L'AFFERMAZIONE DI UNA STRATEGIA DI POTENZA: LA POLITICA AFRICANA DELLA CINA COMANDANTE MBAYE CISSE (SENEGAL) CID, 14e PROMOTION (fonte diploweb.com)


Trad. di G.P.]
Nel momento in cui le potenze occidentali sembrano trascurare il continente africano o vi hanno mantenuto soltanto una soglia di presenza minima, la Cina ha dimostrato la sua capacità di assumere il suo nuovo ruolo di potenza emergente. Dando prova di un dinamismo impressionante, essa ha messo in opera una strategia globale per trovare nuove frontiere alle sue popolazioni ed alla sua economia. Attore a pieno titolo della mondializzazione, Pechino ha compreso il vantaggio che poteva ottenere dall’Africa utilizzando una delle armi più temibili del dopo guerra fredda: la potenza economica. Questa potenza all’opera attraverso tutto il continente non ha ancora rivelato tutte le sue intenzioni. Ad ogni modo, oltre ai problemi che continua a sollevare, chiama l’Africa alla possibilità di farsi carico del suo destino e a considerare l’aiuto esterno, che essa riceve, come un supplemento e non come il principale perno del suo sviluppo.
Memoria redatta al CID nel quadro del seminario geopolitico sull’Africa diretto dal professore Bernard Lugan e nel quadro del Master ricerca in relazioni internazionali dell’università Panthéon-Assas, sotto la direzione di Nicolas Haupais
Nel 1979, Deng Xiaoping, architetto della riforma e dell’apertura della Repubblica Popolare Cinese (RPC), fissava due obiettivi principali alla diplomazia cinese: la pace e lo sviluppo. I risultati per il secondo obiettivo non sono tardati ad arrivare. In venticinque anni, la Cina ha moltiplicato il suo prodotto interno lordo di 9,4 punti. Quest’ultimo culmina a 1400 dollari pro capite nel 2004 contro 50 dollari del 1949. Vale a dire che le previsioni sul risveglio cinese sembrano arrivare a termine e che “l’Impero di Mezzo” è in via di ritrovare il suo posto nel concerto delle nazioni. Dopo avere tratto le giuste lezioni da un passato segnato dalla politicizzazione eccessiva della sua diplomazia, la Cina sembra optare per una posizione pragmatica risolutamente orientata verso l’apertura e l’irradiamento sotto tutti i punti di vista.
Spinta da una crescita economica molto forte, la RPC intende garantire il suo ammodernamento mediante un’apertura più grande verso gli altri attori del sistema internazionale. Come indica il libro bianco del governo cinese pubblicato il 22 dicembre 2005, “imboccare la via dello sviluppo pacifico è legare lo sviluppo interno all’apertura al mondo esterno, annodando lo sviluppo della Cina a quello delle altre parti del mondo.” (È noi che traduciamo). È a partire da questa visione strategica che Pechino si annuncia sotto le sue nuove vesti in Africa. Questo ritorno in forza al piano diplomatico ed economico, dopo il maremoto taiwanese degli anni ‘90, ha attirato l’attenzione degli analisti delle relazioni sino-africane, che decriptano i segni che annunciano uno sconvolgimento nel divenire del continente. Per fare fronte alle necessità inerenti alla sua crescita, Pechino avrebbe intenzionalmente legato il suo strumento diplomatico alla dimensione delle opportunità offerte dalla fine della guerra fredda, fra le quali l’apertura dei mercati successiva alla globalizzazione dei cambi[1). A questo proposito, nota Angel Ubide, “la conquista dell’Africa è un progetto di politica estera segnato dall’impiego del potere economico invece che dalla potenza militare, come pure l’offerta di concessioni
politiche per esercitare un’influenza esterna[2).” Infatti, la fine del bipolarismo est-ovest è coinciso con l’emergenza pacifica[3]di una Cina che diviene inevitabilmente un polo di potenza nella riconfigurazione della geopolitica mondiale. Una nuova era che la Cina inaugura sotto il segno dello “sviluppo armonioso”, aperto a tutti i popoli del mondo, in particolare a quelli del Sud, secondo la terminologia terzomondista degli anni 1960. Sotto un’apparenza pacifica, in opposizione ai modelli colonialisti, essa stende il suo mantello da “fratello maggiore” sui paesi del Sud e invocando uno sviluppo condiviso la Cina ha trasformato l’Africa in un attore privilegiato nella costruzione di un nuovo ordine mondiale nel quale la relazione sino-africana sarebbe sinonimo di progresso reciproco.
Così, “la Cina veglia al fine di stabilire e sviluppare un nuovo tipo di partenariato strategico con l’Africa, caratterizzato dall’uguaglianza e la fiducia reciproca sul piano politico, la cooperazione condotta nello spirito “benefici-benefici” sul piano economico ed il rafforzamento degli scambi sul piano culturale[4). “Naturalmente questa dichiarazione di buone intenzioni suscita interrogazioni in molti ambienti africani. Se alcuni circoli manifestano già il loro ottimismo presentando la nuova politica cinese in africa come l’ultima possibilità del continente di uscire dal suo sottosviluppo cronico, altri non trascurano di vedere dietro l’offensiva di Pechino l’espressione di una nuova avventura coloniale da cui l’Africa uscirà probabilmente straziata. Questo lavoro non ha l’ambizione di esaminare questa percezione dualistica. In compenso, cerca di mettere alla prova e procedere alla convalida dell’ipotesi di lavoro che segue: la “nuova luna di miele” annunciata da Pechino s’iscrive in una prospettiva dinamica di rinnovamento della politica cinese in Africa che ha sempre fatto del continente nero un elemento chiave della sua irradiazione diplomatica. Contrariamente al militantismo degli anni 70, il nuovo impegno di Pechino è volontariamente imperniato sullo sviluppo economico del gigante cinese di cui tutti gli strumenti di potenza sono oggi tesi verso un solo scopo: trasformare la Cina in uno Stato forte, affermandosi sul continente africano, ormai innalzato a spazio d’espansione strategica. Quest’esigenza condizionata, soprattutto, dalla ricerca di una sicurezza energetica, piazza l’Africa e le sue materie prime al cuore delle preoccupazioni cinesi. Inoltre, l’assalto della RPC genererà sconvolgimenti profondi che non trascureranno di alterare un ambiente africano già fortemente influenzato dal suo passato coloniale, e le cui elite politiche restano ancora divise tra il conformismo e la ricerca di nuove risposte al sottosviluppo. È con questa fase cerniera del suo divenire che l’Africa firma un nuovo contratto con la Cina attraverso un partenariato strategico che si tratterà di decriptare in tutti i suoi aspetti.
In una prima parte, sarà inizialmente utile esaminare i vari principi fondanti della politica cinese in Africa. Quest’ultima è caratterizzato dalla valorizzazione di un modello di cooperazione, opposto al modello coloniale occidentale che ha strutturato le relazioni dell’Africa con il resto del mondo. Infatti, anche se nulla predispone la Cina a mantenere relazioni privilegiate con il continente africano, a causa della distanza geografica e dell’assenza di determinanti culturali comuni, la rivalutazione cinese della politica africana si iscrive in una tradizione fondata su una legittimità tripla sulla quale veglia gelosamente Pechino. Al primo pilastro costituito dalla legittimità storica, nata dall’implicazione della Cina nelle lotte di liberazione di molti paesi africani, si aggiungono, in estensione, gli altri due rappresentati dall’eredità ideologica terzomondista della guerra fredda e soprattutto la promozione dei principi di non
ingerenza e di neutralità come base del partenariato con l’Africa. Si tratterà in seguito, a partire da questi tre pilastri fondanti, porte d’entrata della RPC sul continente, di esaminare le forme d’espressione della potenza cinese attraverso uno spettro di valutazioni differenti. Esse si esprimono soprattutto sul piano politico con la messa in atto di una cornice istituzionale sino-africana con la quale la Cina si dà i mezzi per strutturare il suo intervento. Questa tappa costituisce il trampolino ideale per sviluppare una diplomazia economica che alcuni mettono al centro del rinnovamento della presenza cinese in Africa in ragione, certamente, del suo forte “tasso petrolifero”. Per infittire la sua presenza, e preservare il carattere globale della sua strategia, anche la cooperazione militare e quella culturale sono oggetto di un’attenzione particolare e costituiscono altri campi d’interesse non trascurabili del ritorno di Pechino sul continente. Infine, nella seconda parte, si tratterà di misurare l’impatto multiforme della strategia cinese sulle grandi sfide politico-economiche che riguardano l’Africa. In questo ambito, l’influenza cinese di lungo corso pone interrogazioni multiple. Sul piano politico, i principi messi in evidenza da Pechino voltano le spalle al modello liberale proposto dalle vecchie potenze coloniali ed aprono la via ad una rilettura della democratizzazione degli stati africani. Nel settore economico, il passo di Pechino è volto a modificare profondamente gli schemi di sviluppo socioeconomico nel momento in cui emergono strategie collettive come il Nuovo Partenariato per lo Sviluppo dell’Africa (NEPAD). A questo titolo, essa solleva con acutezza il problema delle opportunità offerte, ma anche dei rischi per le economie africane. Last but not least, la messa in atto della politica africana della Cina presagisce cambiamenti importanti nell’architettura della sicurezza del continente e potrebbe, alla fine, influire sul settore della pace e della stabilità a causa della rivalità tra potenze che non trascurerà di riproporre.
BASI E MANIFESTAZIONI DELLA POLITICA AFRICANA DELLA CINA All’inizio era la storia! Tale sembra essere il credo della Cina per celebrare il suo ritorno sul continente africano. Per una potenza emergente senza passato coloniale in Africa(5), si tratta di sigillare tale tracciato intorno a principi fondanti che hanno la loro legittimità nella storia comune e condivisa. Come ricorda volentieri il Presidente cinese Hu Jintao, “l’amicizia sino-africana immerge le sue radici nella profondità del tempo e non cessa di approfondirsi col passare degli anni(6).” Questa legittimità storica costituisce il trampolino ideale per assestare la legittimità ideologica frutto della presenza indefettibile della Cina al fianco dell’Africa, come porta bandiera dei non-allineati, durante le lotte egemoniche della guerra fredda. A questo proposito nota Valére Niquet: “lungi dall’abbandonare le vecchie tematiche, Pechino si sostiene anche su un discorso terzomondista Sud-Sud fondato su un passato, costantemente ricordato, di lotta comune contro tutti gli impérialismi(7).” Questo combattimento condotto gomito a gomito mette la Cina e l’Africa su uno stesso piede d’uguaglianza e giustifica un rispetto reciproco la cui espressione completa rimane la non ingerenza e la neutralità, terzo principio fondante della diplomazia cinese in Africa. Con i percorsi di “come back” ben lastricati, la politica africana può ormai declinarsi in molti settori. Fedele alla sua tradizione dei “piccoli passi”, la diplomazia cinese si è data i mezzi per raggiungere i suoi obiettivi istituendo, soprattutto, strutture politiche sino-africane, istanze d’espressione e di razionalizzazione della sua “offensiva”. Col superamento di tale tappa, essa può velatamente mettere in opera la sua diplomazia economica e commerciale centrata sulle
risorse petrolifere, obiettivo principale del suo ritorno in Africa. Infine per completare il dispositivo, la presenza economica indica la via ad altre forme di cooperazione, che mirano a rafforzare la presenza cinese sul continente.
