La strategia e le tattiche di Obama
“Il 12 novembre 2011, i leader dei nove paesi de Trans-Pacific Partnership – Australia, Brunei Darussalam, Cile, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti – hanno annunciato le grandi linee di un ambizioso accordo sul libero commercio (Trans-Pacific Partnership (TPP)”.
Così recita il preambolo del comunicato di quei paesi.
A margine del vertice dell’APEC, gli Stati Uniti annunciano un accordo con l’Australia in base al quale si incrementa sino a 2500 uomini il contingente di marines dislocato sull’isola e si concordano agevolazioni all’attracco e alla logistica delle navi militari americane nei porti australiani.
Sono bastate queste due notizie per proclamare l’ennesima svolta nella politica americana e, soprattutto, nei luoghi di “manifestazioni di interesse”.
Allo sforzo di individuare un filo conduttore si tende a sostituire, nell’esame della strategia statunitense da parte della stampa divulgativa, la tentazione di isolare i singoli eventi e giustapporli se non proprio a contrapporli tra di loro.
La tentazione dello scoop giornalistico applicato alla geopolitica è evidente, come pure la vacuità di memoria storica, tangibile anche sugli eventi più recenti, intimamenteconnessa a questo modo di informare.
Gli accordi sono ancora poco più di un annuncio cui devono seguire tutta una serie di concordati e protocolli da sottoscrivere tra i contraenti e in particolare tra essi e la potenza dominante.
Il diavolo si nasconde, come sappiamo, nei particolari.
La conferenza di Doha ed altri eventi simili, riconducibili all’attività dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), stanno ad indicare la laboriosità e l’incertezza di queste trattative.
Quello che conta osservare è, intanto che ciò che risulta di ostacolo a un paese (l’ingresso della Russia nell’OMC come singolo paese e non come aderente ad una zona di libero scambio di paesi ex-sovietici) per altri è del tutto ininfluente.
Ma riguardo a questo sappiamo che, specie in una fase di conflitto generale e focalizzato su tanti focolai, nell’arena internazionale un diritto e quantomeno un criterio comune di giustizia appartengono più alla propaganda partigiana dei contendenti che ad una prassi effettiva.
Quello che tende a sfuggire è, invece, il filo conduttore che lega la politica dell’amministrazione americana dal 2007 in poi ai vari avvenimenti.
Con l’amministrazione Bush-Rumsfeld si afferma una politica di intervento diretto e massiccio della potenza americana in alcune zone di crisi ritenute cruciali con il sostegno collaterale ma del tutto secondario degli alleati disponibili.
Era lo strascico residuo, contraddittorio rispetto all’enorme soft-power di cui disponevano gli Stati Uniti, con la caduta del muro di Berlino e che consentiva loro di gestire per via diplomatica l’assimilazione di decine di paesi nella propria sfera e la formazione di enormi alleanze mosse verso i pochi paesi riottosi o destabilizzanti, in realtà verso il potenziale avversario di sempre: la Russia.
L’Afghanistan, con le truppe americane che sbarcavano con la Bibbia in mano da distribuire alle popolazioni mussulmane locali e la seconda guerra all’Iraq rappresentano gli eventi conclusivi di quella fase tesa ad affermare lo scontro di civiltà, compresa la presunta superiorità di una religione sulle altre, contestuale ad interventi dichiaratamente unilaterali e a facilitare involontariamente l’emersione esplicita di nuovi aspiranti concorrenti, politicamente più autonomi, specie nelle zone decentrate rispetto a quelle sede di conflitto aperto. In quelle due occasioni, l’amministrazione americana regnante ha riscoperto che il loro dominio non era poi così ben accolto sul posto ed nemmeno accettato sportivamente ed attendisticamente dagli altri attori mondiali.
