LA POLITICA PRIMA DELLA FINANZA di G. La Grassa
Prima di iniziare a parlare dell’argomento che sarà oggetto del mio scritto, lasciatemi irridere alla “grande democrazia americana” basata, come ormai in tutto l’occidente “servo” di questa nazione prepotente, sulle elezioni lobbistiche e affaristiche. La Hillary ha vinto nel New Hampshire o per la recita della parte di donna secondo gli stereotipi del genere, fingendo commozione e asciugandosi ostentatamente una lacrimuccia, o per brogli incredibili e sfacciati (secondo quanto riportato da G.P. nel blog sotto questo mio scritto). Del resto, anche in Georgia hanno vinto i filooccidentali con brogli denunciati dalla controparte, ma su cui la stampa europea, appunto asservita ai sopraffattori americani, non ha sollevato obiezioni, mentre si è sempre scatenata nel denunciarli non appena vincono “gli altri” (come ad esempio in Bielorussia). Non ho alcuna intenzione di nascondere che, tra queste meschine sceneggiate dette “democrazia” e un’aperta dittatura, tutto sommato preferisco quest’ultima. Contro di essa si ergono degli uomini, a votare le corrotte lobbies “democratiche” corre quella parte della popolazione ridotta ad “animali da cortile”. Bisogna svergognare e combattere sistematicamente questa democrazia, un vero obbrobrio da seppellire sotto le macerie che sta producendo in tutto il mondo rendendo i popoli, da essa anche solo toccati, degli ammassi di robot umanoidi (odiosi e monocordi, a differenza dei buffi e teneri “androidi” di “guerre stellari”).
Chiarito il mio punto di vista (nettamente “antidemocratico”, se la democrazia restasse questa autentica “monnezza”; altro che quella napoletana!), passo ad altro. La crisi batte alle porte, e mi sembra sia unanimemente ammesso che durerà almeno per il 2008 e 2009, creando quasi certamente difficoltà notevolissime soprattutto in un paese ormai sfasciato qual è il nostro. Impossibile dire al momento se si dimostrerà controllabile o meno, di quale reale gravità essa sarà, quali i suoi risultati in termini politici e sociali; troppe le incognite in questo problema. Tuttavia, esiste almeno una certezza: si continuano ad ascoltare i cosiddetti esperti, gli economisti, che insistono con la globalizzazione e stabiliscono correlazioni tra semplici dati economici senza tenere nel giusto conto la politica, in particolare quella degli Stati dei paesi che, al contrario degli ormai smarriti organi politici del capitalismo “occidentale” (tutti subordinati pedissequamente agli Usa), stanno crescendo “ad est” quali probabili nuovi poli di lotta tra potenze.
Non esiste alcuna globalizzazione, se non nell’apparenza di superficie del mercato, di cui si cantano le “virtù” qualora resti “libero” da influenze “esterne”. Se il suo funzionamento non corrisponde alle leggi, contrabbandate dagli economisti di cui sopra come del tutto virtuose e assolutamente oggettive e neutrali (alla guisa, che so, della legge di gravitazione universale), ciò sarebbe semplicemente dovuto a turbative dell’asettico libero scambio mercantile da parte della invadente politica (statale); questi “Soloni” si dimostrano sempre più inutili (anzi dannosi per i poveracci che credono alle loro ricette) con le loro sbrodolature economicistiche pseudoscientifiche. In questa sede, tuttavia, non intendo parlare direttamente del fenomeno detto crisi, ma delle sue più decisive (e strutturali) cause determinanti, che non sono strettamente economiche né tanto meno semplicemente finanziarie.