CAPITOLO I: LE BASI DELLA POLITICA AFRICANA DELLA CINA
Nonostante l’impressione innovativa che sembra caratterizzare il “volo” della diplomazia cinese in Africa, è necessario riconoscere che si iscrive nella continuità di una politica africana della Cina, che prende forma a partire dalla coniugazione di molti eventi verificatisi nel mondo, nella seconda metà del XX secolo. La proclamazione della RPC nel 1949 e l’aumento delle rivendicazioni nazionalistiche in favore della liberazione hanno generato una comunanza di interessi e di destini tra la Cina ed il continente africano. Quest’ultimo ha costituito un capitale prezioso che Pechino non ha tardato a far fruttare nelle sue nuove relazioni con l’Africa. Questa ricerca di legittimità radicata nella storia vissuta in comune è inquadrata da un terzo principio, incarnato nel culto della non ingerenza negli affari interni.
Sezione 1: La legittimità storica come principio fondante
Il contatto tra Africa e Asia risale a tre millenni fa. È infatti a partire dal X secolo A.C. che la Cina sviluppa i suoi primi scambi commerciali con l’Egitto. Occorrerà attendere la dinastia dei Ming (1368-1644) per assistere a veri peripli marittimi da parte del navigatore Zheng He sulla costa orientale africana. Tuttavia questa politica d’apertura al mondo sarà fermata per molti ragioni(9). La proclamazione della RPC e la fine della lunga notte coloniale africana saranno il pretesto per ristabilire il contatto con l’Africa attraverso, inizialmente, i tentativi d’emancipazione e di affermazione portati dalla conferenza di Bandung, quindi tramite le lotte di liberazione in molti paesi del continente.
La conferenza di Bandung: il riavvicinamento sino-africano
La conferenza di Bandung nell’Indonesia, dal 18 al 24 aprile 1955, segna la prima tribuna offerta alla Cina per ristabilire le sue relazioni con l’Africa. Da un lato, Bandung costituiva la via sognata da Pechino per portare il suo sostegno ai paesi in lotta contro la sovranità coloniale, e dell’altra, permetteva di assestare la sua diplomazia nascente interessata a rompere le catene della tutela sovietica. Come sottolinea Adama Gaye: “il terreno era tanto più favorevole alla Cina che disponeva, all’alba dell’ indipendenza africana, di un ulteriore vantaggio. Tutto la avvicinava infatti ai paesi africani che avevano appena rotto le catene del colonialismo vendicandosi, come essa, di anni di sovranità esterna(10).” Convocata su iniziativa di cinque paesi asiatici (Birmania, Ceylan, Indonesia, India e Pakistan) la conferenza ha accolto sei paesi africani tra cui due grandi dell’epoca, l’Egitto e l’Etiopia. È a partire da questa tribuna che il primo ministro indiano, Jawaharlal Nehru, ha lanciato la sua famosa mano tesa all’Africa, in nome del continente asiatico, in questi termini: “spetta all’Asia aiutare l’Africa al massimo delle sue possibilità, poiché siamo continenti fratelli.(11)”
La liberazione, fermento della solidarietà militante
Per una Cina il cui invito non era stato previsto alla conferenza preparatoria di Bogor del 1954, l’occasione era utile per ristabilire la sua influenza sul suolo africano. Dopo avere dimostrato la sua solidarietà con l’Egitto nasseriano nel corso del suo braccio di ferro con la coalizione franco-britannica conseguente alla nazionalizzazione del canale di
Suez nel 1956, la Cina ha approfittato di tutte le tribune internazionali per invocare la liberazione dell’Africa, in particolare nel corso della conferenza di Belgrado del settembre 1961. È toccato al primo ministro, Chou En-Laï, figura emblematica della rivoluzione cinese, chiamato in alcuni circoli “l’Africano”, indicare le nuove vie di cooperazione sino-africane. Nel 1963-1964, intraprende un giro di tre mesi durante i quali visita una decina di paesi africani. Il suo giro si è concluso con la firma di numerosi accordi e soprattutto con la prospettiva per Pechino di arruolare il massimo di paesi africani nel suo grembo al fine di iniziare la sua battaglia ideologica intorno al concetto della “teoria dei tre mondi”. Infatti agli inizi degli anni ‘70 Mao Zedong appunta la politica estera cinese attorno alla divisione del mondo in tre blocchi distinti. Gli Stati Uniti e l’URSS formano il “primo mondo” e si presentano come le due superpotenze impérialiste. I paesi asiatici sotto-sviluppati, dell’Africa, dell’America Latina costituiscono il “terzo mondo”, e sono allo stesso tempo le vittime dell’oppressione e dello sfruttamento, ed i motori essenziali della lotta contro il l’egemonismo neocoloniale. Infine i paesi sviluppati dell’Europa occidentale e il Giappone, il Canada e l’Australia sono sistemati nell’alveo del “secondo mondo”. Mao stabilisce una relazione di lotta e di solidarietà tra il secondo mondo ed il terzo mondo nel quadro della lotta contro le due grandi potenze dominanti.
Sezione 2: L’eredità ideologica della guerra fredda
La lotta anticolonialista non è l’unico fermento che riavvicina i rapporti sino-africani. Oltre al passato coloniale comune ai due partner, Pechino non manca occasione per mettere in risalto l’appartenenza alla medesima sfera ideologica. Infatti, lo slancio terzomondista della Cina risale agli anni 1960, punto di partenza della lotta ideologica che si svolge tra Mosca e Pechino. Con la dichiarazione di Khrouchtchev di trasformare la coesistenza pacifica nella base della politica estera dell’URSS, la Cina di Mao grida al revisionismo e denuncia la volontà del suo alleato russo di relegare in secondo piano la liberazione dei popoli del terzo mondo e la solidarietà internazionale rivoluzionaria.
La rivalità sino-sovietica
Questa lotta ideologica si esprimeva con forza nel movimento dei non allineati. Sul piano diplomatico, la Cina guadagna la sua prima vittoria trovando il suo seggio al Consiglio di sicurezza, nel 1971, grazie al volere africano. Nel settore economico rimarca la sua solidarietà segnalandosi con grandi iniziative: vengono accordati 722,5 milioni di dollari di prestiti di cui 400 milioni per il progetto ferroviario di Tanzam che collega la Tanzania allo Zambia. Dal 1972 al 1973, un’assistenza economica imperniata sui settori agricoli e medici è messa in atto in Congo, in Egitto, in Somalia, in Sudan, ed in Zambia. Come sottolinea Jean Christophe Servant “la presenza cinese in Africa si riassumeva con il tecnico venuto ad assistere il paese fratello da poco affrancatosi dalla sua tutela coloniale contribuendo così alla sua crescita. Quindicimila medici e più di diecimila ingegneri agronomi furono allora inviati verso questo terzo mondo trasformato in postazione di second’ordine della guerra fredda.(12)”
L’appoggio ai movimenti di liberazione
L’aiuto ai movimenti di liberazione è rivolto, in particolare, in Angola con il movimento popolare per la liberazione dell’Angola (MPLA) in Mozambico con il fronte di liberazione del Mozambico (FRELIMO) o allo Zimbabwe con lo Zimbabwe African National Unity (ZANU)(13). Nonostante un isolamento relativo sulla scena internazionale ed africana imputabile in parte al trionfo della “distensione
internazionale” raccomandato da Mosca, Pechino conserverà un’influenza reale sul continente africano in particolare presso gli ultimi movimenti di liberazione, soprattutto dello African National Congress (ANC) nella lotta contro il regime della segregazione fino al 1994. Questo ruolo principale svolto da Pechino ha contribuito ad assestare l’idea di una terza via risolutamente anticolonialista e militante. L’eredità ideologica della guerra fredda si trova così recuperata nell’ottica di fondare una nuova legittimità garante di relazioni benefiche tra il “più grande paese in via di sviluppo (la Cina) e il più vasto continente in sviluppo (l’Africa)”. Tutte le dichiarazioni ufficiali delle autorità cinesi sul partenariato sino-africano celano un effluvio di storia comune.
Sezione 3: La neutralità e la non ingerenza
Per completare il suo sistema e riassicurare al meglio i suoi partner, la Cina intende fondare le sue relazioni sulla non ingerenza e la neutralità. Questa disposizione del partenariato strategico sino-africano si iscrive nella panoplia degli atti di rottura con il modello di sviluppo e di cooperazione promossi dalle vecchie potenze coloniali. Costituisce una perpetuazione della logica del blocco che vuole che la Cina e l’Africa, anche dopo la fine della guerra fredda, si identifichino nello stesso campo.
§3. La strutturazione dell’ambiente degli affari
Nel corso dei diversi forum sino-africani, la Cina ha gradualmente lavorato ad allargare la sua cooperazione nei settori del commercio, degli investimenti e della tecnologia. A livello commerciale, Pechino ha tessuto una rete densa di strutture di scambi centrata sull’esistenza di 49 delegazioni commerciali e di camere di commercio sino-africane. Fino ad oggi, ha stabilito sul continente undici centri di promozione degli investimenti e del commercio. Come nel Sud-est asiatico ed in Asia centrale, la Cina intende ottenere un accordo di libero scambio con il mercato comune dell’Africa orientale ed australe (Common Market for Eastern and Southern Africa o COMESA). In occasione dell’ultimo FCSA, ha espresso la sua volontà di aprire maggiormente il mercato cinese ai paesi africani e portare, da 190 a più di 440, il numero dei prodotti che beneficiano di una tariffa doganale pari a zero e provenienti dai paesi africani meno progrediti aventi relazioni diplomatiche con la Cina; di creare, nel corso dei tre prossimi anni, da tre a cinque zone di cooperazione economica e commerciale nei paesi africani. Questo passo si iscrive chiaramente in una logica commerciale concorrente con i meccanismi della stessa natura come African Growth Opportunity Act (AGOA), lanciato dagli Stati Uniti nel dicembre 2006, o gli accordi con l’Unione Europea – Africa Caraibi Pacifico (UEACP). Nel settore degli investimenti, la Cina si segnala sempre più con la sua volontà di partecipare ai flussi finanziari mondiali. Questa politica d’investimento in Africa è soprattutto articolata attorno all’acquisizione di giacimenti di materie prime (fra cui il legno ed i minerali metalliferi), e della ricerca di partenariati necessari all’accesso ed all’approvvigionamento di energia. Il modus operandi in materia d’investimento è spesso invariabile. Comincia con l’attivazione di una joint-venture con un’impresa locale o internazionale per acquisire diritti d’esplorazione e di sfruttamento (è il caso del Sudan) quindi si collega con l’importazione del materiale e della manodopera cinese per la realizzazione delle infrastrutture (strade e condutture) necessarie al trasporto del petrolio verso le località portuali. Questa politica d’investimento si iscrive in una strategia globale di sicurezza energetica e non si occupa affatto di redditività immediata, cosa che aumenta di molto le possibilità della Cina soppiantare le istituzioni finanziarie classiche
occidentali. Per promuovere meglio gli investimenti, la Cina è presente nel settore bancario. Così nel 2000 Eximbank (una banca di importazioni-esportazioni cinese) ha stabilito la sua prima filiale a Khartoum in Sudan. In occasione dell’ultimo FCSA del novembre 2006, sono stati firmati circa sedici contratti commerciali per un importo di due milioni di dollari . Infine, la politica d’investimento realizzata da Pechino non è per niente neutrale. Mira a creare le condizioni d’espansione e d’esportazione per le ditte cinesi sul continente africano. Infatti, i prestiti concessi sono generalmente destinati alla costruzione o alla riparazione di infrastrutture. La gara d’appalto per la realizzazione dei suoi appalti è spesso favorevole alle imprese cinesi a causa della loro capacità di importare la manodopera del loro paese. In Algeria, ad esempio, la China State Construction and Engineering Corporation (CSCEC) guadagna spesso i contratti pubblici. Il nodo è strettamente allacciato, poiché Pechino ritrova indirettamente una parte della sua posta iniziale attraverso le sue imprese di costruzione e lavori pubblici (BTP),e si fanno rimborsare il suo prestito dagli stati debitori pur dando lavoro ai propri cittadini. Parallelamente, il mercato africano, meno esigente del mercato occidentale sulla qualità dei prodotti, diventa gradualmente un mercato-prova per l’industria cinese. Da alcuni anni, le imprese cinesi si segnalano nella costruzione di centrali elettriche (Sudan e Mozambico), si approcciano all’aeronautica in Zimbawe ed al nucleare civile in Sudafrica. Si aggiunge che migliaia di prodotti manifatturieri a buon prezzo inondano tutto il continente africano, diventato per le ditte cinesi un mercato ad alto potenziale(29). A tal proposito, nota François Lafargue, “anche se le imprese cinesi cristallizzano l’insoddisfazione, accusate di frodi doganali e di fare una concorrenza sleale all’economia locale ed informale, i governi africani restano benevoli, ritenendo che l’intrusione della Cina sia un mezzo per dinamizzare la concorrenza permettendo di superare i circuiti commerciali tradizionali.”(30) Così, la messa in atto di strutture politiche atte “ad istituzionalizzare” il dialogo sino-africano, combinata all’offensiva economica basata sulla protezione della politica energetica cinese a lungo termine, offre alla Cina la leva per instaurare una cooperazione bilaterale o multilaterale con l’Africa in altri settori e rafforzare gradualmente la sua presenza
Sezione 3: La cooperazione bilaterale o multilaterale
Anche se la diplomazia petrolifera rimane al cuore delle preoccupazioni cinesi, Pechino utilizza altri strumenti per assestare la sua posizione in Africa. La gamma di iniziative bilaterali e multilaterali si estende dalla cooperazione militare agli scambi socioculturali, passando per la partecipazione alle missioni dell’Onu di mantenimento della pace.
