La tardiva memoria del passaggio di campo. Qualcuno era comunista (?)_1 di A. Berlendis

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Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona.

Giorgio Gaber

Nel 1764 il curato Jan Meslier morì, dopo quarant’anni di integerrima attività pastorale, lasciando un voluminoso testamento in cui confessava ed argomentava circa il proprio non aver mai creduto in Dio perché “tutte le religioni di questo mondo sono soltanto invenzioni dell’uomo e che tutto ciò che la religione insegna e vi obbliga a credere sul sovrannaturale e sul divino, alla fine non è altro che errore, menzogna, illusione ed inganno” (1). Analogamente, dopo il crollo del campo sovietico, gli ex-Pci hanno esternato pubblicamente le loro memorie, in cui, al di là della varietà barocca delle formule impiegate, hanno ipocritamente confessato o di non aver mai creduto in quell’aggettivo comunista o di avergli attribuito (ovviamente in modo esoterico all’epoca dei fatti!) significati opposti a quelli che ci si immaginava… Però è proprio rovistando tra esse che, mescolati tra affabulazioni e quant’altro, si possono rinvenire elementi che potremmo definire probatori dell’ipotesi lagrassiana del cambiamento di collocazione geopolitica del Pci. Premetto che i casi che utilizzo sono esemplificazioni paradigmatiche, quindi valide per l’insieme della componente prevalente del gruppo dirigente piciista portatrice soggettiva di quel processo.

 

1. Prima però di trattare il punto centrale in questione, credo non sia inutile far emergere quale fosse—ad esempio secondo Alfredo Reichlin—l’architrave della linea politica togliattiana ed a quale tipologia di trasformazioni sociali mirasse. Nella sua autobiografia politica Reichlin riporta il seguente interrogativo:Credevate nella rivoluzione?”, mi chiese una volta Vittorio Foa.” (2) A tal quesito aveva a suo tempo già risposto sostenendo che Berlinguer “Era animato da una ‘scandalosa’ convinzione. Quella che bisognava tornare a pensare la politica in funzione dell’idea che una rivoluzione italiana fosse ancora attuale. Intendendo con questa parola grossa (come egli stesso spiegò) una seconda tappa di quella autentica rivoluzione democratica che tra il ’43 e il ’46 aveva trasformato l’Italietta sabauda e fascista nell’Italia repubblicana.” (3) In un dialogo giornalistico con Macaluso ha precisato ancor meglio i connotati che il termine assumeva secondo lui per il Pci: “Del resto, tu ed io siamo stati dirigenti di un partito, che si chiamava comunista. Non credo (io no, certamente) che abbiamo tanto lottato perché volevamo dare all’Italia un regime comunista. Il nome non corrispondeva alle cose. Il programma del Pci era – ci spiegò Togliatti – la Costituzione. È anche per questo che io molti anni dopo accettai di cambiare il nome di quel partito. Non per opportunismo o per cancellare una storia, ma perché il Pci era stato una grande cosa in quanto era quel luogo, quel complesso di cose, di uomini, di culture, di speranza, di strumenti organizzativi che inveravano il bisogno del cambiamento.” (4) Al fine di rafforzare il sillogismo da lui posto secondo il quale rivoluzione = costituzione = programma del Pci, ad una assise del Pd ha dichiarato:“Parlo della ragione per cui la destra non ha mai sentito la Costituzione come propria. Quel documento infatti non fu scritto dalle forze realmente dominanti, quelle che stanno alla base della trama profonda e non contingente del potere. Fu scritta—ecco lo scandalo—dai capi delle masse escluse cioè da quelle forze popolari che erano state tenute fuori dalla costruzione della Nazione.” (5) Risulta così plausibile quanto scriveva nel primo dopoguerra di lui Renato Mieli, allora dirigente del Pci, circa il suo essere seguace di Ingrao: “aveva in comune con lui una maniera di ragionare che sconfinava immancabilmente nelle più astruse e incomprensibili divagazioni.”.(6) Effettivamente proprio svolgendo tali (s)ragionamenti che ci ha rivelato—adesso—che per lui la denominazione Pci stava per Partito della Costituzione italiana….