Le crisi, come del resto le guerre, sono fenomeni insiti nell’assenza di coordinamento dovuta al conflitto intercapitalistico, diciamo più genericamente tra dominanti. Quanto più acuto e vasto è il conflitto in oggetto, tanto maggiore e generale diventa il caos; il suo livello più alto dipende, in ultima istanza, dallo sviluppo ineguale dei capitalismi (cioè delle diverse formazioni particolari di tale tipo), un esempio lampante del quale è oggi rappresentato dalla crescita impetuosa dei paesi asiatici, pochi decenni fa considerati “campioni” del sottosviluppo. Nel ‘900 (prima metà), l’entrata in una fase pienamente policentrica, dopo il definitivo declino della supremazia centrale inglese, determinò sia la “grande crisi” (1929-33) sia fenomeni ben più incisivi e squassanti quali le due guerre mondiali. Dopo una fase cinquantennale di apparente congelamento della situazione (la “guerra fredda” tra i due “campi”), si affermò una nuova prevalente centralità statunitense.
Sia durante la fase di congelamento (nella prima metà anni ’70) che in quella di monocentrismo Usa (verso la seconda metà anni ’90), si produssero due congiunture di intenso squilibrio nel sistema capitalistico, ma non scoppiò alcuna crisi devastante. In questi ultimi decenni, ma soprattutto dopo il crollo del “socialismo”, si è sciorinato tutto l’armamentario concernente la globalizzazione, le virtù del libero scambio, ecc. Come già all’epoca del predominio inglese (prima metà dell’800 con la teoria dei costi comparati di Ricardo, accesamente contrastata da quella di List relativa alla “industria nascente”, favorevole alla crescita della Germania), anche in questa seconda fase monocentrica i neoliberisti giocano in favore della sudditanza dell’intero mondo agli Usa; tramite appunto le schematiche e ingannevoli tesi della globalizzazione e del libero commercio internazionale, che creerebbe ricchezza per tutti (una menzogna che si ripete da ormai due secoli e che trova ancora degli ingenui pronti a crederci, mentre alcuni ben remunerati “esperti” la diffondono con sempre più complicate argomentazioni statistico-matematiche, vero “cagliostrismo” in salsa pseudoscientifica!).
L’incontrastato monocentrismo statunitense è fortunatamente durato poco. Tuttavia, il cammino intrapreso per entrare in una nuova fase policentrica è appena agli inizi; a mio avviso, il suo sbocco finale è pressoché ineluttabile, ma i tempi in cui ciò avverrà e quali paesi assurgeranno alla fine a reali nuovi poli conflittuali per la supremazia globale (che non ha logicamente nulla a che vedere con le fantasie della globalizzazione liberista!), non è per null’affatto ancora deciso con chiarezza. Non a caso, solo 3-4 anni fa la previsione era di un principale antagonismo Usa-Cina, che si sarebbe affermato nel giro di una ventina d’anni. Oggi, l’antagonista principale del paese predominante sembra invece la Russia; l’India, inoltre, si sviluppa attualmente a tassi non lontani da quelli cinesi e non è certo escluso che contenda il primato in Asia al suo grande vicino. Il Giappone è in affanno – eppure, quindici anni fa, si teorizzava un mondo tripolare tra Usa, Germania e, appunto, Giappone (anzi, quest’ultimo veniva trattato ormai quale futuro dominatore della scena mondiale al posto degli Stati Uniti) – ma sarebbe assurdo considerarlo del tutto fuori gioco.
In un mondo così in movimento, lo scoordinamento aumenta; dunque, si accresce la probabilità di crisi di portata più vasta rispetto a quelle finora conosciute. Esse si manifestano sempre di prim’acchito, in un sistema capitalistico, nei loro aspetti finanziari, e in particolare con disordini borsistici che vanno aggravandosi (non con andamento lineare e continuo, naturalmente). Chi cerca di non rimanere alla superficie, tipo i marxisti tradizionali, “scendono” fino a una serie di determinanti di tipo pur sempre economico, ma valutate nel loro aspetto reale, inerente alla produzione, all’andamento di costi, prezzi, profitti (e loro saggi), e via dicendo. Solo una diversa serie di ipotesi teoriche (che sto in parte sviluppando nel sito) può dimostrare l’insufficienza di tali analisi economicistiche. Una considerazione meno deficitaria deve portarsi al livello dello scontro geopolitico, dei rapporti di forza tra formazioni capitalistiche particolari (e tra capitalismi con struttura sociale, livelli e, ancor più, tassi di sviluppo differenti). La crisi incombe così come si accresce la probabilità di scontri di tipo latamente bellico; il che non implica sempre guerra guerreggiata, cioè scontri militari diretti tra i nuovi poli in conflitto (per il momento almeno, grande rilievo avranno i servizi segreti e i loro contrasti complessi e nascosti, con flussi multipolari fra loro intrecciati in modo quasi inestricabile, data la loro scarsa visibilità).