§1. La cooperazione militare sino-africana
Oggi, la cooperazione militare ha seguito gli stessi passi della cooperazione economica sotto copertura, come sempre, del sacro principio della non ingerenza. Essa concerne la fornitura di armi e la formazione di personale. La Cina ha aperto tre fabbriche di armi leggere in Sudan; fabbriche di munizioni e di armi leggere nello Zimbabwe ed in Mali. Accordi di fornitura di materiali militari con la Namibia, l’Angola, il Botswana, il Sudan, l’Eritrea, lo Zimbabwe, le Comore o la Repubblica del Congo. La Cina non ha esitato a vendere al Sudan aerei di sorveglianza F-7 ed aerei di trasporto Y-8 in piena guerra civile, per il periodo durante il quale le sue società petrolifere erano impegnate nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi di Muglad. Queste vendite sono realizzate generalmente dalla North Industry corporation (NORINCO) e dalla Polytech Industries, la più importante ditta di vendita di armi dell’esercito cinese. Il mercato africano, come
nel settore delle BTP, è l’occasione di provare un materiale spesso “frugale” e poco valutato sui mercati occidentali. È in Africa che la RPC trova uno sbocco per i suoi aerei d’addestramento K8, forniti alla Namibia, al Sudan e allo Zimbabwe. La Cina fornisce elicotteri al Mali, all’Angola ed al Ghana, artiglieria leggera e veicoli blindati alla quasi totalità dei paesi della regione australe, come pure degli autocarri militari, uniformi, materiale di comunicazione. La cooperazione è particolarmente stretta con lo Zimbabwe dall’inizio degli anni 1980 e si è rafforzata nel 2004. Pechino gli fornisce carrarmati, artiglieria, blindati e autocarri, vedette rapide e batterie di difesa antiaerea. Nel settore della formazione, si assiste da alcuni anni ad un aumento significativo del numero di corsi di formazione militare in tutti i settori, nel momento in cui le porte delle accademie militari europee sono sempre più chiuse alle elite africane. La Cina si è anche impegnata a formare nei tre prossimi anni, circa 15000 africani, di cui una buona parte sono soldati. Questa politica d’armamento preoccupa le organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo come Amnesty International. In una relazione pubblicata nel giugno 2006, Amnesty appunta le forniture di armi cinesi nelle zone in conflitto come la RDC dove il 17% delle armi registrate a Bunia, nella regione dello Ituri, è d’origine cinese. La stessa relazione presenta la Cina come “uno dei paesi meno trasparenti e più irresponsabili in materia di esportazioni di armi”. Infatti, da otto anni, Pechino non pubblica alcuna informazione sulle sue attività di trasferimento di armi all’estero sul registro delle armi convenzionali delle Nazioni Unite. Ritarda anche a ratificare il trattato internazionale sul commercio delle armi.
§2. Gli scambi socioculturali
Cosciente del posto della cultura nella dichiarazione e nella perpetuazione delle relazioni sino-africane, Pechino non ha voluto che questo settore fosse trascurato. Come nota Renaud Delaporte, “il riconoscimento dell’identità culturale del continente costituisce un aspetto inerente della politica cinese. “Se il G8 o l’OMC non hanno mai pensato di invitare gruppi di danze folcloristiche o di esporre circa 300 pezzi di scultura o lavori di terracotta, in occasione delle loro aride conferenze per esperti, i cinesi, invece, ne hanno immediatamente compreso la nécessità(31) “così nel 2004, sono state organizzate tre manifestazioni a carattere culturale, in questo caso un festival internazionale intitolato “appuntamento a Beijing “, una tournée sulla cultura cinese ed un festival delle gioventù cinese ed africana. Parallelamente, uno scambio interlinguistico è iniziato con la creazione della prima stazione radiofonica cinese, Cina radiofonica internazionale (GRIDO), in Kenia dal febbraio 2006. Ha margine di questo strumento di divulgazione e di scambio, si aggiunge la creazione di centri culturali confuciani, in Camerun, Zimbabwe ed Kenia. Il dialogo culturale rafforza l’opposizione della Cina alle norme tradizionali del partenariato nord-sud nel quale le culture africane sono relegate in secondo piano. Tutto ciò è sempre al servizio di una logica commerciale ben pensata poiché “invece delle copie dei marchi occidentali sulle polo, ci sono i marchi cinesi che le africane porteranno via dai mercati”.(32) Questa promozione culturale si sostiene anche su una “diaspora” cinese valutata in 130.000 persone in Africa, e che raggiunge ufficiosamente i 500.000 ingressi(33). La presenza di cinesi sul continente risale a molti secoli fa. Tuttavia, il loro stabilimento massiccio in molti paesi africani è successivo all’apertura sul mondo esterno voluta dalle autorità cinesi, dall’applicazione delle misure di riforma iniziate da Deng Xiaoping. Presente in Sudafrica, Madagascar, Isole Mauritius, Kenia, Tanzania ed Africa dell’Ovest (Senegal, Mali ecc ) la Comunità
cinese cresce sempre più sul continente, portata soprattutto dall’onda commerciale. Generalmente, si tratta di cooperatori o di operai cinesi che sono rimasti in questi paesi per dedicarsi ad un’attività commerciale. Con tali iniziative, riescono in alcuni anni a segnalarsi nel piccolo commercio di prodotti manifatturieri e raccogliersi in zone che finiscono poi per controllare (sviluppo del fenomeno delle China Towns). Propagatori della cultura cinese, i cittadini della “diaspora” costituiscono soprattutto i relè economici per la distribuzione dei prodotti cinesi, cosa che li espone alle proteste degli industriali e commercianti locali. Pechino pensa a compensare il deficit della sua immagine con la promozione della cooperazione turistica. Il libro bianco sulla politica della Cina in Africa promette “di applicare effettivamente il programma dei viaggi organizzati di cittadini cinesi in paesi africani;” di aumentare, su richiesta dei paesi africani ed in funzione della fattibilità, il numero di destinazioni turistiche autorizzate per i cittadini cinesi. Secondo l’Ufficio d’amministrazione delle entrate ed uscite del ministero cinese della sicurezza pubblica, il numero di cinesi che visitano l’Africa è raddoppiato tra il 2005 ed il 2006 e si quantifica oggi in 110.000 persone. Il progetto d’instaurazione di dieci villaggi industriali integrati in Africa, dedicati alle imprese cinesi, permetterà di aumentare il numero di cooperatori e di commercianti cinesi sul continente.
§3. La presenza militare sotto mandato dell’ONU
L’Africa costituisce per la Cina un nuovo campo d’azione della sua irradiazione diplomatica grazie alla sua partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace. Investendo tale spazio, Pechino firma allo stesso tempo la sua entrata in un settore fino a quel momento riservato alle vecchie potenze coloniali, Francia Gran Bretagna in primis. Segno della sua apertura e del posto che accorda alla coppia pace-sviluppo, la Cina ha inviato nel gennaio 2003 un primo contingente nella RDC nel quadro della missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in Congo (MONUC) destinato a garantire un sostegno medico. Nel 2005, un secondo contingente ha partecipato alla Missione delle Nazioni Unite in Liberia (MINUL), dopo il riconoscimento di Pechino di questo paese. Fino ad oggi, circa 1500 soldati cinesi sono presenti in Africa nel quadro del mantenimento della pace. Si aggiunge che Pechino ha aiutato finanziariamente l’Unione africana (UA) per lo spiegamento dei caschi bianchi nel Darfour. Questa presenza per il momento simbolica potrebbe essere naturalmente crescere man mano che gli interessi cinesi si rafforzeranno. Insomma, la politica africana della Cina ormai rientra in un ciclo irradiante attraverso una presenza multidimensionale sufficientemente visibile, al punto da sollevare interrogativi multipli fra cui il più importante riguarda il futuro delle relazioni sino-africane. L’impegno e la determinazione delle autorità cinesi a prendere piede sul continente, il dinamismo economico delle sue imprese petrolifere e commerciali, la cooperazione militare e culturale, sono altrettanti paletti i cui impatti, già percettibili, annunciano profondi sconvolgimenti nell’universo delle relazioni sino-africane.
TITOLO II: PROSPETTIVE SINO-AFRICANE
L’ampiezza dell’offensiva cinese sul continente africano non lascia indifferenti tanto le sfide che suscita sono molteplici. Infatti, il ritorno marcato della Cina interviene in un contesto geopolitico mondiale caratterizzato dalla ridefinizione di un nuovo ordine politico ed economico nel quale l’Africa ha penato a trovare riferimenti. Questa situazione si verifica anche in un momento critico dove il continente, benché attraversato da conflitti multipli, sta tentando d’innescare un movimento di democratizzazione sotto
l’occhio vigile delle vecchie potenze coloniali, ma anche sotto la spinta significativa delle sue popolazioni, le cui aspirazioni per un po’più di cittadinanza non cessano di farsi valere. Sul piano economico, la presa di coscienza di uno sviluppo collettivo è sempre più forte e mobilita i governi africani attraverso la promozione del NEPAD. In questo contesto, la strategia di potenza spiegata da Pechino non può mancare di generare confusioni profonde su un triplice piano: politico, economico e di sicurezza. Quali sono gli impatti politici della diplomazia cinese sul futuro della democrazia in Africa? Essa è sinonimo di opportunità economiche o di pericoli per lo sviluppo del continente? Quali sono i rischi sottostanti alla presenza cinese in Africa nel settore della pace e della sicurezza collettiva? Altrettante questioni che segnano le nuove relazioni sino-africane e che esigono risposte urgenti, e almeno un approccio prospettico per descrivere le grandi tendenze.