Dall’insediamento del Segretario Gates parte e si afferma la nuova strategia americana, culminata mediaticamente nel discorso di Il Cairo che ha fruttato a Obama il premio Nobel per la Pace, tesa a sfruttare e alimentare le contraddizioni sul posto nei vari punti di crisi e di attacco. I diritti umani diventano il parametro utile a riconoscere, anche ai vassalli più improbabili, la patente necessaria a scalzare i regimi riottosi o più strettamente aggregati alle potenze potenzialmente alternative e a destabilizzare o neutralizzare quelli in grado di resistere.
Il rispetto delle religioni, il rispetto nemmeno formale ma solo dichiarato della democrazia formale o mediatica, servono a recuperare alla causa le fazioni, spesso le peggiori e raccogliticce, appena qualche settimana prima oggetto di attacchi e scomuniche; tutto questo con l’appoggio clamoroso del progressismo e dei paladini dei diritti.
Un miracolo mediatico il cui merito va riconosciuto al Profeta di Washington.
Non che Bush-Rumsfeld non si avvalessero di figure locali per garantire una parvenza di legittimità all’intervento militare. Ma Karzai ed il suo omologo iraqeno sembravano dei puri fantocci messi lì a tentare di scimmiottare le regole parlamentaristiche occidentali.
Con Obama la politica di istigazione tra le varie etnie, quella di frammentazione e ricomposizione di stati assumono un carattere sistematico e, soprattutto, godono di una copertura ideologica, compresa quella religiosa, più corrispondente agli interessi in conflitto; tende, inoltre a riconoscere e stabilire tra i paesi delle gerarchie, anche conflittuali, in base alla collocazione e alle ambizioni di potenza dei vari attori, purché subordinati, per una ragionevole fase storica, agli interessi strategici della potenza americana.
Una strategia del caos tesa a ricostituire un ordine più o meno stabile ancora a prevalenza unipolare.
Tale strategia mira a rompere i vari assi e poli alternativi in formazione nelle varie parti del mondo.
Si è iniziato a colpire quello incipiente russo con la Turchia, l’Italia, la Libia e l’Algeria non disdegnando, contestualmente, di ridimensionare la penetrazione più economica che politica della Cina, soprattutto in Africa e di stroncare sul nascere quelle alleanze in Africa (Libia-SudAfrica) suscettibili di profittare dei varchi offerti dall’ingresso di Cina e India nel continente; adesso prosegue nella ben più complicata area del Pacifico, con strumenti ancora più sofisticati, per proseguire in un prossimo futuro con l’America Latina dove il processo di isolamento del paese più riottoso, il Venezuela e di reintegrazione su nuove basi degli altri è già cominciato, anche se ancora in via preliminare e dall’esito incerto.
La tabella di marcia, ovviamente, è suscettibile di variazioni in base alle contingenze del momento, ai sussulti e alle aspirazioni risorgenti nel mondo, ai comportamenti degli altri gruppi strategici, in particolare quelli presenti negli altri paesi potenzialmente alternativi, in grado di esprimere una sufficiente potenza alternativa.
I clamori della cronaca politica del Pacifico nascondono il carattere di quegli avvenimenti come parte, come un quadrante di quella Grande Scacchiera, magistralmente disvelata da Brzezinsky.
In questa ottica vanno collocati avvenimenti apparentemente agli antipodi come l’annunciato, ma non ancora formalizzato, ingresso della Russia nell’OMT, dopo diciotto anni di anticamera e a condizioni ancora da rivelare, la prosecuzione spedita del gasdotto North-Stream tra Russia e Germania e i minori ostacoli frapposti a quello South-Stream, una volta distrutta la minima sovranità di Italia e Libia e addomesticate, almeno per il momento, alle esigenze americane le aspirazioni di potenza della Turchia.
Paesi ricondotti alla ragione ed una gran parte del gas russo dirottato, quindi, verso le sponde europee.