Le crisi, come gli urti di tipologia bellica (i più acuti e densi di effetti sono oggi in gran parte sotterranei), mutano i rapporti di forza tra i poli conflittuali, i quali cercano di gestire tali avvenimenti. E’ ovvio che non ci riescano compiutamente, che anzi si trovino spesso a navigare a vista in assenza di preciso orientamento; guai però a pensare che, in tali periodi procellosi, i “soggetti politici” si debbano soltanto adeguare a presunte leggi del tutto oggettive e che procedono verso il loro (pre)determinato sbocco, il quale è invece il risultato di molteplici e multiformi strategie di lotta, implicanti l’utilizzazione di mezzi di vario tipo: economici come politici (e militari) e anche culturali (tipo lo “scontro di civiltà”).
Innanzitutto, prendiamo atto che il declino statunitense non impedisce a questo paese – ancora il più potente; non solo militarmente bensì anche scientificamente e tecnologicamente (e come solida struttura industriale e finanziaria) – di rivedere la sua strategia e di tentare di arginare la perdita di influenza. Il conflitto in Irak non sembra andare oggi molto bene per chi intende resistere allo straniero; l’insensato (almeno per noi) conflitto tra sunniti e sciiti ha favorito un qualche accordo tra gli Usa e i primi, fra l’altro mirante a contenere l’eventuale spinta proveniente dall’Iran (che potrebbe avere più difficoltà interne di quanto appare; ma la butto là, sia chiaro). Pure il conflitto tra Israele e palestinesi, per quanto il primo non sia più così baldanzoso e potente come un tempo, è piuttosto impantanato. Mi sembra che lo slancio arabo, e in generale musulmano, sia per lo meno in fase di stallo (temporanea?). Si spera di più in Afghanistan, e nel vicino Pakistan, ma perché quella zona è confinante con le potenze in crescita (Russia e Cina in particolare), cui vanno assegnate molte più probabilità di riuscire ad intaccare in modo incisivo il predominio centrale statunitense rispetto alla fin troppo esaltata lotta delle “masse diseredate” dei paesi musulmani. Si può anzi dire fin d’ora che quest’ultima si è in buona parte infilata in un cul di sacco, dal quale uscirà solo in presenza di un netto accrescimento della potenza russa e cinese (ma Russia e Cina agiscono, sia chiaro, per i propri interessi, alla guisa di qualsiasi altro settore dei dominanti; niente sciocche illusioni al riguardo!).
Si è fin troppo ingigantita l’importanza delle “masse in rivolta”; nella fase odierna – non in generale e per tutta “l’eternità”; tornerà anche il momento delle rivoluzioni popolari, ma più in là – vale cento volte di più la potenza dei paesi in accelerato sviluppo; se quest’ultima non cresce, non ci sarà nessuna lotta di massa in grado di invertire la “ruota della storia”. Gli Usa l’hanno ben capito: la loro forte presa sull’Europa (e sull’Italia, nuovamente diventata centrale per il loro predominio in questa zona, dopo la sottovalutazione che condusse al rovesciamento del regime Dc-Psi con l’utilizzazione della magistratura nel 1993) lo dimostra. Il 1999 – con la guerra contro la Jugoslavia (che ha dato una bella scossa alla Russia mettendola sull’avviso), in cui l’Europa, e in particolare l’Italia del sinistro governo D’Alema, fu costretta ad assumere addirittura una posizione di forte aggressività per conto dei predominanti – è stato un tornante decisivo; soprattutto dopo di allora, i paesi europei orientali (già antirussi) sono divenuti base (talvolta anche militare) di operazioni statunitensi miranti al nuovo “accerchiamento” della Russia.