CAPITOLO I: GLI IMPATTI POLITICO-ECONOMICI DELLA POLITICA CINESE La caduta DEL MURO di Berlino nel novembre 1989, non ha soltanto segnato la fine dei totalitarismi nell’Europa dell’Est. Ha sparso anche i venti della democrazia attraverso i continenti chiamando ad una più grande partecipazione dei popoli alle scelte che li riguardano. In Africa, gli anni 90 inaugurano l’era delle conferenze nazionali e della democratizzazione della vita politica. Nel corso della conferenza di La Baule del 1990, il Presidente Mitterrand suonò le campane a morte del monopartismo. A partire da questa data, si è assistito alla messa in atto progressiva di aiuti, funzionali agli sforzi di democratizzazione dei regimi africani. Quest’approccio è stato più o meno mantenuto dal suo successore Jacques Chirac secondo il quale, “essere portatori d’aiuti oggi, significa appartenere alla grande famiglia delle nazioni industrializzate e democratiche.” Una famiglia che ha la sua cultura, le sue solidarietà ed i suoi riflessi, in particolare la buona gestione, la trasparenza, il dialogo, il rigore, l’efficacia. È per questo che i portatori di aiuti tendono ad allontanarsi dai paesi aiutati che non rispettano questi stessi criteri che, d’altra parte, si impongono a loro stessi(34)”. Questa tendenza è così chiaramente percettibile nei paesi anglofoni in cui la Gran Bretagna non esclude più di utilizzare sanzioni economiche per condannare le derive autoritarie dei membri del Commonwealth. Fu il caso della Nigeria, sotto il regime, del dittatore Sani Abacha o del Presidente Robert Mugabé dello Zimbabwe. È anche diventata una quasi-norma della politica d’assistenza africana dell’Unione europea, e degli Stati Uniti. Nello stesso tempo, sono adottate, dalla creazione dell’ UA nel 2002, misure politiche ferme tendenti a promuovere la stabilità dei paesi africani, fra queste, il rifiuto di riconoscere i governi conseguenti a putsch militari. Grosso modo, il ritorno della Cina si verifica nel momento in cui la ricerca di un ambiente politico stabile, sulla base di norme di devoluzione del potere trasparenti, è un’opzione più concreta. Nello stesso tempo, l’apertura cinese è volta a modificare profondamente le prospettive di sviluppo economico del continente.
Sezione 1. Le minacce sullo Stato democratico e l’integrazione politica
Mettendo le sue relazioni con i paesi africani sulla base immutabile e sacrosanta della “neutralità e della non ingerenza”, la diplomazia cinese sembra costituire un freno all’emergenza dello Stato di diritto in Africa. Nello stesso tempo, ritarda l’integrazione politica del continente pur dando a Pechino i mezzi della sua irradiazione nelle istituzioni internazionali a scapito delle potenze concorrenti.
§1. Le minacce sullo Stato democratico
A. Lo scudo cinese o i rischi di promozione del malgoverno
Per salvaguardare i suoi rapporti commerciali ed allo scopo di restare fedele alla sua “diplomazia di non rottura”, Pechino non esita ad utilizzare il suo statuto di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU per difendere i suoi alleati. Così in luglio e in settembre del 2004, ha minacciato di utilizzare il suo diritto di veto per bloccare l’adozione di sanzioni politiche e petrolifere contro il Sudan accusato di genocidio nel Darfour. Nell’aprile 2005, si è astenuta sulle disposizioni di cattura della Corte penale internazionale (CFI) che mira a tradurre in giudizio i responsabili sudanesi implicati in crimini di guerra nel Darfour. Oggi, il Sudan si oppone sempre allo spiegamento di truppe dell’ONU sul suo suolo, con il sostegno discreto di Pechino. Per fare fronte al suo isolamento internazionale, il Presidente Robert Mugabe dello Zimbabwe ha intrapreso una politica d’apertura in direzione delle imprese cinesi. In cambio, il primo ministro cinese non ha trascurato di esprimere il sostegno della Cina alla riforma agraria nello Zimbabwe. Incantato da Pechino, Robert Mugabe ha dichiarato nel maggio 2005 in occasione del 25° anniversario dell’indipendenza del suo paese: “occorre voltarsi verso Est, laddove si alza il sole”. In Etiopia, gli appelli insistenti degli Stati Uniti a favore dell’organizzazione di elezioni trasparenti, nel 2005, sono stati ignorati dal partito al potere che “raccomandava un ravvicinamento con Pechino come alternativa(35). “D’altra parte, con la Nigeria, nonostante le condanne multiple del regime autoritario di Sani Abacha da parte della Comunità internazionale, la Cina si era mostrata molto conciliante, proseguendo risolutamente la sua politica energetica con questo paese. Ugualmente in Angola, la RPC è accusata dalle organizzazioni non governative di sostenere indirettamente la campagna elettorale del Presidente Eduardo Dos Santos, con il finanziamento di numerosi progetti elettoralistici per il partito al potere. Questa situazione rappresenta una minaccia per la costruzione dello Stato di diritto in Africa. In primo luogo, il sostegno della Cina costituisce una boa di salvataggio per regimi politici spesso denigrati. Perpetua inoltre il malgoverno politico del continente sotto il pretesto del rispetto della sovranità degli stati. Infine, è in grado di scalzare gli sforzi delle organizzazioni dei diritti dell’uomo interessate ad issare i paesi africani nel gruppo delle nazioni rispettose degli standard in materia di diritti elementari della persona. Infatti ,il futuro politico del continente africano è strettamente legato alla sua capacità di inserirsi nella Comunità internazionale sotto qualsiasi punto di vista. Come sottolinea Yves Alexandre Chouala “il partenariato tra l’Africa ed i paesi sviluppati riposa su elementi essenziali – rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, democratizzazione della vita politica – che funzionino se non come costrizioni assiologiche almeno come valori politici da cui far dipendere, contemporaneamente, l’ammodernamento e la civilizzazione della configurazione internazionale degli Stati(36). ” È dire che nel settore dei valori politici fondanti l’ammodernamento, il partenariato strategico sino-africano non offre affatto prospettive politiche realizzabili, tanto che la Cina stessa continua ad essere regolarmente messa al bando da chi si occupa di questioni sui diritti dell’uomo. Lungi dall’imporre ai paesi africani valori ideologici e politici dell’occidente, la sfida è di fondare l’ordinamento internazionale attorno a criteri selettivi chiaramente identificabili e misurabili. Come
nota Louis Michel, commissario europeo allo sviluppo ed agli aiuti umanitari, “non si tratta più, oggi, di considerare l’Africa soprattutto come “un beneficiario” o “un continente in sviluppo” o addirittura “sottosviluppato”, bensì come un partner a pieno titolo, un nuovo attore del sistema multipolare mondiale, dotato degli attributi della potenza politica, economica e strategica e capace di relazioni normali con gli altri poli mondiali (37).”
B. La dissociazione della coppia economia-politica
La proclamazione della non ingerenza negli affari interni degli stati africani, anche fondata di diritto, pone problemi nel contesto del deficit democratico del continente. A questo titolo, alla tappa attuale dell’inserimento dell’Africa nel concerto delle nazioni democratiche, il partenariato cinese dispiega un’insufficienza di dimensione se comparata con la AGOA o con gli accordi (UE-ACP) di Cotonou. La AGOA è un accordo che mira a promuovere il commercio tra l’Africa e gli Stati Uniti sotto l’insegna della promozione di criteri politici molto selettivi che vanno della democratizzazione, alla liberalizzazione, passando per la buona gestione ed il rispetto dei diritti dell’uomo. Quattordici paesi africani sono stati esclusi da questa nuova legge che autorizza l’entrata negli Stati Uniti in esenzione doganale e senza quota fino al 2008 dei prodotti che provengono dal continente africano. Si tratta dell’Angola, del Burkina, del Burundi, delle Comore, della Costa d’Avorio, del Gambia, della Guinea equatoriale, della Liberia, della Namibia, della Repubblica Democratica del Congo, della Somalia, del Sudan, del Togo, dello Zimbabwe. Quanto all’Unione europea, non aveva esitato a sospendere la sua cooperazione nel 1990 con il Sudan (firmatario degli accordi di Lomé Europa-ACP) per inosservanza dei diritti dell’uomo, della democrazia e del processo di pace. Ha ribadito, nel marzo 2007, la sua volontà di sospendere il suo aiuto al Sudan di fronte al rifiuto delle autorità di questo paese di autorizzare uno spiegamento di caschi blu nel Darfour. Il Forum sino-africano del novembre 2006 ha proposto un’iniziativa simile senza alcuna condizione politica, che offre così un’alternativa ai paesi récalcitranti o bolsi nel rispetto dei diritti dell’uomo. Come faceva osservare il sottosegretario di Stato americano aggiunto agli affari africani, il sig. Michael Ranneberger, il 28 luglio 2006 davanti alla sottocommissione degli affari africani della camera dei rappresentanti: ” La Cina, esercita un’influenza crescente sul continente africano, e si può temere che abbia l’intenzione di aiutare i dittatori africani, ad ottenere un dominio sulle ricchezze naturali dell’Africa e a distruggere la maggior parte dei progressi che i paesi africani hanno realizzato in quest’ultimi quindici anni in materia di democratizzazione e di gestione degli affari publici(38).
§2.La messa in discussione dell’integrazione politica del continente
A. Verso il ritorno del nazionalismo
Il partenariato strategico sino-africano si sviluppa anche in un contesto politico predominato, dalla messa in opera di un ordine del giorno africano centrato sulla ricerca di una più grande integrazione politica del continente. Infatti, la creazione dell’ UA nel 2002 segna una tappa determinante nella marcia del continente verso l’unificazione politica. Questa visione unitaria è sottesa dall’idea di fare pesare l’Africa nelle istituzioni internazionali per influenzare i vari dibattiti (come il raggiungimento degli obiettivi del
Millennio per lo Sviluppo), ed indurre la Comunità internazionale a negoziare non più con un conglomerato di stati ma piuttosto con le strutture sotto-regionali, regionali o continentali, in particolare con la UA. Il passo unitario ha iniziato a portare i suoi frutti con l’invito regolare dei capi africani promotori del NEPAD ai vertici del G8. È da temere che la nuova diplomazia cinese rompa questa dinamica. Da un lato, l’approccio bilaterale privilegiato da Pechino, soprattutto con i paesi petroliferi, può mantenere l’illusione di uno sviluppo distinto e relegare in secondo piano le preoccupazioni unitarie del continente. A questo proposito, l’attivismo di Pechino irrita il Sudafrica che, in mancanza di petrolio, vede i suoi due principali concorrenti, la Nigeria e l’Angola, approfittare in gran parte della manna cinese. La presenza cinese aizza le rivalità sorde tra i tre paesi candidati ad una seggio permanente nel consiglio di sicurezza. D’altra parte, l’Angola intende trarre vantaggio dal sostegno cinese per invertire l’equilibrio sotto-regionale in Africa australe per il momento predominato dalla direzione sudafricana.
