LA STRATEGIA AMERICANA DEL CAOS
La strategia del caos di Obama sta mettendo con le spalle al muro il Vecchio Continente. Gli Usa sono sulla difensiva e seminano il panico ovunque, trascinando gli alleati nel pantano internazionale di cui sono artefici. Dal loro punto di vista questo ha una logica. L’ex potenza unipolare rende terre di nessuno quelle aree che ormai sfuggono alla sua orbita egemonica e divide i suoi competitor per impedire che si stringano relazioni potenzialmente antagonistiche al suo campo di pertinenza, mentre riorganizza la sua dottrina geopolitica su nuove e più aggressive basi.
La rinuncia alle certezze dell’epoca antecedente è l’unica strada per accedere alle possibilità del futuro, riacquistando la leadership globale in altre forme e con diversi obiettivi. O, almeno, questo è il suo auspicio. Sta di fatto che una fase si è definitivamente chiusa e non ci si può voltare indietro. Gli Stati Uniti procedono per azzardi successivi, anche contradditori, imponendo mutamenti rapidi e molto rischiosi su teatri mai realmente stabilizzati, come in Medio-oriente e in Africa. Poi si spingono più ad Est per frenare l’ascesa dei giganti asiatici che costituiscono una grave e diretta minaccia alla sua sicurezza. Quest’ultima non coincide con la difesa dei suoi margini territoriali ma con i suoi ideali di preminenza globale. Per questo anche una guerra a migliaia di chilometri da casa viene considerata un fatto di sopravvivenza nazionale. Le primavere arabe (o la guerra in Siria) finanziate e sponsorizzate dalla Casa Bianca ne sono l’esempio. Paesi come l’Egitto e la Tunisia erano governati da loro fiduciari eppure questo non è bastato a conservarli ai vertici dello Stato. Gli americani li hanno ritenuti non adeguati alle loro mutate aspirazioni. Il disordine internazionale di questi ultimi tempi è la conseguenza di queste scelte che però derivano da trasformazioni storiche oggettive, attinenti alla riconfigurazione dei rapporti di forza tra potenze sulla scacchiera mondiale.
I piani americani, per quanto generici e nebulosi, sono dettati dalla consapevolezza che i precedenti equilibri politici, sociali e, persino, culturali non servono più efficacemente la causa del loro imperio. In questo sforzo di chiarificazione del loro stesso destino, molto meno manifesto che in passato, sono disposti a sacrificare partner e valori universali. I primi vengono ripesati e ricollocati sulla loro scala di gradimento, in virtù delle diverse esigenze geografiche, economiche e geopolitiche, i secondi, invece, vengono molto “particolarizzati” se non anche sostituiti con altri meno enfatici e retorici. Lo scriveva qualche mese fa George Friedman su Stratfor, parlando di rapporti di forza nudi e crudi nel confronto con i vari attori mondiali (anche amici) e ricorrendo ad una mentalità non guidata solo da buoni principi, che si sono rivelati illusioni, ma dai calcoli brutali della realpolitik. Insomma, meno slancio spirituale e più pragmatismo delle decisioni. Sempre Friedman ha parzialmente spiegato in cosa consiste questa tecnica (effettivamente non è ancora una strategia compiuta) del caos americano :
“Il punto più critico per gli Stati Uniti è quello di creare un unico piano integrato che tenga conto delle sfide più urgenti. Tale piano deve iniziare definendo un teatro di operazioni sufficientemente coerenti geograficamente da consentire manovre politiche integrate e di pianificazione militare…[occorre] coinvolgere tutti gli avversari contemporaneamente, ma concettualmente, è essenziale pensare in termini di un centro di gravità coerente di operazioni”. In sostanza, dice Friedman, la strategia deve nascere dal caos originato dalle sfide lanciate dagli Usa su quei palcoscenici mondiali che stanno divenendo dirimenti per l’avvenire. Gli Stati Uniti intendono trascinare i concorrenti in calderoni geografici, accendendo o stimolando le spinte centrifughe in essi preesistenti (diatribe etniche o religiose), al fine di concentrare i conflitti in precisi contesti e così gestirli meglio, da una postazione privilegiata. Questo garantirebbe anche minor dispendio di energie e incanalamento dello sforzo laddove occorre. Una simile descrizione, per quanto ancora approssimativa, dovrebbe far capire agli europei che il loro ruolo, al fianco degli Usa, sarà sempre più strumentale e finalizzato agli obiettivi contingenti di questi, anche se fintamente condivisi e inclusivi. Difficilmente l’Europa ne trarrà qualcosa di buono o, addirittura, di non autodistruttivo. Lo abbiamo già visto nell’ultima crisi con la Russia. Ma lo abbiamo riscontrato noi cittadini dell’UE, non di certo i nostri leader stupidi o comprati dal governo americano.