La tenerezza di Draghi

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Nel suo primo discorso al Senato per chiedere la fiducia ai suoi membri, il banchiere Mario Draghi ha detto:

“Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere”.

Permettetemi di sorridere delle parole di questo competente. Costui non conosce la storia benché sia sicuramente un supertecnico dell’economia pluri-qualificato e iper-ricompensato per i suoi servigi alla finanza internazionale (molto poco italiana). Bisogna andarci piano con l’esistente in quanto per secoli l’Europa è stata teatro di guerre sanguinose e di divisioni. Ancora oggi, sotto il mantello solidaristico europeo, covano i duri rapporti di forza che, dissimulati dall’acquis communautaire, prima o poi emergeranno a stravolgere la narrazione tanto cara ai sognatori dell’economica dominante come Draghi.
Quest’ultimo fa un discorso a dir poco infantile quando sostiene l’irreversibilità dell’euro che è solo un mezzo di circolazione e di scambio dei prodotti che durerà finché gli Stati lo vorranno e lo accetteranno. L’esistenza dell’euro è condizionata al permanere dell’UE. Vedremo quanto sopravvivrà questa Europa impolitica e disarmata nel policentrismo conclamato, quando i grandi giocatori geopolitici passeranno alla mani. Ci vorrà ancora tempo ma su questo c’è poco da dubitare. E’ sempre accaduto e riaccadrà che si accenderà la lotta per la predominanza e allora a poco serviranno i bei discorsi sulla cessione di sovranità dei singoli a favore dell’inesistente comunanza d’interessi tra popoli europei.
L’ingenuità di Draghi mi riporta alla mente un episodio del secolo scorso. E’ narrato nel testo di Victor Sebestyen su Lenin:

“il primo giorno dopo la Rivoluzione Lenin a titolo personale e il Sovnarkom a titolo formale chiesero al capo della Banca nazionale, Ivan Pavlovič Šipov, di versare 10 milioni di rubli al governo. Šipov si rifiutò, affermando che sarebbe stato illegale. Non riconobbe il regime bolscevico né il soviet come governo legittimo; i dipendenti della Banca nazionale si erano uniti allo sciopero dei funzionari statali. Di lì a tre giorni Lenin chiese nuovamente i soldi e ricevette un altro rifiuto. I corrieri mandati dall’Istituto Smol´nyj con le cambiali furono respinti e ben presto il Sovnarkom sarebbe rimasto a corto di fondi e dell’appoggio di chiunque sapesse come funzionava il sistema bancario. «Alcuni tra noi lo appresero […] da libri e manuali» ammette un collaboratore del Partito. «Ma non vi era nessuno […] che conoscesse le procedure tecniche della Banca di Stato russa.»
Il 7 novembre Menžinskij, accompagnato da un drappello di guardie rosse e da un piccolo distaccamento di soldati, arrivò in banca, dove trovò soltanto Šipov e alcuni dei suoi collaboratori più fidati. Diede loro l’ultimatum. Se i soldi non fossero comparsi entro venti minuti, tutti i «colletti bianchi» al di sopra della posizione di impiegato avrebbero perso il “il lavoro e la pensione, e tutti gli uomini in età di leva sarebbero stati arruolati nell’esercito e mandati al fronte. I dipendenti tennero duro.
Šipov fu messo sotto sorveglianza e rinchiuso allo Smol´nyj, nella stanza di Menžinskij. Il commissario dovette dividere la camera con il suo vice.
Di lì a tre giorni Lenin, furioso con Menžinskij, ordinò al vicecommissario Nikolaj Gorbunov e al nuovo commissario della Banca di Stato Nikolaj “Osinskij di «andare a prendere il denaro, almeno 5 milioni, e di non osare tornare senza».
Le guardie rosse circondarono la banca mentre i due bolscevichi entravano nell’edificio e ordinavano agli impiegati, sotto la minaccia delle armi, di aprire i caveau. Cinque milioni di rubli furono riposti frettolosamente in alcuni sacchi, come in un caper movie. Gorbunov e Osinskij si misero i soldi in spalla, salirono su un’auto corazzata e li portarono direttamente nell’ufficio di Lenin. Lui non c’era; i due trasferirono il denaro in sacchi di velluto rosso e montarono la guardia. Osinskij impugnò per tutto il tempo un revolver armato. Quando Lenin tornò, era raggiante. I sacchi furono collocati in un vecchio armadio in un ufficio attiguo, sorvegliati costantemente da una sentinella. Quello fu il primo ministero del Tesoro sovietico.”