B. La fidelizzazione del voto africano all’ONU
Chiamando ad accrescere l’influenza dell’Africa nelle istituzioni internazionali, la Cina cerca piuttosto di sviluppare una rete di alleati per mantenere un vivaio di partner suscettibili di controbilanciare l’influenza delle potenze concorrenti. La prospettiva dell’allargamento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha già dato un assaggio del duello diplomatico ingaggiato da Cina e Giappone in Africa. Pechino apprezza tutto il peso delle voci africane che gli hanno permesso nel 1971 di avere il suo seggio di membro permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a scapito di Taiwan. La recente nomina di una cinese alla testa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha rimarcato l’importanza del voto dei 48 paesi africani, che rappresentano il 25% alle Nazioni Unite. D’altra parte, non è escluso che la divisione dei paesi africani si accentui al livello delle istituzioni internazionali attorno alle questioni, ad esempio, legate ai diritti dell’uomo, un settore dove Pechino eccelle nell’immobilismo. Inoltre, anche se la questione taiwanese non è più al centro della sua azione in Africa, Pechino, a sostegno del suo successo economico, utilizza ormai la diplomazia del “portafoglio” per isolare Taiwan, con un certo esito. Dopo il ristabilimento delle relazioni diplomatiche del Senegal con la RPC nel 2004, rimangono soltanto quattro paesi africani (Burkina-Faso, Gambia, Sao Tome e Principe, Ciad) su 53 a sostenere Taipei. L’opportunismo di alcuni stati africani è tale che la serie Taipei-Pechino è lungi dal conoscere il suo epilogo e trascinerà con sè, certamente, un’enfasi nella divisione del continente negli organismi internazionali. Riassumendo, la non ingerenza cinese elevata a principio immutabile, minaccia pericolosamente il futuro politico del continente africano. Come osserva Valérie Niquet, “Pechino utilizza la sua condizione di membro del consiglio di sicurezza dell’ONU per offrire garanzie politiche a regimi corrotti.” La Cina ha buon gioco sul tessuto del terzo mondo, questa pratica ricorda le strategie che i paesi occidentali avevano realizzato appena dopo la liberazione; ritarda le evoluzioni democratiche necessarie in Africa”(39).
Sezione 2: Le prospettive economiche: opportunità o pericoli?
Anche se apparentemente le nuove relazioni sino-africane sono portatrici di opportunità economiche per il continente, resta il fatto che non garantiscono uno sviluppo economico realizzabile e soprattutto, presentano reali rischi di déstrutturazione del tessuto industriale embrionale dei paesi africani.
§1. Le opportunità economiche
Se lo sviluppo venisse dall’oriente?
La penetrazione economica di Pechino si accompagna alla promozione del modello cinese basata sull’idea di una compatibilità sino-africana, quasi naturale. Infatti, a lato del passato di umiliazione e di privazione giudicato comune, la Cina insiste sulla necessaria complementarità sino-africana. Nel corso della sua visita in Nigeria, nell’aprile 2006, il Presidente Hu Jintao non ha trascurato di metterla in evidenza dinanzi ai parlamentari dichiarando: “l’Africa ha risorse ricche ed un grande potenziale di mercato, mentre la Cina ha accumulato nel suo ammodernamento un’esperienza vantaggiosa e delle tecniche pratiche.” La cooperazione sino-africana ha dunque vaste prospettive. L’argomentazione cinese riposa sull’adattamento delle tecniche cinesi al substrato sociale ed economico dei paesi africani, in ragione della loro semplicità e della loro frugalità. “Questa visione genera emulazione al punto che alcuni pensano che il partenariato sino-africano offra prospettive di sviluppo reale dell’Africa. Inoltre, “l’autoritarismo politico raddoppiato dall’apertura economica, fonte di crescita (40)” non lascia indifferenti i dirigenti africani. Alla Cina piace ricordare che è il più grande paese in via di sviluppo e che l’Africa rappresenta il più vasto complesso in via di sviluppo. A questo titolo, e secondo ogni verosimiglianza, la complementarità va da sé. Pechino ha bisogno delle materie prime del continente africano per sostenere la sua crescita, mentre l’Africa è alla ricerca di capitali, di prodotti e del “know-how” cinese. Questa visione si è tradotta dal lato di Pechino in una rivalutazione dell’aiuto allo sviluppo dell’Africa grazie ad un approccio multidimensionale che va dell’assistenza tecnica, ai prestiti e crediti senza interessi, passando per le realizzazioni di carattere sociale. Queste opportunità si misurano inizialmente con il miglioramento della crescita in alcuni paesi, quindi al livello degli aiuti allo sviluppo e alle prospettive economiche in esse racchiuse.
Il commercio cinese fattore di crescita
Gli effetti positivi della presenza cinese in Africa derivano soprattutto dall’aumento della domanda di materie prime e dunque dal loro prezzo di vendita. Per esempio, la domanda cinese d’acciaio è aumentata del 20% tra 1992 e 2002, mentre l’aumento medio mondiale non era che del 4%. Alcuni stati sono cresciuti per l’espansione del commercio sino-africano. Così la Nigeria e l’Algeria hanno conosciuto un tasso di crescita rispettivamente del 6,8% e del 10%. L’Africa ha oggi il suo tasso di crescita il più elevato (circa 6% nel 2006) in parte grazie al dinamismo della presenza cinese. Gli scambi commerciali sino-africani hanno avuto un aumento folgorante in quest’ultimi anni, con un aumento del 535% dal 1995. Pechino è diventato il terzo partner commerciale dell’Africa, dopo la Francia e gli Stati Uniti. Più di 800 imprese cinesi si sono stabilite in Africa e la Cina importa il 30% del suo petrolio dal continente africano. Nel settore dell’aiuto allo sviluppo, i crediti e i prestiti cinesi si quantificheranno in 5 miliardi di dollari entro il 2009, senza contare la firma a margine del terzo vertice sino-
africano, di 16 accordi commerciali tra 12 imprese cinesi e 10 paesi africani che riguardano un valore di 1,9 miliardi di dollari.
C. Un aiuto pubblico differenziato ed un partenariato motore dello sviluppo
Nel settore dell’aiuto pubblico, il segnale è stato già dato dal Presidente cinese, Hu Jintao che, in occasione della sua visita in Africa del 2004, aveva promesso una cooperazione economica verso le infrastrutture, l’agricoltura e lo sviluppo delle risorse umane. Le misure previste dal vertice sino-africano del novembre 2006 lasciano pensare che la Cina sia impegnata nella realizzazione di queste promesse in Africa. Infatti, prevede di inviare i 100 ingegneri agronomi, creare 10 centri-pilota agricoli, costruire 30 ospedali, ed offrire gratuitamente 300 milioni di yuans per lottare contro il paludismo nel corso dei prossimi tre anni. Per l’istruzione, Pechino prevede di inviare 300 giovani volontari cinesi per aiutare a creare 100 scuole rurali in Africa e portare da 2000 a 4000 il numero delle borse studio accordate ogni anno dal governo cinese agli studenti africani. Nel settore delle prospettive economiche suscettibili di rappresentare una reale sfida di sviluppo, va notato che l’aumento dei costi di trasporto marittimo potrebbe gradualmente portare la Cina a favorire la creazione di un’industria di trasformazione delle materie prime (bauxite e ferro) sul continente. Si aggiunge che la firma degli accordi di partenariato economici (APE) tra le strutture regionali africane e l’Ue porterebbe gli industriali cinesi a produrre all’interno di queste regioni al fine di accedere al mercato europeo ed approfittare così della prossimità geografica. Infine, l’avvio di una cooperazione tecnologica inciterebbe a pensare che un trasferimento di “know-how” cinese contribuirebbe ad accelerare lo sviluppo di alcuni settori, in particolare agricoli ed industriali. In breve, il partenariato strategico è vissuto da molti dirigenti africani come un’opportunità economica. In un contesto di chiusura del mercato europeo, l’Asia, e la Cina in particolare, rappresentano un’alternativa. Alcuni osservatori vi vedono anche un nuovo mezzo per ridare all’Africa un ruolo strategico, rafforzando così il suo potere di negoziato grazie alla diversità degli interlocutori. Il Presidente Olesegun Obasanjo della Nigeria, ammirato dinanzi al futuro delle relazioni sino-africane ha esclamato: “auspichiamo che la Cina diriga il mondo e quando sarà il caso, noi vogliamo essere appena dietro voi.” Quando andrete sulla luna, non vogliamo essere lasciati indietro “.
§2. I pericoli economici della presenza cinese
Dietro le cifre e le promesse dell’offensiva cinese, occorre interrogarsi sul futuro economico del continente alla luce delle tendenze che si delineano in molti settori. Innanzitutto, la presenza economica cinese incontra dei limiti a livello della generazione di un quadro strutturale africano favorevole alla crescita, e che si iscrive negli schemi d’integrazione in corso. In secondo luogo, i meccanismi del partenariato ricordano sotto diversi aspetti lo squilibrio commerciale che ha sempre caratterizzato gli scambi tra l’Africa e le sue ex potenze coloniali. Infine, la presenza cinese non è sempre sinonimo di creazione di ricchezza a causa dei metodi in vigore.
A. L’assenza di un quadro strutturato di sviluppo
Il primo pericolo indotto dalla presenza cinese in Africa deriva dall’assenza di un quadro
strutturato atto a garantire la durata della redditività degli investimenti. Infatti, mettendo
davanti il principio di non ingerenza e la cultura del bilatéralismo, la Cina rivolge indirettamente le spalle alle iniziative collettive come quelle del NEPAD che ha chiaramente stabilito la necessità di inserire i grandi investimenti sul continente africano, in progetti collettivi e complementari. Ad esempio, nel settore dello sviluppo delle infrastrutture, gli investimenti cinesi sono generalmente volti alla costruzione di una rete di comunicazioni (strade, ferrovie, condutture) utili solo all’estrazione ed al trasporto del petrolio o delle materie prime (caso del Sudan) e spesso staccati dal progetto d’integrazione previsto dagli esperti del NEPAD. Come sottolinea giustamente Yves Ekoué Amaizo “se la UA ed i governi africani non si decidono ad elaborare una carta esauriente delle azioni multidimensionali della Cina in Africa, avranno lasciato operare l’essenziale della loro cooperazione con la Cina senza una strategia d’insieme”(41). Questa cautela raggiunge quella del presidente della commissione dell’ UA, Alpha Oumar Konaré, che ha annunciato le sue preoccupazioni, nel periodo successivo al vertice di Pechino del 2006, quanto alla capacità dell’Africa di trarre un grande vantaggio dal partenariato con la Cina sotto la sola insegna del bilatéralismo. A questa mancanza di visione strategica, si aggiunge la tendenza ad incoraggiare il malgoverno economico con il contributo d’investimenti senza alcuna condizione. Tale atteggiamento, che favorisce l’emergenza di pratiche clientelari, rallenta l’arrivo di altri investitori potenziali e ritarda, di fatto, il formarsi di un ambiente degli investimenti propizio alla crescita delle economie africane.
