elogio della parresia intesa nel senso di cui ne abbiamo accennato all’inizio:
<<La parresia spinge all’estremo l’agonismo e per questo si lega originariamente al pericolo. Quando il filosofo – scrive Foucault – si rivolge a un sovrano o a un tiranno e gli dice che la sua tirannia è pericolosa e spiacevole, in quel caso il filosofo dice la verità, e ancor più corre un rischio (giacchè il tiranno può adirarsi, può punirlo, può ucciderlo). La verità così intesa non solo inaugura l’agone morale, ma lega indissolubilmente verità e vita.>>
Mauro Tozzato 21.12.2008