LA “SCIENZA” STORICO-SOCIALE: CONSIDERAZIONI MINIME, di GLG

Karl-Marx

Parto da questa citazione di un testo di Marx, il più indicativo in merito alle sue concezioni circa i caratteri fondamentali di una scienza della società. L’altro sarebbe la “Prefazione” del 1859, sempre a “Per la critica dell’economia politica”, che tuttavia è assai più sintetico e sbrigativo e presta il fianco a interpretazioni del suo pensiero nel senso del determinismo economicistico.

“La produzione in generale è un’astrazione ma un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo generale, ossia l’elemento comune astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso un qualcosa di complessamente articolato che si dirama in differenti determinazioni. Di queste alcune appartengono a tutte le epoche; altre sono comuni solo ad alcune. Certe determinazioni saranno comuni all’epoca più moderna come alla più antica. E senza di esse sarà inconcepibile qualsiasi produzione; ma, se le lingue più sviluppate hanno leggi e determinazioni comuni con quelle meno sviluppate, appunto ciò che costituisce il loro sviluppo le differenzia da questo elemento generale. Le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venire isolate in modo che per l’unità – che deriva già dal fatto che il soggetto, l’umanità, e l’oggetto, la natura, sono gli stessi – non vada poi dimenticata la differenza essenziale [corsivo mio]. In questa dimenticanza consiste, per esempio, tutta la saggezza degli economisti moderni [i “classici”; nota mia] che dimostrano l’eternità e l’armonia dei rapporti sociali esistenti. Essi spiegano ad esempio che nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, non fosse altro questo strumento che la mano; né senza lavoro passato e accumulato, non fosse altro questo lavoro che l’abilità riunita e concentrata per reiterato esercizio nella mano del selvaggio. Il capitale è fra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato. Quindi il capitale è un rapporto naturale eterno, universale; a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che, solo [corsivo e grassetto miei] fa di ‘uno strumento di produzione’, di un ‘lavoro accumulato’, un capitale” (Marx, Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica).