B. La persistenza del deterioramento dei termini dello scambio
Nel settore degli scambi commerciali, il partenariato sino-africano è predominato dalla diseguaglianza degli scambi. Risulta che la Cina importa principalmente materie prime dal continente e non favorisce la diversificazione delle esportazioni africane. Al contrario, inonda il mercato africano di prodotti manifatturieri e fa concorrenza alla stessa industria locale. Nel settore tessile ad esempio, l’industria sudafricana è stata scossa dai prodotti cinesi al punto che gli imprenditori locali richiedono misure di protezione per fare fronte alle pratiche di dumping cinese. Nel corso della sua recente visita in questo paese nel gennaio-febbraio 2007, il Presidente Hu Jintao ha potuto misurare il clima anticinese veicolato dalle organizzazioni patronali e sindacali. Dallo smantellamento degli accordi multifibre nel 2005, tutta l’industria tessile del continente è minacciata; le ditte cinesi in questo settore non possono essere oggetto di concorrenza da parte delle imprese africane ed è da temere un declino prossimo dell’industria tessile in Marocco (45% dell’occupazione industriale), in Tunisia, nel Madagascar (30% dei lavoratori dipendenti del settore industriale) ed in molti paesi africani dell’Ovest produttori di cotone; una situazione portatrice, molto probabilmente, di disoccupazione e di tensioni sociali. Oltre allo smantellamento di tessuto industriale embrionale, le esportazioni cinesi di prodotti manifatturieri in Africa soffocano le piccole e medie imprese (PMI) ed ampi settori dell’economia informale. In Senegal, l’Unione nazionale dei commercianti ed industriali (UNACOIS) ha denunciato varie volte, nel 2004 e nel 2005, la concorrenza sleale cinese. Lo stesse récriminazioni sono percettibili in Sudafrica, in Guinea equatoriale, nello Zimbabwe ed in Zambia dove l’argomento ha occupato una parte del dibattito in occasione dell’elezione presidenziale, che induce anche alcuni candidati a promettere l’espulsione pura e semplice degli uomini di affari cinesi dal paese. Lo squilibrio della bilancia commerciale dei paesi africani (eccetto per i
paesi produttori di petrolio), evoca la situazione degli anni ‘70, anni durante i quali l’economia africana era ridotta ad un’economia di entrate i cui redditi sparsi non erano orientati alla costruzione di un’industria ed al miglioramento delle condizioni socioeconomiche delle popolazioni. “La Cina appare dunque in Africa come un predatore, secondo il modello ieri messo in opera dalle potenze coloniali.” (Una) strategia… che permette ai regimi più discutibili della regione di ricostituire un’economia di entrate fondate sullo sfruttamento massiccio delle risorse naturali, senza reale trasferimento di ricchezza o di “know-how” verso le popolazioni locali(42).
C. Un partenariato che non genara ricchezze
Il partenariato cinese non è generatore di crescita duratura e di ricchezze a causa dei metodi generalmente messi in atto negli investimenti. Infatti, oltre alla constatazione che quest’ultimi sono principalmente volti allo sfruttamento delle materie prime, la Cina si distingue con la sua tendenza a non creare lavoro in Africa. Nei grandi lavori come la costruzione delle infrastrutture, Pechino non esita ad importare manodopera cinese e subappalta di rado alle imprese locali(43). Questa capacità di beneficiare di una manodopera economica rende le imprese cinesi molto più competitive di quelle del settore privato africano. D’altro canto poichè, gli investimenti cinesi non si accompagnano ad alcun trasferimento di tecnologia per le imprese locali africane, è difficile per quest’ultime sviluppare capacità produttive endogene, uniche fonti di creazione di ricchezze durature. Infine, la politica di sovvenzioni realizzata da Pechino rovescia molto spesso il quadro istituzionale concepito dalle istituzioni finanziarie internazionali al punto che alcuni come Paul Wolfowitz, il presidente della BM, predicono il re-indebitamento del continente africano tramite gli aiuti cinesi. Il partenariato strategico sino-africano presenta dunque numerosi scogli nel settore economico e non garantisce una crescita duratura per la maggior parte delle economie africane come constatato da Moeletsi Mbeki, vicepresidente dell’istituto sudafricano degli affari esteri dell’università di Witwatersrand, a Johannesburg: “In cambio delle materie prime che vendiamo loro, comperiamo i loro prodotti manifatturieri (…),” Non si assiste alla ripetizione di una vecchia storia(44)?
CAPITOLO II: QUALE FUTURO PER LA PACE E LA SICUREZZA IN AFRICA?
La presenza cinese in Africa si realizza in un contesto geopolitico portatore di rischi reali per il futuro della sicurezza del continente. Infatti, da un lato l’importanza degli investimenti fatti dalla Cina attraverso molti paesi africani, in particolare nel settore petrolifero, potrebbe tradursi concretamente sul piano della sicurezza con un impegno più marcato di Pechino. D’altra parte, l’offensiva cinese è di rilanciare le rivalità di Pechino con le altre potenze concorrenti, in questo caso gli Stati Uniti e le ex nazioni coloniali, fra cui la Francia.
Sezione 1. Il poker petrolifero: fattore di destabilizzazione
La bulimia petrolifera cinese è un fattore suscettibile di aizzare le rivalità politiche in un continente africano conosciuto per la fragilità delle sue strutture politiche ed economiche. Acconsentendo agli investimenti colossali in Africa, in paesi spesso instabili, è legittimo interrogarsi quando la Cina rispetterà scrupolosamente il principio di non ingerenza negli affari interni degli stati africani. L’atteggiamento di Pechino in Ciad, in Angola, in Costa d’Avorio e in Sudan lascia credere che la Cina non esiterebbe
in un futuro prossimo ad intervenire militarmente o incoraggiare iniziative armate in Africa per garantire i suoi investimenti.
Una presenza sempre più aperta nelle zone di conflitto
In Ciad, nuovo paese petrolifero ambito da Pechino nonostante le sue relazioni diplomatiche con Taiwan, la crisi istituzionale progressiva ha conosciuto il suo parossismo nel 2006 con la crisi nel Darfour e le offensive ripetute dei movimenti ribelli. L’aumento dei movimenti d’opposizione armata si è tradotto in molti attacchi che mirano a sovvertire il potere del Presidente Idriss Deby. Nel gennaio 2006, uno dei capi dell’opposizione è stato ricevuto a Pechino, il che alimenta i sospetti di un aiuto cinese in tali combattimenti. Ndjamena non esita a denunciare l’aiuto militare cinese accordato alla raccolta di fondi per Démocratie e Liberté di Mahamat Nour, dagli ultimi attacchi di novembre e di dicembre 2006. La Cina è accusata di essere complice con il Sudan per accelerare la caduta del Presidente Idriss Deby e procedere ad una nuova ridistribuzione delle “carte” petrolifere. In Angola, paese appena uscito da una lunga guerra civile nel 1997, la Cina si è impegnata in una vasta operazione d’influenza che preoccupa gli osservatori. Si sostituisce al FMI ed alla BM per accordare prestiti preferenziali a questo paese in cambio del suo petrolio. È accusata dall’opposizione politica di finanziare la campagna elettorale del partito al potere, il MPLA. Senza pregiudizio per le prossime elezioni, inizialmente previste per il 2006 ma ancora rifiutate fino al 2008-2009, non è escluso che questo paese in ricostruzione non ricada nei demoni della violenza a causa della capacità della classe dirigente di sottrarsi alle critiche ed all’arbitrato della Comunità internazionale grazie alla manna cinese. Infine, in Costa d’Avorio, anche se il paese non presenta un grande interesse immediato sul piano energetico, la Cina approfitta della crisi attuale per stabilirsi durevolmente. Oltre al sostegno militare che accorda a questo paese in guerra civile dal 2002, la Cina porta un appoggio diplomatico alle autorità ivoriane. Così, in seguito ai bombardamenti del campo militare francese di Bouaké, nel novembre 2004, il Consiglio di sicurezza dell’ONU, con la risoluzione 1572, ha decretato un embargo sulle armi e sanzioni contro le persone riconosciute colpevoli “di violazioni gravi dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario in Costa d’Avorio”. Nel febbraio 2006, dopo gli attacchi dei partigiani del Presidente Laurent Gbagbo contro le forze onu, il Consiglio di sicurezza ha deciso di colpire gli istigatori di queste violenze con il congelamento dei loro averi ed il divieto di uscire dal paese. Pur approvando la risoluzione dell’ONU, Pechino è comunque riuscita a far togliere dall’elenco il coniuge del presidente Simone Gbagbo le cui posizioni estremistiche sono tuttavia ben note. Fino a quando il sostegno militare cinese continuerà ad alimentare un conflitto che minaccia a lungo termine tutta la sotto-regione occidentale africana?
Verso una protezione militare diretta degli investimenti petroliferi?
In Sudan, dinanzi ai rischi di sabotaggio e d’attacco delle infrastrutture petrolifere nel Sud del paese da parte dei movimenti ribelli nel 2000, il governo non ha lesinato sui mezzi per attuare una politica di terrore e di spostamento forzato delle popolazioni Dinka e Nuers che vivevano vicino ai giacimenti. Questi metodi usati per creare un perimetro di sicurezza hanno moltiplicato gli esodi massicci di popolazione ed hanno alimentato le tensioni nel sud del paese. La necessità di sicurezza attorno ai pozzi petroliferi ha trasformato letteralmente questa parte del paese in un immenso “Far West” dove si concentrano forze multiple di sicurezza. Se alcune società ricorrono alle strutture private come Executive Outcomes, altre come la China Petroleum Engineering and Construction
Group fanno ufficialmente appello alle forze armate governative. Tuttavia, sottolinea Jennifer Hery, “la popolazione locale sostiene che i lavoratori cinesi sono armati e sembrano rapidi nell’usare le loro armi.[11)” In uno dei suoi reportage dell’agosto 2000, il quotidiano britannico Daily Telegraph accusava la Cina di essere pronta ad inviare contingenti di soldati in Sudan per proteggre i suoi investimenti petroliferi. Quest’accusa veniva fatta in seguito alla cattura di un gruppo di cinesi da parte dei ribelli dell’esercito di liberazione dei popoli del Sudan del Sud (SPLA) nel corso di combattimenti contro le forze governative. Peggio ancora, secondo una relazione di Amnesty International, [12) i lavoratori delle pipe-lines del GNPOC avrebbero beneficiato della protezione di combattenti afgani e malesi legati a reti terroristiche internazionali. Insomma, la presenza cinese si accompagna spesso ad una facilità di riarmo dei paesi e di un’esacerbazione delle tensioni legate alla sfida petrolifera. Vi è un sovrascorrimento di rischi evidenti di sicurezza, in particolare con lo sviluppo di zone di non diritto o rette dalla sola legge della protezione degli investimenti petroliferi.
Sezione 2. Verso un rilancio delle rivalità tra grandi potenze?
Naturalmente, l’aumento della diplomazia cinese in Africa rilancia la rivalità sorda tra potenze in quest’era di riconfigurazione delle posizioni geopolitiche. Contrariamente ad alcune previsioni che relegavano il continente al rango di spazio avulso alla sfida geopolitica principale, il commissario europeo Louis Michel informa in termini non equivoci: ” È un fatto, in poco tempo l’Africa è diventata un continente ambito, poiché strategicamente importante.” L’Africa conta oggi. In primo luogo, l’Africa conta in termini di fonti d’energia. L’energia proveniente dall’Africa svolge un ruolo importante nella sicurezza energetica di tutti i grandi consumatori mondiali, quali gli Stati Uniti, l’Europa e la Cina[13). Oltre alla rimessa in discussione del modello di sviluppo occidentale, il partenariato sino-africano potrebbe condurre ad nuovo trasferimento delle rivalità di potenza sul continente africano. Quest’ipotesi è fondata soprattutto dallo sguardo, sempre più critico, gettato da Washington sull’espansione della diplomazia cinese attraverso il mondo, in Africa principalmente. Si aggiunga che la Francia, anche se non reagisce ancora ufficialmente all’apertura cinese, inizia a manifestare una certa preoccupazione quanto al mantenimento delle sue relazioni privilegiate con le sue ex colonie. Infine, generalmente, l’Unione europea non intende essere messa da parte a causa dell’interesse che presta alla guerra energetica latente che si sviluppa attraverso il mondo.
