“LA TEORIA DEL PARTIGIANO” di G. Duchini

Il punto di partenza di Schmitt, per una riflessione filosofica politica, fu la sua scoperta del sorgere improvviso, nella storia del mondo, di una figura atipica di guerriero combattente, chiamato partigiano.(cfr, Carl Schmitt “La Teoria del Partigiano” ed.,Adelfi)

E Schmitt intravide in questa prima figura del partigiano, il combattente irregolare spagnolo, che seppe irradiarsi come “popolo in armi”, contro il moderno esercito napoleonico francese uscito dalla rivoluzione francese (1808-1813); un primo esempio di “guerra di guerriglia” che aprì nuove teorie intorno alla guerra e alla politica: un patrimonio di idee ripreso nella nota formula della “guerra come continuazione della politica” che contiene in nuce la teoria del partigiano, ripresa con una certa lena teorica soprattutto da Lenin e Mao.

La figura storica del partigiano a cui alludeva Schmitt è “il partigiano che difende il suolo nazionale contro l’invasore straniero diventò l’eroe che combatte veramente un vero nemico. Questo era il grande avvenimento che aveva condotto Clausewitz alla sua teoria e alla stesura di “Della Guerra”.

E questo fu anche il motivo di fondo, per cui il Congresso di Vienna del 1814-1815, come conseguenza della sconfitta napoleonica, ristabilì il diritto classico della guerra, nel quadro di una restaurazione: “la guerra è condotta da Stato a Stato come una guerra di eserciti regolari, statuali, fra due depositari sovrani di uno ius belli che anche in guerra si rispettano come nemici e non si discriminano vicendevolmente come criminali, cosicché una conclusione pacifica è possibile, anzi rimane perfino la normale, ovvia conclusione della guerra. Di fronte a una simile regolarità classica, il partigiano non poteva che rimanere una figura marginale, come lo è stato effettivamente nel corso dell’intera prima guerra mondiale”.

 

Le implicazioni filosofiche-politiche della figura storica del partigiano hanno occupato l’intero Novecento ed hanno influenzato enormemente, tutto il pensiero strategico, a partire da Lenin.

Il concetto di Politico, cui si faceva riferimento, era l’idea di uno Stato (secoli XVII e XIX) che regolava la guerra, secondo il diritto internazionale europeo, come puro conflitto interstatale. Nel XX secolo, tale tipo di guerra, lineare nelle sue delimitazioni di conflitti tra stati, venne “eliminata e sostituita con la guerra rivoluzionaria di partiti”.. E fu proprio Lenin “il primo a vedere nel partigiano una figura decisiva della guerra civile nazionale e internazionale”; e quello che apprese da Clausewitz non fu soltanto la nota formula della ”guerra come continuazione della politica”, quanto e soprattutto, un nuovo oggetto fondamentale della propria analisi: la “guerra rivoluzionaria è per Lenin vera guerra, perché nasce dall’inimicizia assoluta, individuata nel vero nemico da combattere, per opera del partigiano, vero professionista della politica rivoluzionaria: un più complesso piano antagonistico, non solo quello linearmente militare tra stati, quanto nei confronti dell’intera costruzione del’ordinamento politico e sociale esistente.

Anche se il più grande esperto della pratica della guerra rivoluzionaria è Mao Tsetung; i suoi scritti (in particolare le Opere Scelte vol.II, Casa editrice Pechino, 1972, cap I “ Problemi Strategici della Guerra Partigiana Antigiapponese” del 1938, pag. 77-241,) vengono ancora studiati in tutte le accademie militari.

La “Lunga Marcia” di ritirata dell’esercito cinese, a seguito dell’invasione giapponese del 1932, fu condotto Mao (dalla Cina alla Frontiera della Mongolia e mirabilmente descritta nel famoso libro “Stella Rossa sulla Cina” dal giornalista americano Edgar Snow) e costituì la più grande esperienza pratica-teorica di vittoria di una guerra civile Nazionale contro il nemico interno il Kuo Min Tang e il generale Chiang Kai-shek, sulla base delle esperienze delle lotte partigiane contro i giapponesi.

Certo è che il teorico Clausewitz, non poteva prevedere la portata, di quel suo capitolo sul partigiano, che ebbe con, la rivoluzione di Mao, la “nazione in armi”; una gigantesca lotta partigiana con una capacità organizzativa in grado di trapiantare stabilmente i principi combattenti del partigiano , in un contesto contadino, dove “ dove la pace di oggi è la forma esteriore di una inimicizia effettiva” si tratta quindi di trovare “ una maniera adatta alle circostanze, di mettere in azione una reale inimicizia con mezzi diversi da quelli apertamente violenti. Solo dei deboli e degli illusi possono ingannarsi su questo punto”

Con questa lunga premessa storica Carl Schmitt integrò la teoria del partigiano (1963), al suo più celebre testo “Le Categorie del politico”, la cui chiave di lettura fu simboleggiata dall’antitesi “amico nemico”, quale riconoscimento per ogni definizione del “Politico”; nonché, per ogni grado di approssimazione di un analisi che va oltre la semplice ostilità dell’avversario, e/o del nemico personale, per arrivare al nemico pubblico: l’essenza fondamentale di una Politica in quanto tale.

Oltre al tentativo di Schmitt di spiegare la fine dell’ Eurocentrismo, con un’ Europa vinta ed emarginata, come conseguenza della Vittoria militare americana (e Urss) della Seconda Guerra Mondiale, sul fascismo e nazismo, insieme ad una esautorazione dei capitalismi borghesi europei (in primis, Francia e Inghilterra), realizzata dalla penetrazione del Capitalismo Manageriale Usa.