Anche le varie trame Usa – basate sul dispositivo della “democrazia” elettoralistica (corrotta e affaristica) – in Ucraina e Georgia che si vorrebbe far entrare nella Nato, così come l’intenzione di apprestare un sistema antibalistico posizionato nei paesi europei orientali, sono ulteriori strumenti di questa politica di accerchiamento e/o di contenimento della Russia che inaspettatamente – pur amputata rispetto all’Urss a causa del crollo dell’intero sistema “socialista”, dimostratosi incapace di rispondere al dinamismo capitalistico – sta accrescendo la sua rinnovata potenza. Nella stessa direzione vanno i tentativi statunitensi di penetrazione nelle diverse Repubbliche centroasiatiche (in alcune si sono anche installate basi militari), cui Russia e Cina hanno risposto con l’OCS, cioè il “patto di Shanghai” [sei paesi membri: Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, cioè ben 4 delle 5 repubbliche centroasiatiche; vi sono poi quattro paesi “osservatori”: India, Iran, Pakistan, Mongolia]. L’OCS, che sempre più si rivela un buon contraltare alle mene degli Stati Uniti intese a mantenere la propria sfera d’influenza asiatica e a ostacolare la crescita delle nuove “potenze a est”, raggruppa paesi abitati da metà della popolazione mondiale e in possesso di metà delle riserve di gas e petrolio globali. Si tenga presente che la controffensiva russa nell’area centroasiatica ha già conseguito il risultato di far chiudere o mettere in chiusura un paio di basi americane (Khanabad in Uzbekistan e l’aeroporto di Manas in Kirghizistan, mentre in tale paese la base aerea di Gansi è tuttora affittata agli americani, ma si tratta comunque dell’unico loro avamposto rimasto in quell’area).
In questo contesto sarà interessante assistere agli sviluppi della prossima crisi, forte o debole che sia. Di fronte ad essa, che al momento si presenta ancora nel suo aspetto “di superficie” finanziario – e non potrebbe essere diversamente in un mondo dominato dalla produzione (capitalistica) generalizzata di merci – la formazione particolare che ha maggiori probabilità di uscirne non dico indenne, ma meno toccata, dovrebbe essere proprio la Russia. Tale paese dipende certamente ancora troppo dall’estrazione ed esportazione di gas e petrolio (soprattutto del primo); si tratta di un elemento di debolezza nel lungo periodo, se la Russia non svilupperà nuovamente una forte industria (anche militare), ma nel breve presenta invece aspetti positivi. E’ ovvio che una crisi mondiale vedrà diminuire la domanda di fonti energetiche. Tuttavia, la Russia esporta gas e petrolio verso decine e decine di paesi; inoltre, la centralizzazione (politica) della sua economia – per quanto oggi basata sui due pilastri capitalistici: mercato e impresa – le consentirà di meglio controllarne l’andamento, una volta che anch’essa fosse interessata dai fenomeni della crisi (o recessione) mondiale. Insomma, la Russia ha sistemi di risposta, ai fenomeni negativi della congiuntura economica, che si riveleranno con molta probabilità più efficaci di quelli dei paesi capitalistici di tipologia “occidentale” (fra cui va annoverato il Giappone).