§1. Il partenariato di fronte agli interessi degli Stati Uniti
Anche se la Cina cerca di condurre uno “sviluppo pacifico” sotto l’insegna dei “quattro no” del Presidente Hu Jintao (no all’egemonismo, no alla politica della forza, no ad una politica dei blocchi, no alla corsa al riarmo) evitando ogni forma di scontro con le potenze concorrenti, in particolare gli Stati Uniti, occorre riconoscere che la sua nuova diplomazia inizia ad attirare l’attenzione dei dirigenti americani. Nel documento riguardante la strategia di sicurezza nazionale pubblicato nel 2006, l’amministrazione americana esprime apertamente i suoi timori in questi termini: “loro(i cinesi) sviluppano il commercio, ma agiscono come se potessero in un certo qual modo chiudere l’approvvigionamento energetico del mondo o cercare di dirigere i mercati piuttosto che aprirli, come se potessero applicare un mercantilismo di un’epoca screditata e sostenere paesi ricchi di risorse naturali senza tenere conto delle divergenze di condotta di questi regimi in materia di politica interna o della loro cattiva condotta all’estero”. Questa
critica mette in rilievo l’emergere della Cina come attore significativo sulla scena economica mondiale, con la sua domanda apparentemente inesauribile di materie prime. Sottolinea anche la grande sfida per gli Stati Uniti che puntano sull’Africa per il rifornimento energetico di molti settori. A lato delle sue obiezioni d’ordine economico, Washington nella sua lotta contro il terrorismo potrebbe rapidamente trovarsi in conflitto aperto con Pechino, più precisamente in alcune parti del continente. Infatti, l’appoggio diplomatico portato da Pechino ad alcuni regimi in posizione delicata con la Comunità internazionale favorisce lo sviluppo di zone di non diritto propizie all’impianto di gruppi terroristici. Il Sudan che si è distinto in passato come un santuario di terroristi musulmani è spesso accusato di proteggere combattenti d’origine islamica (afgani, malesi, sudanesi ecc   )   questa situazione entra in conflitto con la nuova visione
strategica antiterrorista degli Stati Uniti. Infatti, il progetto del “grande Medio Oriente” elaborato da Washington riguarda stranamente molti paesi petroliferi africani (Mauritania, Mali, Algeria, Sudan ecc….) aventi rapporti commerciali con la Cina. Questo progetto che va dalla Mauritania al Pakistan consacrerebbe, in caso di successo, il dominio da parte degli Stati Uniti su una zona contenente il 65% delle riserve petrolifere mondiali. Tale controllo metterebbe gli Stati Uniti in una posizione favorevole rispetto alla Cina che, cosciente del pericolo, sembra spingere in avanti accelerando il suo insediamento in Africa. Nella lotta contro il terrorismo, si tratta per l’amministrazione americana di trasformare il grande Medio Oriente in una zona pacifica e chiusa a qualsiasi libertà d’azione di gruppi armati incontrollabili. Come ha sottolineato Brett Schaefer, specialista di questioni di regolamentazione alla “Heritage Foundation” di Washington, ad una conferenza tenuta il 7 marzo 2006, sull’influenza crescente della Cina in Africa ed in America latina: “vero campo di battaglia della guerra contro il terrorismo, l’Africa subsahariana è sempre più vulnerabile di fronte all’estremismo islamico, che prova ad estendere la sua influenza attraverso Sahel e l’Africa dell’Est.” Ne deriva che le crisi politiche ed umanitarie che imperversano in Africa, ad esempio la situazione nella provincia sudanese del Darfour, interessa particolarmente gli Stati Uniti inizialmente per ragioni umanitarie, ma in seguito e soprattutto a causa di interessi strategici. La creazione di un ordine americano in Africa annunciato per settembre 2008 mostra che gli Stati Uniti sono risolutamente decisi a portare la loro strategia antiterrorista in zone “sotto protezione cinese”. Il futuro delle relazioni sino-americane potrebbe conoscere una svolta decisiva in Africa, alla luce di quest’analisi di Drew Thompson: “gli Stati Uniti potrebbero vedere nella Cina un concorrente ed interessarsi sempre più allo sviluppo progressivo delle sfere d’influenza cinesi.” Nello stesso tempo, la Cina potrebbe interpretare gli sforzi americani per promuovere la stabilità e la democrazia in Africa come ostacoli all’accesso alle materie prime ed una volontà di rallentare il suo presunto sviluppo pacifico[14). “(siamo noi che traduciamo).”
§2. Quali reazioni aspettarsi dalla Francia e dall’Ue?
Dal lato della Francia, il partenariato sino-africano non lascia più insensibili. Una relazione di 200 pagine dedicata alla penetrazione cinese, pubblicata nel gennaio 2006 dal gabinetto Bd-consultant, conclude sulla necessità di adottare misure vigorose per salvaguardare la politica africana della Francia. Dopo aver puntato il dito sul dinamismo economico cinese in Africa, la relazione cita che “l’efficacia cinese contrasta con una passività relativa francese ( … ). senza una reazione che mira a rinvigorire e rivitalizzare i diversi aspetti della nostra presenza, la Cina occuperà probabilmente un posto più
importante della Francia sulla scena africana.” Questa sentenza inequivocabile annuncia misure audaci che susciteranno una rivalità franco-cinese al livello di continente, soprattutto nei paesi dove gli interessi petroliferi francesi sono oggi minacciati dall’insediamento cinese. Infatti, le ditte petrolifere francesi Total ed Elf sono sempre più oggetto di concorrenza da parte dei loro omologhi cinesi in Gabon e in Congo. Il Gabon, di cui più dell’80% del legno è esportato in Cina, è passato nello spazio di un decennio a diventare il secondo cliente della Cina. Il Congo ha concluso nel marzo 2005 con la società petrolifera Sinopec cinese un accordo di sfruttamento di due blocchi off-shore. Sullo sfondo delle rivalità economiche, non si è escluso che la concorrenza tra ditte cinesi e francesi sia la rimessa in discussione della fragile stabilità di questi due paesi. In passato, l’impresa francese ELF è stata accusata di avere finanziato fazioni ribelli per sovvertire nel 1998 il governo del Presidente Pascal Lissouba in Congo, poco favorevole all’epoca ai loro interessi, poiché aveva incoraggiato l’arrivo di nuovi investitori come Occidental Petroleum, Shell o Exxon. La volontà cinese di ancorare la sua presenza in Africa centrale può a lungo termine tradursi in un sostegno ad una fazione armata più sensibile alla sua espansione. In Gabon, gli interessi finanziari francesi che potrebbero costituire leve per garantire la stabilità e la democratizzazione del regime di Omar Bongo, sono sempre più indebolite dall’insediarsi dei cinesi. La corte assidua della Cina a questo dirigente africano, che ha del resto moltiplicato i suoi viaggi a Pechino, lascia pensare che questo ultimo potrebbe guardare alla Cina per fare fronte ad eventuali condizionalità francesi. Nel perimetro africano, la presenza cinese rimette molto chiaramente in discussione lo spirito de la Baule sul quale contava, in primo luogo, la Francia per iscrivere le sue ex colonie sui cammini del buongoverno. Occorre constatare oggi che una ripresa della politica africana della Francia passa per un confronto aperto con il partenariato sino-africano. Questa lotta è già cominciata nelle istituzioni internazionali in cui la Cina utilizza tutta la sua influenza per proteggere i suoi alleati economici contro eventuali sanzioni. La durata del conflitto ivoriano sottolinea fino a che punto la Francia non dispone più di leve la cui efficacia era indubitabile nella gestione dei conflitti africani. Ad ogni modo, l’instaurazione di strutture politiche sino-africane realizzabili preoccupa al punto che Renaud Delaporte annuncia il fallimento delle ambizioni francesi in Africa in questi termini: “Mettendo deliberatamente il vertice sino-africano nel quadro di un dialogo Sud-Sud, la Cina si impone come la sola potenza capace di offrire all’Africa la speranza di una politica di sviluppo realistico, pragmatico e quindi applicabile. Ratifica il fallimento di trentatre anni di politica africana francese (49)”. L’Ue di cui il 20% delle importazioni petrolifere proviene dall’Africa non tarderà probabilmente a confrontarsi con la strategia cinese in Africa. Infatti, la perdita progressiva di concessioni petrolifere, l’arretramento delle imprese europee del BTP eventualmente costringerà l’Ue a pensare al futuro economico sul continente in occasione del prossimo vertice euro-africano previsto per il secondo semestre 2007. Anche se il petrolio africano non costituisce una sfida strategica per la maggioranza dei suoi membri, resta il fatto che la guerra del gas del dicembre 2005 vinta dalla Russia (che fornisce il 25% del gas ed il 42% del petrolio all’Ue) incita ad interessarsi ad altre fonti d’approvvigionamento, fra cui quelle Africane. Infine, nel momento in cui l’Ue intende insufflare un nuovo dinamismo alla sua cooperazione con l’Africa mediante la promozione di accordi multilaterali(50) la Cina accetterà di seguirla rispetto al
“partenariato di valori” di cui parla Louis Michel, commissario europeo allo sviluppo ed all’aiuto umanitario?