Questo elemento specifico – per chi sa che per Marx “il capitale non è cosa, ma rapporto sociale” – è esattamente tale rapporto in quanto “storicamente determinato” e caratterizzante la forma di società detta capitalistica con, da una parte, la proprietà dei (potere di disposizione sui) mezzi di produzione e, dall’altra, il lavoro salariato (vendita della capacità lavorativa, intellettuale e manuale, come merce). Nel contempo, si verifica progressivamente la scissione tra i saperi intrinseci all’abilità produttiva basata sulla tecnologia – le cosiddette “potenze mentali della produzione”), unite spesso alla capacità direttiva del complesso produttivo – e il lavoro sostanzialmente esecutivo o addirittura soltanto manuale (addetto semplicemente a servire le tecnologie). Se ci limitiamo alla considerazione degli elementi genericamente comuni ad un qualsiasi processo produttivo (indicati come comuni in base all’astrazione di tali elementi dalla loro collocazione storica specifica) capiamo ben poco dell’evoluzione delle differenti formazioni sociali, cioè dei sistemi di relazioni intersoggettive determinati storicamente e non in generale; poiché questo generale, senza le sue determinazioni storico-peculiari, è la “notte in cui tutte le vacche sono nere”.
Su questo punto – e conscio di molti limiti che sono andato criticando negli ultimi vent’anni (e che qui non ripeto) – sto con Marx riguardo alla storicità di tutti gli elementi “comuni”, “in generale”, che nella loro pretesa eternità (quali principi dell’Uomo, principi Veri, Giusti, Buoni, ecc.) sono troppo spesso funzionali a chi vuol bloccare ogni trasformazione della società. Che si sia sinceri e ci si creda veramente, che si sia disposti a morire per questi principi, non mi basta affatto per giustificare e comprendere, “tout court”, coloro che così agiscono; desidero innanzitutto una disamina del loro agire, delle loro motivazioni, del ruolo e funzione che esplica l’azione di costoro nel sistema specifico dei rapporti sociali in quella data fase storica. Questo il mio modo di pensare; e non l’abbandono pur se posso provare rispetto per chi muore in nome della sua diversa convinzione. Certe conciliazioni sarebbero false, menzognere.
In mutate contingenze appaiono le nostre radicali diversità; ed è bene non nasconderle. Si possono a volte e perfino spesso – ma sempre nell’ambito di particolari congiunture storiche – stabilire delle convergenze d’azione al fine di conseguire alcuni obiettivi. E’ corretto a mio avviso tenere siffatto comportamento, consci però della normale transitorietà storica di dette congiunture; quando esse tramontano, diventa allora molto probabile l’insorgenza di contrasti e anche di radicali divergenze tra gli “alleati”, tra i “cooperanti”. Si arriva così alla divisione e in certi casi, sempre storicamente determinati, alla reciproca eliminazione, finché qualcuno non vince per un periodo di tempo di varia lunghezza.
Questo mi sembra essere stato l’andamento della storia umana, che travolge infine la fedeltà a principi pretesi assoluti sorti nella mente di “soggetti” inseriti in processi di incessante fibrillazione ed evoluzione; in certi casi lenta, tanto che la “realtà” sembra ferma, altre volte in tumultuoso mutamento che tutto travolge e di cui non riusciamo ad afferrare nemmeno i contorni. Sempre vi sarà chi non accetta lo sconvolgimento delle situazioni, chi vorrebbe continuare a vivere in una data “contingenza”, cui si è ormai abituato e che trova a lui confacente; e chi, invece, non vi si trova più a suo agio e fa il possibile, senza dubbio commettendo anche errori vari, per adeguarsi al cambiamento. Cerchiamo di comprendere che non siamo individui astorici, che non rispondiamo semplicemente alla “nostra coscienza” e nemmeno soltanto a “Qualcuno” che da un luogo imprecisato, ma “posto Molto in Alto”, ad essa parla e l’indirizza.
Non siamo nemmeno foglie al vento; siamo tuttavia dentro un flusso in continua vibrazione e riconfigurazione. Ci formiamo molte idee, che sistemiamo in qualche modo, ma sempre sotto la pressione dell’onda che ci trasporta. Cerchiamo la fissità per poterci muovere su un terreno solido e stabile, in cui non trovarci in perenne squilibrio, sempre lì lì sul punto di cadere con le nostre gambette così fragili. Questa fissità è il nostro modo di conoscere, costantemente alimentato da un’ideologia che orienta i nostri punti di vista; con sue dosi più o meno massicce e senza prudenza alcuna oppure con la sobrietà suggeritaci da quella che denominiamo scienza. E tale sobrietà ci obbliga appunto a renderci soprattutto conto che la fissità è una nostra convenienza, ma non è “reale”. Tutto l’esistente muta, scorre, immerso nel tumulto dell’incessante fluire vibratorio; quindi, ogni tanto, è indispensabile riconsiderare il nostro porre quella data “realtà” stabilizzata, perché altrimenti questo necessario, obbligato comportamento diviene assai s-conveniente e ci condurrà soltanto, in ogni caso, al fallimento o addirittura alla morte.
E non mi riferisco soltanto alla cessazione della vita biologica (quella detta “naturale”); bensì soprattutto a quella storica, alla fine di determinate epoche della civiltà o almeno, in via meno decisiva, alla fine di date fasi storiche di una più ampia epoca e alla transizione, più o meno lunga, ad una fase successiva, di cui si è in grado di delineare i caratteri specifici con notevole ritardo e quando essa si è andata consolidando. Per dirla alla Hegel, la nottola di Minerva si alza “sul far della sera”; è sempre con ritardo che arriviamo a cogliere (approssimativamente) i tratti particolari di un dato periodo storico. Per dirla invece con Marx (ma il significato è lo stesso), l’analisi degli eventi succedutisi in esso inizia “post festum”. Perché sempre, tra una fase e l’altra, intercorre una più o meno lunga transizione (trasformazione), anche quando si verificano processi considerati rivoluzionari che mai operano rapidi trapassi. La velocità dei cambiamenti è in definitiva un’impressione dovuta alla durezza (e tragicità) degli eventi durante l’innesco di una transizione di fase; ma l’effettivo “rivoluzionamento” della società, che andrà così stabilizzandosi in nuove forme, si compie in tempi spesso lunghi, durante i quali ci si accorge che si stanno seguendo percorsi storici ben diversi da quelli pensati e voluti dagli iniziatori delle rivoluzioni.
Oggi mi sembra evidente che viviamo una di queste fasi di transizione che condurranno a differenti caratteri storico-specifici di una nuova epoca. Tuttavia, vige sempre il principio dell’accertamento “post festum” di tali caratteri quando sarà possibile fissarli mediante la formulazione di nuove teorie che daranno loro stabilità. Senza mai scordare che quest’ultima è fittizia, ci serve per poter agire senza essere continuamente squilibrati e posti alla fine nell’inazione o nell’agitarsi inconcludente. Pretendere oggi di poter compiutamente formulare queste nuove teorie – dedicandosi ad una più precisa organizzazione delle forze adeguate a compiere le necessarie azioni conseguenti a quel tipo di analisi delle forme sociali – mi sembra ancora largamente utopico. Ci si deve sforzare, questo sì. Dobbiamo acuire la nostra vigilanza in relazione ai mutevoli cambiamenti in atto ormai da tempo. E dobbiamo vincere la pigrizia che ci fa spesso tornare a intendimenti rivoluzionari di epoche passate. Detto più esplicitamente: non si pensi di poter minimamente rinverdire le teorie e le azioni che ne conseguirono nel 1917 russo, nel 1922 italiano, nel 1933 tedesco.
Occorrono soluzioni “pratiche” nuove, guidate da diverse analisi e formulazioni teoriche della società nella fase storica odierna. Con la piena coscienza che stiamo vivendo la “morte” della vecchia epoca e che siamo sommersi dal marciume di una cultura e di una pratica politica frutto di degrado e disfacimento culturale di portata effettivamente “epocale”. Se le nuove generazioni non finiranno di credersi in progresso – perché dotate di sempre nuovi aggeggi tecnici e di nuovi medicamenti, che allungano la vita biologica senza migliorarla nelle effettive sue condizioni di vivibilità sociale – andremo a finire molto male. Ci si svegli infine.

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