La Cina può apparire più sensibile ed esposta a pericoli, dati i suoi evidenti legami finanziari con gli Usa. Innanzitutto, essa tiene l’yuan abbastanza agganciato al dollaro; ultimamente, ha concesso un minimo di rivalutazione della sua moneta, ma in generale la conserva ancora su livelli piuttosto bassi rispetto a quanto vorrebbero i paesi dell’occidente. Inoltre, vi sono molti intrecci tra alcune grandi banche cinesi e americane; ultimamente le prime hanno concesso liquidità alle seconde, e perfino acquisito (almeno in prospettiva) partecipazioni azionarie in esse. Si potrebbe dunque pensare a un abbastanza convergente andamento dell’eventuale congiuntura negativa nei due paesi. Tuttavia, si tratta di un’impressione legata ancora una volta a considerazioni troppo sbilanciate in direzione della centralità e predominanza dell’economia – e delle sue “leggi” presunte oggettive, di carattere deterministico, quindi ineluttabili e incontrollabili – rispetto a una politica supposta impotente nei confronti di queste ultime (un po’ come un villaggio del Bangladesh di fronte a un’ondata anomala generata da un maremoto). La Cina ha senza dubbio un sistema economico interessato ampiamente da forme capitalistiche – le solite: impresa e mercato – che è tuttavia sottoposto a un forte intervento dei poteri centrali. Questi non possono evitare l’eventuale congiuntura negativa, ma ne influenzeranno comunque in modo non irrilevante l’evoluzione, gli sbocchi, lo stabilirsi di un certo assetto dei rapporti di forza a livello internazionale.
Gli Usa stanno cercando di accelerare – nell’ultimo anno dell’attuale presidenza – le loro operazioni tese a rinsaldare (o comunque tenere) posizioni predominanti in Medio Oriente (imputridimento della situazione in Irak, “pace” con le armi in Palestina) e ad alimentare le “rivoluzioni democratiche” in Georgia, Ucraina, che vorrebbero estendere al Pakistan (l’uccisione della Bhutto è stato un brutto colpo, ma comunque verrà fatto il possibile, con i dovuti brogli, pressioni, minacce, ricatti, corruzione, ecc. per far vincere le elezioni previste in febbraio ai loro “servitori”). Da non sottovalutare le trame per disturbare la Russia nelle sue zone di influenza centroasiatiche onde metterla sulla difensiva, e magari approfittarne per lanciare un attacco all’Iran. In tal evenienza, però, sono sufficienti attacchi aerei al fine di provocare mutamenti radicali all’interno di questo paese? Perché, se tale obiettivo non venisse raggiunto, si provocherebbe un effetto boomerang; e pensare ad occupazioni militari del territorio iraniano è piuttosto avventuristico. In ogni caso, nulla di tutto quanto è stato appena detto sarà conseguito in tempi brevi, prima ancora del prodursi della congiuntura critica (pesante o meno che sia). E non è possibile prevedere se quest’ultima accelererà i piani aggressivi statunitensi o li smusserà.
Appare comunque assai probabile che il cosiddetto “disaccoppiamento” (degli effetti prodotti dalla crisi nel sistema economico del paese predominante in rapporto a quelli provocati negli altri paesi capitalistici) sarà effettivo per quanto concerne Russia e Cina (per i motivi sopra accennati), mentre è quasi sicuramente un errore di prospettiva per quanto riguarda Europa e Giappone, aree sufficientemente omogenee pertinenti al capitalismo di tipologia “occidentale” (dei funzionari del capitale). Il “disaccoppiamento” sarebbe credibile se le dette aree fossero capaci di sganciarsi dalla subordinazione agli Stati Uniti; poiché così non è, esse saranno investite pienamente da ogni onda di crisi che partisse dal paese predominante centrale. Il blog e i suoi normali lettori rappresentano però un elemento “castrante”, per cui ogni analisi deve essere ridotta all’osso. Pur attenendomi a questo principio, ho già allungato molto il mio discorso; per cui lo tronco (di brutto) qui e rinvio le considerazioni sull’Europa (e, in particolare, sulla “disgraziata” Italia) al prossimo futuro.