CONCLUSIONI
La fine della guerra fredda e la riconfigurazione delle relazioni di potenza hanno inserito la RPC nell’elaborazione di una strategia d’espansione e di affermazione originale. Mentre fino a quel momento, la concorrenza militare sembrava essere il garante della potenza degli stati, Pechino ha inaugurato una nuova fase di affermazione centrata sul concetto di sviluppo pacifico. L’obiettivo ultimo è di partecipare all’emergere di un mondo multipolare di cui la Cina potrebbe occupare, un giorno, una delle prime piazze anche se non necessariamente la prima. Per raggiungere quest’obiettivo e per evitare ogni conflitto (con gli Stati Uniti in particolare) suscettibile di compromettere la sua irradiazione, la Cina si dispiega secondo una “diplomazia asimmetrica” dove le relazioni economiche bilaterali occupano un posto centrale. Moltiplicando i successi economici dalla riforma iniziata da Deng Xiaoping nel 1978, la Cina non ha messo molto tempo per capire che il mantenimento del suo posto nel mondo è strettamente legato alla sua capacità di differenziare e assicurare le sue fonti d’approvvigionamento energetiche. È in un tale contesto che Pechino, dopo un periodo di letargia durato più di un decennio, ha deciso di iniziare un partenariato strategico dinamico con l’Africa. Fermamente attaccata alle correnti dei cambiamenti profondi che caratterizzano l’universo post-guerra fredda, la Cina si è lanciata in una dinamica di calibratura della sua diplomazia per metterla al servizio dei suoi obiettivi strategici, fra cui il più importante risiede nella sicurezza energetica. La scelta dell’Africa non è affatto fortuita poiché il continente ha sempre rappresentato una parte fondamentale nell’irradiazione della Cina. Meglio, il partenariato strategico sino-africano, dal lato di Pechino, è un modello distante dalle vie battute del colonialismo e dallo sfruttamento stabiliti dalle vecchie potenze. Questa fraseologia angelica che caratterizza il discorso ufficiale cinese ha tuttavia difficoltà a nascondere i cambiamenti intrinseci della politica africana della Cina: gli imperativi del mercato prevalgono ormai sul discorso militante degli anni 70. Sul piano economico, anche se è ancora prematuro parlare di pericolo, le tendenze pesanti lasciano chiaramente vedere che il modello di cooperazione cinese in vigore ricorda la politica di sfruttamento delle materie prime delle potenze occidentali nel periodo successivo alle indipendenze africane. In questo senso, si collega ad una logica di predazione e non garantisce alcuna crescita a lungo termine delle economie africane. È sintomatico che la terza visita del presidente cinese nello Zambia nel febbraio 2007 si sia svolta sotto alta sorveglianza poliziesca, a causa dei rischi di manifestazioni violente dei lavoratori del settore minerario controllato dalle ditte cinesi. Nella maggior parte delle capitali africane, le proteste, contro la concorrenza sleale al settore privato nazionale e la violazione dei diritti sindacali degli imprenditori cinesi, si amplificano di giorno in giorno. Grosso modo, gli indici economici della presenza cinese in Africa non indicano la presenza di una “boa di salvataggio” per le economie locali alla deriva. Al massimo, l’offensiva cinese offre soltanto l’illusione di uno sviluppo ai paesi africani ricchi in materie prime, in petrolio in particolare. Nel settore politico, mettendo al cuore della sua strategia il principio di non ingerenza e di neutralità nelle sue relazioni con i paesi africani, la Cina ha introdotto nuovi parametri nella valutazione del futuro politico ed economico del continente. Mentre fino ad allora il decollo economico del continente si basava soprattutto sull’applicazione di norme di condizionalità, il partenariato proposto da
Pechino è presentato come una minaccia diretta al processo democratico iniziato nella maggior parte degli stati africani. Gli sforzi d’integrazione sostenuti dalla UA e dalla Comunità internazionale si vedono così tirati fuori dall’alternativa offerta da Pechino a regimi politici poco propensi ad assoggettarsi alle norme di democratizzazione e di buona gestione. Il Sudan, l’Angola e lo Zimbabwe costituiscono il gruppo di testa che, probabilmente, andrà allargandosi nei confronti dell’indifferenza di Pechino alle critiche della sua politica africana. Purtroppo, in questo settore particolare, la Cina non ha lezioni da ricevere dall’occidente che ha sostenuto ed incoraggiato regimi autocratici sul continente africano. Come lnota Lionel Vairon, “la Cina si trova in una situazione simile a quella delle vecchie potenze coloniali ( … ) che hanno portato il loro sostegno a regimi autocratici ( … ). l’ingerenza negli affari di questi stati era allora la norma, ma nessuno se ne risentiva, e soprattutto i dirigenti africani ne beneficiavano in cambio di rendite e di un’impunità immane(51).” Lungi dal garantire lo sviluppo dell’Africa, il partenariato strategico sino-africano solleva anche interrogativi legittimi sul futuro della pace e della sicurezza. Il sostegno militare incondizionato di Pechino a regimi politici dittatoriali, la vendita incontrollata di armi delle imprese cinesi ed i tentativi di un’implicazione militare diretta di Pechino nella protezione dei suoi investimenti petroliferi sono altrettanti argomenti preoccupanti. Nel momento in cui le potenze occidentali sembrano trascurare il continente africano o vi ha mantenuto soltanto una soglia di presenza minima, la Cina ha mostrato la sua capacità di assumere un nuovo ruolo di potenza emergente. Dando prova di un dinamismo impressionante, ha messo in atto una strategia globale per trovare nuove frontiere alle sue popolazioni ed alla sua economia. Attore a pieno titolo della mondializzazione, Pechino ha compreso il vantaggio che poteva tirare fuori dall’Africa utilizzando una delle armi più temibili del dopo guerra fredda: la potenza economica. Questa potenza in azione attraverso tutto il continente non ha ancora rivelato tutte le sue intenzioni. In tutti i casi, oltre ai problemi che continua a sollevare, sfida l’Africa sulla sua capacità di assumere su di sè il proprio destino e considerare l’aiuto esterno, ovunque provenga, come un supplemento e non il principale perno del suo sviluppo. Infatti, più che un tentativo di demonizzazione del pericolo rosso, l’Africa dovrebbe mettersi all’opera per presentare una strategia globale al partner cinese, e aggirare così il bilateralismo destrutturante della Cina. È con la forza delle sue proposte politiche, economiche, sociali e di sicurezza che sarà in grado di misurare l’utilità del partenariato benefici-benefici proposto dalla Cina. Il NEPAD potrebbe essere il punto di partenza ed il quadro istituzionale di relazioni multilaterali sino-africane. Dopo il fallimento di molti decenni di cooperazione con l’occidente, il partenariato sino-africano può essere un momento storico di valutazione e di decisione per l’Africa, del nuovo orientamento delle sue relazioni con i partner esterni dello sviluppo. In questa prospettiva, una delle monete più sicure potrebbe certamente nascere dal suo nuovo contatto con l’impero di mezzo che, dopo molti secoli d’occupazione coloniale, sembra avere definitivamente girato le spalle all’ideologia che ha sempre nutrito la sua politica estera a profitto del realismo e del pragmatismo, i nuovi paradigmi della diplomazia cinese su scala mondiale.
Note
Per approfittare interamente della mondializzazione, la Cina ha fatto sforzi titanici al fine di aderire all’organizzazione mondiale del commercio (OMC) nel 2001. Pechino ricorda incessantemente la necessità di rispettare le norme da parte di tutti gli attori. D’altra parte la decisione della Cina di fondere il ministero della cooperazione e quello del commercio estero è emblematica della volontà delle autorità cinesi di fare della cooperazione estera e commerciale una priorità d’ordine strategico. Vedere, a questo proposito, Jean Christophe Servant: “la Cina all’attacco del mercato africano”, il mondo diplomatico, maggio 2005.
Angel Ubide, “la Cina alla conquista dell’Africa”, telos-eu.com, dicembre 2006
concetto lanciato da Zheng Bijian nell’ottobre 2003, Presidente del Forum sulla riforma della Cina e vice vicepresidente anziano della Scuola centrale del partito comunista cinese (PCC)
libro bianco del governo cinese, “la via dello sviluppo pacifico della Cina” dicembre 2005, 32p.
(5)La Cina si compiace nel ricordare le spedizioni sulla costa orientale africana della dinastia dei Ming che si sono limitate a scambi con l’Africa, senza alcuna volontà di dominio. Vedere a questo proposito, Paul Kennedy, Naissance e declino delle grandi potenze, Editions Payot & Rivages, 2004 pp 39-44.
(6) Discorso del presidente Hu Jintao alla cerimonia di apertura del Forum de Coperazione sino-africaino, 4 novembre 2006.
(7)Valérie Niquet, « la stratégie africaine de la Chine », Politique Etrangère, février 2006, p.361
(8)Vedere « Sino-African Cooperation to Rise to New High », Quotidien du Peuple, Pékin, 10 mars 2000
(10)Paul Kennedy, Naissance et déclin des grandes puissances op. cit. pp. 39-44 (11)Adama GAYE, Chine-Afrique le dragon et l’autruche : Essai d’analyse de l’évolution contrastée des relations sino-africaines : saint ou impie alliance du XXIe siècle, Harmattan, 2006 p.52
(11)Ibid., p 61
(12)Jean-Christophe Servant, « La Chine à l’assaut du marché africain », Le Monde diplomatique, mai 2005.
(13)Vedere allegato I p60.
14 Discorso del Président Jintao alla cerimonia di apertura del Forum di cooperazione sino-africana di Beijing il 4-5 novembre 2006
15 Per misurare meglio il posto dei bisogni energetici cinesi, vedere allegato II p.61
16 La domanda quotidiana in petrolio è passata da 2,12 milioni di barili al giorno nel 1990 a 3,.95 milioni di b/j in 1999. essa è ritenuto a 7millions di b/j all’orizzonte 2010. fonte agenzia internazionale dell’energia OCSE 2004 17 Vedere allegato III p.62.
17 Vedere allegato III p.62
18 Intervista al Presidente algerino Bouteflika in www.el-mouredia.dz novembre2006
19 Vedere allegato IV p.63
Picture 20 Pierre Antoine Braud, « La Chine en Afrique, anatomie d’une nouvelle stratégie chinoise » Analysis, www.iss-eu.org, octobre 2005 p.2
21 Quest’operai sarebbero prigionieri di diritto comune che hanno ottenuti una riduzione di pena. Ibid.,p3
22 Marie-France Cros, « le nouvel ordre chinois en Afrique », la Conscience, avril 2006
23 Chung-lian Jiang, « la Chine, le Pétrole et l’Afrique », www.geopolitis.net, novembre 2004
24 Il presidente della Nigeria Obasanjo ha chiesto il sostegno ufficiale di Pechino per il conseguimento di una seggio permanente al Consiglio di sicurezza.
25 Vedere allegato V p.64
26 Intervista al Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika, www.el-mouredia.dz, novembre2006
27 Jawad Kerdoudi, Consulente e economista e presidente dell’Istituto Marocchino delle Relazioni Internazionali (IMRI), « Sommet sino-africain, quels enjeux ? », www.menara.ma, décembre 2006
28 Valérie Niquet, «la stratégie africaine de la Chine » op.cit., pp. 363-364
29 Vedere allegato VI p 64.
30 F. Lafargue. « La Chine et l’Afrique : un mariage de raison », Diplomatie, sept-oct 2005
31 Renaud Delaporte, « la Chine a lancé une OPA amicale sur l’Afrique », Agora Vox novembre 2006
32 Ibid.
33 Vedere allegato VII p 65.
34 Jacques Chirac, Discorso pronunciato alla XIX Conferenza dei capi di Stato della Francia e dell’Africa, Ouagadougou, Paris, Productions 108, 5 décembre 1996, pp. 10-11.
35 Pierre Antoine Braud « La Chine en Afrique, anatomie d’une nouvelle stratégie chinoise » op.cit. p.6
36 Yves Alexandre Chouala, « L’Afrique dans le nouveau partenariat international Enjeux de civilisation et de puissance », Revue Études internationales, volume XXXIV, no 1, mars 2003
37 Louis Michel, Conférence publique sur la Stratégie Afrique prononcée à Berlin, le 28 novembre 2006
38 Jim Fisher-Thompson, La Chine ne constitue pas une menace pour les Etats-Unis» , www.uspolicy.be, juillet 2006
39 Valérie Niquet, interview donné au journal Expansion, 1° décembre 2006
40 Pierre Antoine Braud, op.cit. p.21
41 Yves Ekoué Amaizo, « Pour une nouvelle coopération Afrique-Chine : des erreurs à ne plus reproduire », article en ligne www.afrology.com/eco/amazoi chinafric.htlm, avril 2006
42 Valérie Niquet, « la stratégie africaine de la Chine », op. cit. pp.373
43 I cinesi si difendono invocando la mancanza di specializzazione della manodopera locale d’oeuvre locale e i margini stretti per le consegne. C’è ugualmente, da parte loro,una volontà di superare gli ostacoli di ordine sindacale. Intervista con M Lionel Vairon, 12 février 2007.
44 Jean-Christophe Servant, « La Chine à l’ assaut du marché africain » op. cit.p.5
44 Jean-Christophe Servant, « La Chine à l’ assaut du marché africain » op. cit.p.5
45 Jennifer Héry, « le Soudan entre pétrole et guerre civile », Harmattan, 20003 p40-41
PicturePicture [12] 46 Rapport Amnesty International, « The Human Price of Oil », Mai 2001
47 Louis Michel, Commissaire européen au Développement et à l’Aide humanitaire, « Il est temps de remettre l’Afrique au centre de la politique extérieure européenne », Conférence publique sur la Stratégie Afrique, Berlin, le 28 novembre 2006
48 Drew Thompson, “Economic growth and soft power: China’s Africa strategy”: Volume 4, publié par la Foundation Jamestown; Décembre 2004
49 Renaud Delaporte, op.cit. p.30
50 Louis Michel, Commissaire européen au Développement et à l’Aide humanitaire « Il est temps de remettre l ‘Afrique au centre de la politique extérieure européenne » op. cit.
51 Lionel Vairon, Défis chinois, introduction à une géopolitique de la Chine, Ellipses 2006. p.97
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