Certo è che quel grande filosofo-costituzionalista tedesco non poteva immaginare che cosa nascondesse quella chiave di lettura che impresse nel paradigma del “combattente irregolare”. Ne poteva (pre)vedere, quello che nessuno altro aveva visto: la fine del Capitalismo Borghese Ottocentesco, avvenne come un movimento tellurico prodotto dall’emersione del Capitalismo Manageriale Usa, che si impose dagli ultimi decenni dell’ Ottocento (con la fine della guerra di secessione americana del 1865) e che allungò la sua fase espansiva fino alla vittoria della guerra mondiale del 1945.

Carl Schmitt, quando scrisse quel saggio, nel ventennio successivo alla fine dell’ultimo conflitto, aveva ancora davanti a sé l’immagine desolante del paesaggio del dopoguerra; ed e’ proprio da questa immagine, che scaturirono nuovi stimoli teorici-filosofici, aiutati da una sua notoria chiaroveggenza politica, che racchiudeva una forza mitopoietica, nel significato più profondo di un declinante destino politico ormai riservato all’Europa.

La “teoria del partigiano” rappresentò un punto (molto) alto di scienza politica, che Schmitt rivolse sul versante del nuovo mondo bipolare, uscito alla fine della Seconda Guerra Mondiale, formato dai due sistemi contrapposti, Usa-Urss e non comunicanti, in il cui conflitto strategico venne rallentato a bassa temperatura (Guerra Fredda), entro un equilibrio atomico.

Un mondo bipolare durato circa Quarant’anni (fino al 1989, caduta del muro di Berlino), in cui la Politica inflitta a ciascun paese europeo (dell’Ovest come dell’Est) non poteva essere esercitata in piena autonomia; su ciascuna sovranità nazionale venne posta, come suggello del dominio delle maggiori potenze vincitrici, una ipoteca politica, in grado di depotenziare al massimo i conflitti; e su cui potesse campeggiare un concetto di nemico che, nella parte Occidentale, fu ridotto ad una personale lotta di resistenza contro tutte le chiese, i sistemi e gli apparati, in una difesa estrema di tutte le espressione di individualismo; fermo restando, che il reale Nemico politico da combattere fu confinato nella conflittualità interstatale tra i due sistemi Usa-Urss: un immaginario collettivo dell’insieme dei paesi dominati, che diventò una pura contrapposizione ideologica tra Capitalismo e Socialismo.

Il “politicamente corretto”, tanto in auge ai giorni nostri, fa riferimento ad una politica policromica tesa ad amplificare l’immagine del partigiano (combattente irregolare), esaltato in ogni espressione di individualismo e di anticonformismo politico, con l’idea che “essere uomo vuol dire essere combattente, e che l’individualista coerente è uno che lotta davvero per conto proprio, e anche a proprio rischio e pericolo, se è coraggioso. Egli diventa così partigiano di se stesso”.

Conseguenza fondamentale della mancanza di una Politica come Potenza che, secondo Weber (cfr, “Economia e Società” ) risulta fondamentale per operare concretamente su una realtà concreta nazionale, il cui mantenimento della Politica sta “nell’uso della forza di un dominio ordinato sopra un territorio e sopra i suoi occupanti”; un’idea, che il discepolo Schmitt fece propria, traendone le dovute conseguenze: l’assenza della Politica (come potenza) dissolve la figura del rivoluzionario di professione conosciuto nella prima metà del Novecento

Una conferma ulteriore delle conseguenze storiche di quell’indagine di Schmitt le troviamo in Italia nei movimenti “giovanilistici sempre eterni” dal Sessantotto in poi, con i “professionisti dei cortei di strada”, rapidamente promossi sul campo della politica nostrana e tutti arruolati negli apparatcik dei partiti e/o giornali della sinistra, che hanno saputo dilatare, oltre che dilapidare, un intero patrimonio politico dei comunisti togliattiani; degenerati a loro volta, nel periodo berlingueriano, in una genericità politica senza contorni e contenuti, lontani anni luce dal concreto comunista resistenziale della prima ora; con il risultato di una fenomenologia politica diffusa del “Sessantottino” radical-partigiano, che non definisce ne delimita più un campo polare (amico-nemico), riducendo la politica ad una semplice contrapposizione al nemico (vedi l’antiberlusconismo) intesa come “conflitto discriminatorio”.

Ne ci si può sottrarre agli effetti di quella fenomenologia politica recepita e trasformata dagli Usa, subito dopo l’implosione dell’Urss (1988), in guerra senza limiti, assoluta, totale, fino alla criminalizzazione del nemico inteso come nazioni e popoli, attraverso una sorta di filosofia del partigiano, a cui aderiscono individui, gruppi politici, partiti, e un insieme di “rivoluzioni colorate”, che agiscono ovunque ed in qualsiasi modo possano colpire i nemici; e che, di fatto sono i propri interessi nazionali, speculari a quelli dei funzionari capitalistici Usa che operano nello stesso paese, come il prodotto più velenoso del capitalismo Manageriale Usa: un gioco dell’apparenza che nasconde il reale; così come la politica dei manager nella distribuzione dei dividendi agli azionisti, nasconde i reali interessi, in gioco, di ogni strategia dell’impresa manageriale.

L’individualismo economico, costantemente e strenuamente difeso dall’insieme strategico Usa, rappresenta un velo non solo economico: è soprattutto la difesa estrema di ogni diritto individuale, umanitario, etico, religioso, sessuale.. ; e che solo l’avvento del multipolarismo è in grado di far risorgere “l’ultima sentinella della terra”.


GIANNI DUCHINI dicembre ‘10