La morale è chiara. Con un revolver si smentiscono le idee dei banchieri. Fine della vecchia legalità e principio di quella nuova.

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ALCUNE PICCOLE LEZIONI AI DRAGHISTI E NEOLIBERISTI

Nel 1841 l’economista tedesco Friederich List criticò la Gran Bretagna dicendo che predicava il libero scambio agli altri pur avendo raggiunto la supremazia economica grazie a dazi elevati e ampio ricorso a sussidi alle imprese. Accusò i britannici di aver «dato un calcio alla scala» dopo averla utilizzata per arrivare alla leadership economica mondiale: «È un abile stratagemma, molto diffuso: quando uno ha raggiunto l’apice, dà un calcio alla scala che ha usato per arrivare in cima, così che gli altri non abbiano modo di salire dopo di lui…E prosegue dicendo: «Qualsiasi nazione che […] sia riuscita a portare il suo potere produttivo e la sua rete commerciale marittima a un livello tale per cui nessuna altra nazione sia in grado di competere liberamente, non può fare nulla di più saggio che dare un calcio alla scala che l’ha portata all’apice, predicare agli altri i benefici del libero scambio e dichiarare in tono pentito di aver percorso la strada sbagliata e di essere riuscita infine, per la prima volta, a scoprire la verità». Friedrich List, The National System of Political Economy,
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti non sono le culle del libero scambio: di fatto, per un lungo periodo sono stati i paesi più protezionisti del mondo. È vero che non tutti devono il proprio successo a protezioni e sovvenzioni, ma pochi ce l’hanno fatta senza.
L’idea, per nulla intuitiva, che l’economia nel suo insieme possa comportarsi diversamente dalla somma delle sue singole componenti è di John Maynard Keynes, che sosteneva che ciò che è razionale per un individuo può non esserlo per l’economia nel suo complesso. Per esempio, durante una fase recessiva, quando le aziende assistono a un calo della domanda per i loro prodotti, i lavoratori hanno maggiori possibilità di essere licenziati o di ritrovarsi con un salario ridotto. In una situazione di questo tipo, è prudente che imprese e lavoratori riducano le rispettive spese. Ma se tutti gli attori economici si comportano allo stesso modo, si ritroveranno in una situazione peggiore, perché l’effetto complessivo di questo comportamento è una riduzione della domanda globale, che a sua volta incrementa le possibilità di fallimento e licenziamento, per tutti. Di conseguenza, sostiene Keynes, il governo, cui spetta il compito di gestire l’economia nel suo insieme, non può ricorrere a una versione in grande scala dei piani d’azione che sono razionali per i singoli agenti economici. Dovrebbe consapevolmente fare sempre il contrario di ciò che fanno gli altri attori economici. In caso di recessione, quindi, dovrebbe aumentare la spesa per contrastare la tendenza di imprese e lavoratori a ridurre la loro. In fase di espansione, dovrebbe ridurre la spesa e incrementare l’imposizione fiscale affinché la domanda non superi l’offerta in aggregato….