 

 

2. Passando al punto cruciale del passaggio di campo geopolitico del Pci, Reichlin parte dalla considerazione che l’ascesa di Enrico Berlinguer alla testa del Pci fu un evento cruciale.”(7) sostenendo che alla fine degli anni ’60 vi fu la “necessità di fare i conti con le ambiguità del Pci che la generazione di Togliatti ci aveva consegnato. E per ambiguità intendo anche il fatto che il rapporto con l’Urss aveva comportato molte arretratezze culturali. Bisognava uscire dalla condizione di una opposizione ambiguamente collocata tra una vecchia cultura alternativa al sistema e una visione nazionale (non solo di classe) dei problemi del Paese volta a rendere possibile una funzione di governo. E questo tema non era più separabile da quello di uscire dal campo sovietico. Di qui lo ‘strappo’ con Mosca. E, in coerenza, la dichiarazione sulla Nato come strumento di garanzia per la gestione stessa della lotta democratica in Italia nelle condizioni storiche di allora. Questo è stato il segno politico della sua segreteria.”.(8) Ancor più puntualmente circa quest’operazione (geo)politica di uscita dal campo sovietico, afferma: “so che fin dall’avvento di Berlinguer, il gruppo di uomini a lui più vicini considerava come compito politico principale il cambiamento della collocazione geopolitica del Pci. Sia pure gradualmente, e senza imbarcarsi in spinose dispute ideologiche sul socialismo reale, bisognava preparare un’uscita dal campo sovietico. Stando però attenti—questo era l’assillo di Berlinguer—a non indebolire i legami non solo con la base, ma con tutto un mondo di partiti e movimenti in lotta contro il colonialismo, un mondo che era allora una grande forza di ispirazione laica e socialista”. (10) Poste in quest’ottica, le diverse mosse tattiche del Pci appaiono—a posteriori—come interne a quella strategia complessiva di uscita, pur dispiegata in modo non lineare, contorto e contraddittorio, anche per gli ostacoli da gruppi sordamente opponentesi alla linea berlingueriana: “La verità è che la ‘terza via’, l’eurocomunismo, i rapporti con Brandt e Olaf Palme e le socialdemocrazie nordiche, e poi la dichiarazione che sanciva l’esaurirsi della ‘spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre’ negando finalmente che l’Urss fosse un paese socialista, sia pure dai tratti fallimentari, e infine le frasi sull’ombrello Nato e il documento di politica estera sottoscritto in Parlamento insieme al governo, furono tutte tappe di uno stesso processo.” (10) Qui si esce dalle circonvoluzioni della volteriana metafisocoscemologia delle precedenti considerazioni circa il significato del termine ‘rivoluzione’. Si riconosce apertamente che il cambiamento di campo geopolitico del Pci fu un progetto politico perseguito intenzionalmente dalla componente berlingueriana del gruppo dirigente nel corso di un dato arco temporale e attraverso una navigazione contorta e condotta sottotraccia. L’analogia iniziale con il curato Jan Meslier, non è però calzante sino in fondo a causa di una differenza fondamentale. Mentre infatti il curato svolse la sua attività all’interno della Chiesa e solo dopo esplicitò la sua non credenza in essa, il gruppo dirigente berlingueriano effettuò l’operazione di traghettare la propria Chiesa nel campo opposto continuando però nello stesso tempo a fingere di credere, per i fedeli, in un’entità divenuta indeterminata e misteriosa (il socialismo, propinato per ‘elementi’ e rintracciabile sulla mappa stradale alla ‘terza via’). Parafando Benda, ci fu quindi tradimento ma non solo dei chierici!

NOTE

(1) Dal ‘Messaggio ai curati del vicinato’ http://www.alateus.it/Meslier.htm

(2) Reichlin ‘Il midollo del leone’ Laterza editore 2010 Pag 21

(3) Reichlin ‘Berlinguer e noi, vent’anni dopo’ L’Unità 25 aprile 2004

(4) Reichlin a Macaluso di Alfredo Reichlin Il riformista 18 febbraio 2012

(5) http://www.partitodemocratico.it/doc/45602/lintervento-di-alfredo-reichlin.htm

(6) Renato Mieli ‘Deserto rosso. Un decennio da comunista.” Mulino editore pag. 42

(7) Reichlin ‘Il midollo del leone’ Laterza editore 2010 Pag 105

(8) Reichlin ‘Il midollo del leone’ Laterza editore 2010 Pag 108

(9) Foa, Mafai, Reichlin ‘Il silenzio dei comunisti’ Einaudi pag 53

(10) Foa, Mafai, Reichlin ‘Il silenzio dei comunisti’ Einaudi Pag 54