A questo andrebbero aggiunte le vicende in Iran, compresa l’aggressione atlantica-saudita alla Siria, laddove risulta evidente, ivi compresa la facilità degli attentati nel paese, la permeabilità del paese dei Farsi all’influenza e all’infiltrazione occidentale ed israeliana dovuta a ragioni secolari antiarabe, ai legami delle comunità ebraiche e islamiche con alcune componenti occidentali e ad esigenze tattiche come quelle apparse evidenti in Libia e Iraq. Uno spostamento anche tattico di quel paese determinerebbe una situazione di particolare dipendenza della Cina e di isolamento della Russia.
In questa ottica va collocata la realtà del Pacifico, particolarmente complessa nel suo insieme. In essa operano tre paesi giganti e politicamente caratterizzati: ovviamente gli Stati Uniti, poi Russia e Cina; un gigante politicamente più informe ma tendenzialmente filoamericano: l’India; paesi economicamente e politicamente legati prevalentemente agli Stati Uniti, come il Vietnam, le Filippine ed il Giappone; paesi economicamente più dipendenti dalla Cina ma politicamente di fede americana come l’Australia, ma demograficamente fragili; altri legati alla Cina, come la Birmania; altri a metà strada, fragili ma importanti come l’Indonesia. A questo va aggiunta una variabile secondaria in grado di scatenare contraddizioni, come la presenza francese in Polinesia, fragile ma strategica, invisa all’Australia e nel mirino interessato degli americani.
In questo quadro, l’impegno alla creazione di una zona di libero scambio a predominanza americana, intanto sancito tra Stati Uniti, Perù, Cile, Nuova Zelanda, Australia, Vietnam, Brunei, Singapore e Malesia (TPP), rappresenta il tentativo di ripristino del predominio commerciale e industriale americano in zone attualmente contese. È il tentativo di porre delle barriere precise, sotto forma di clausole di rispetto dell’equilibrio ambientale, di standard di sicurezza sociale, di riconoscimento dei brevetti industriali, di liberalizzazione della circolazione finanziaria e del sistema di fornitura dei servizi e di partecipazione agli appalti, alla penetrazione commerciale e all’influenza economica e in parte politica della Cina. Un prodromo degli accordi di Doha, di là da venire.
L’accentuata presenza militare americana, invocata dagli stessi paesi asiatici relativamente minori come l’Indonesia ed il Vietnam, è il frutto delle contraddizioni e delle contese territoriali presenti soprattutto nel mare della Cina tra i paesi rivieraschi oltre che delle necessità di controllo strategico di quelle zone da parte della superpotenza americana.
Probabilmente questa integrazione, se avverrà, si realizzerà in termini un po’ diversi rispetto alla vera e propria colonizzazione avvenuta negli anni ’90 nei paesi troppo accondiscendenti ai dettami del libero scambio incondizionato.
Alcuni di questi, per altro, in particolare Malesia, Vietnam e Indonesia, sono stati le principali vittime di quella crisi finanziaria del ’97 che innescò un primo fragile processo di polarizzazione degli schieramenti.
Gli stati cosiddetti “border line”, come il Vietnam e l’Indonesia, possono contrattare condizioni di adesione più favorevoli legate alla presenza di paesi outsiders degli Stati Uniti, con ambizioni di potenza alternative ad essi; corrono il rischio, però che, in determinati frangenti, possano cadere vittima delle politiche collusive tra di loro, così come accaduto purtroppo di recente alla Libia e assai più frequentemente, a fine ‘800, ai tanti paesi stritolati dalla competizione coloniale o di potenza.
Le stesse clausole del trattato TPP, infatti, sulla falsariga del WTO, prevedono la conduzione di trattative tra i singoli stati e l’istituzione rappresentativa, in pratica quella pilotata dal paese dominante.
Sarà curioso vedere come sarà possibile garantire, con un minimo di coerenza, l’introduzione di clausole di salvaguardia ambientale e sociale nell’accordo con paesi dagli standard attuali di gran lunga inferiori a quelli cinesi e, nel contempo, fomentare l’esclusione dei cinesi dallo stesso trattato.