Ma, a partire dagli anni Ottanta, con l’ascesa del neoliberismo e del suo approccio «monetarista» alla macroeconomia, il focus della politica economica è cambiato radicalmente. I monetaristi vengono definiti tali appunto perché ritengono che i prezzi aumentino quando la massa monetaria in circolazione è eccessiva rispetto alla quantità di beni e servizi disponibili. Sostengono inoltre che alla base della prosperità vi sia la stabilità dei prezzi (lotta all’inflazione) e quindi che la disciplina monetaria (necessaria per avere prezzi stabili) debba essere il principale obiettivo della politica macroeconomica…econdo i neoliberisti due sono gli elementi essenziali per raggiungere un tasso d’inflazione basso. Innanzitutto, rigore monetario: la banca centrale non deve incrementare l’offerta di moneta al di là dello stretto necessario per sostenere la crescita reale dell’economica. In secondo luogo, ci dev’essere prudenza finanziaria, ovvero nessun governo deve vivere al di sopra dei propri mezzi (torneremo presto sull’argomento).
In tema di disciplina monetaria, la banca centrale, che controlla l’offerta di moneta, deve concentrarsi esclusivamente sulla stabilità dei prezzi…[ma]c’è inflazione e inflazione. Quindi, se l’alta inflazione è dannosa, un’inflazione moderata (fino al 40 per cento) non solo non è necessariamente dannosa, ma può essere persino compatibile con una rapida crescita e la creazione di posti di lavoro. Possiamo addirittura sostenere che un certo grado d’inflazione è inevitabile in un’economia dinamica: i prezzi cambiano perché l’economia cambia ed è quindi naturale che i prezzi salgano quando ci sono molte attività nuove che creano nuova domanda.
Se un’inflazione moderata non è dannosa, perché mai i neoliberisti ne sono ossessionati?… Un basso tasso d’inflazione protegge meglio ciò che i lavoratori hanno già guadagnato, ma le politiche richieste per ottenere tale risultato potrebbero ridurre ciò che guadagneranno in futuro. Perché? Perché le politiche monetarie e fiscali restrittive necessarie per ridurre l’inflazione, soprattutto a tassi molto bassi, porteranno a una contrazione dell’attività economica che, a sua volta, farà calare la domanda di lavoro, aumentare la disoccupazione e diminuire i salari. Di conseguenza, il rigido controllo dell’inflazione è un’arma a doppio taglio per i lavoratori: assicura una migliore protezione dei redditi presenti, ma riduce quelli futuri. Un tasso d’inflazione più basso è una benedizione solo per i pensionati e per chi, come il settore finanziario, trae il proprio reddito da strumenti finanziari a tasso fisso: essendo al di fuori del mondo del lavoro, non risentono degli effetti negativi delle politiche macroeconomiche deflazioniste (minori opportunità di occupazione e diminuzione dei salari), mentre beneficiano di quelli positivi (miglior protezione del reddito esistente).
I neoliberisti strombazzano ai quattro venti che l’inflazione colpisce la popolazione in generale…Ma questa retorica populista omette di dire che le politiche necessarie a ridurre l’inflazione produrranno una contrazione degli introiti futuri della maggior parte dei lavoratori riducendo le prospettive occupazionali e salariali…Come sosteneva la principale tesi di Keynes, quello che conta è che il governo svolga un’azione anticiclica che faccia da contrappeso al settore privato, incrementando la spesa durante le fasi recessive e generando eccedenze di bilancio quando l’economia va bene.
È passata alla storia la risposta data da John Maynard Keynes a chi lo accusava di essere incoerente: «Quando le cose cambiano, io cambio idea – e lei, signore?». Molti ideologi, non tutti purtroppo, sono come Keynes. Cambiano idea, e lo hanno già fatto, quando si trovano di fronte a nuovi sviluppi del mondo reale e a nuove tesi, a patto che siano abbastanza convincenti da permettere loro di abbandonare le convinzioni mantenute in precedenza.
Ha-Joon Chang, ESTRATTI DI Cattivi samaritani, Il mito del libero mercato e l’economia mondiale