Sta di fatto, comunque che le stesse teorie ultraliberiste degli anni ’90 si sono adeguate alle riviviscenze nazionaliste e al maggior multipolarismo ammettendo la possibilità di barriere, parziali e temporanee limitazioni nonché veri e propri interventi statali diretti tesi a sostenere le attività vocate dei vari paesi, presumibilmente quelle a carattere “cotoniero”.
Largo spazio, quindi, a trattative politiche e plateali discriminazioni secondo convenienza e obbiettivi strategici; alla legittimazione di interventi verso stati riottosi oppure instabili e facilmente destabilizzabili, in ultima analisi, come l’Indonesia.
Gli stati attratti economicamente dalla Cina, ma politicamente dagli Stati Uniti, come l’Australia, rischiano, comunque, le maggiori tensioni o di pagare pesantemente in termini economici la loro fedeltà politica.
L’esito dipende in gran parte dalle scelte della Cina, il grande oggetto del desiderio o la mela avvelenata degli americani a seconda degli esiti.
La Cina, infatti, con il prossimo piano quinquennale, mira a costruire una potenza militare parzialmente comparabile a quella americana, a organizzare un minimo di stato sociale e ad alimentare la domanda interna e una diffusione dello sviluppo economico. Vorrebbe, però che questa costruzione economica fosse alimentata dalla propria struttura imprenditoriale, sostenuta dal proprio bagaglio tecnologico ed organizzativo ancora relativamente acerbi. Gli Stati Uniti vorrebbero garanzie di ingresso nelle attività per le proprie imprese con minori vincoli e legami con le imprese locali, senza la cessione ulteriore di tecnologie, con il rispetto rigoroso dei diritti di brevetto e della libertà di movimento dei capitali, con la possibilità, quindi, di controllo almeno parziale delle capacità militari e logistiche del paese e di limitazione o condizionamento delle politiche di esportazione del paese orientale.
Un accerchiamento politico e un condizionamento economico capaci di integrare parzialmente la Cina nei disegni strategici americani e di orientarla in una posizione conflittuale verso la Russia.
Non a caso Hillary Clinton si affanna da anni a predicare che le ricchezze siberiane sono un bene dell’umanità, non una esclusività russa.
A differenza dell’Europa, dove le gerarchie per il momento si stanno profilando abbastanza chiaramente e senza troppi scossoni, in Asia gli attori di peso sono numerosi, la potenza subdominante politicamente fedele è troppo fragile demograficamente ed esposta economicamente, gli altri stati suscettibili di ambire a questo ruolo scossi da rivalità etniche e religiose. Una realtà, quindi, a dispetto della striminzita presenza di 2500 marines in Australia e a conforto degli oltre duecentomila americani presenti in Corea, Guam e Giappone, suscettibile di provocare scontri aperti e difficilmente controllabili.
Quello che appare incontestabile è la progressiva formazione di zone di influenza potenzialmente sempre più impermeabili tra loro e in conflitto; il che non significa che nel frattempo i traffici e le relazioni tra di esse si interrompano. Gli antefatti della prima guerra mondiale insegnano, invece, che possono godere di particolare intensità sino alla deflagrazione dei contenziosi.
La tattica di Obama sino ad ora ha dato ottimi frutti, ma con tantissimi rischi e tanti focolai di conflitto aperti contestualmente.
È come il flusso liquido che inonda e segue vie non completamente prevedibili; crea molti danni, affoga gli inermi, spinge alle invocazioni gli atterriti ma fa emergere e selezionare i più scaltri; nelle fasi di riflusso potrebbe sommergere lo stesso custode e regolatore delle dighe, specie se lungo il percorso ci sono ostruzioni capaci di riportare indietro l’ondata.
Il desiderio di Obama di tornare alle (sue) origini, almeno stando alle agiografie, da dominatore, potrebbe alla lunga costar caro.
http://www.ustr.gov/tpp