fonte diploweb.com (trad. G.P.)
Sezione 1. Le minacce sullo Stato democratico e l’integrazione politica
Mettendo le sue relazioni con i paesi africani sulla base immutabile e sacrosanta della "neutralità e della non ingerenza", la diplomazia cinese sembra costituire un freno all’emergenza dello Stato di diritto in Africa. Nello stesso tempo, ritarda l’integrazione politica del continente pur dando a Pechino i mezzi della sua irradiazione nelle istituzioni internazionali a scapito delle potenze concorrenti.
§1. Le minacce sullo Stato democratico
A. Lo scudo cinese o i rischi di promozione del malgoverno
Per salvaguardare i suoi rapporti commerciali ed allo scopo di restare fedele alla sua "diplomazia di non rottura", Pechino non esita ad utilizzare il suo statuto di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU per difendere i suoi alleati. Così in luglio e in settembre del 2004, ha minacciato di utilizzare il suo diritto di veto per bloccare l’adozione di sanzioni politiche e petrolifere contro il Sudan accusato di genocidio nel Darfour. Nell’aprile 2005, si è astenuta sulle disposizioni di cattura della Corte penale internazionale (CFI) che mira a tradurre in giudizio i responsabili sudanesi implicati in crimini di guerra nel Darfour. Oggi, il Sudan si oppone sempre allo spiegamento di truppe dell’ONU sul suo suolo, con il sostegno discreto di Pechino. Per fare fronte al suo isolamento internazionale, il Presidente Robert Mugabe dello Zimbabwe ha intrapreso una politica d’apertura in direzione delle imprese cinesi. In cambio, il primo ministro cinese non ha trascurato di esprimere il sostegno della Cina alla riforma agraria nello Zimbabwe. Incantato da Pechino, Robert Mugabe ha dichiarato nel maggio 2005 in occasione del 25° anniversario dell’indipendenza del suo paese: "occorre voltarsi verso Est, laddove si alza il sole”. In Etiopia, gli appelli insistenti degli Stati Uniti a favore dell’organizzazione di elezioni trasparenti, nel 2005, sono stati ignorati dal partito al potere che "raccomandava un ravvicinamento con Pechino come alternativa(35). "D’altra parte, con la Nigeria, nonostante le condanne multiple del regime autoritario di Sani Abacha da parte della Comunità internazionale, la Cina si era mostrata molto conciliante, proseguendo risolutamente la sua politica energetica con questo paese. Ugualmente in Angola, la RPC è accusata dalle organizzazioni non governative di sostenere indirettamente la campagna elettorale del Presidente Eduardo Dos Santos, con il finanziamento di numerosi progetti elettoralistici per il partito al potere. Questa situazione rappresenta una minaccia per la costruzione dello Stato di diritto in Africa. In primo luogo, il sostegno della Cina costituisce una boa di salvataggio per regimi politici spesso denigrati. Perpetua inoltre il malgoverno politico del continente sotto il pretesto del rispetto della sovranità degli stati. Infine, è in grado di scalzare gli sforzi delle organizzazioni dei diritti dell’uomo interessate ad issare i paesi africani nel gruppo delle nazioni rispettose degli standard in materia di diritti elementari della persona. Infatti ,il futuro politico del continente africano è strettamente legato alla sua capacità di inserirsi nella Comunità internazionale sotto qualsiasi punto di vista. Come sottolinea Yves Alexandre Chouala "il partenariato tra l’Africa ed i paesi sviluppati riposa su elementi essenziali – rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, democratizzazione della vita politica – che funzionino se non come costrizioni assiologiche almeno come valori politici da cui far dipendere, contemporaneamente, l’ammodernamento e la civilizzazione della configurazione internazionale degli Stati(36). "È dire che nel settore dei valori politici fondanti l’ammodernamento, il partenariato strategico sino-africano non offre affatto prospettive politiche realizzabili, tanto che la Cina stessa continua ad essere regolarmente messa al bando da chi si occupa di questioni sui diritti dell’uomo. Lungi dall’imporre ai paesi africani valori ideologici e politici dell’occidente, la sfida è di fondare l’ordinamento internazionale attorno a criteri selettivi chiaramente identificabili e misurabili. Come nota Louis Michel, commissario europeo allo sviluppo ed agli aiuti umanitari, "non si tratta più, oggi, di considerare l’Africa soprattutto come "un beneficiario" o "un continente in sviluppo” o addirittura “sottosviluppato", bensì come un partner a pieno titolo, un nuovo attore del sistema multipolare mondiale, dotato degli attributi della potenza politica, economica e strategica e capace di relazioni normali con gli altri poli mondiali (37)."
B. La dissociazione della coppia economia-politica
La proclamazione della non ingerenza negli affari interni degli stati africani, anche fondata di diritto, pone problemi nel contesto del deficit democratico del continente. A questo titolo, alla tappa attuale dell’inserimento dell’Africa nel concerto delle nazioni democratiche, il partenariato cinese dispiega un’insufficienza di dimensione se comparata con la AGOA o con gli accordi (UE-ACP) di Cotonou. La AGOA è un accordo che mira a promuovere il commercio tra l’Africa e gli Stati Uniti sotto l’insegna della promozione di criteri politici molto selettivi che vanno della democratizzazione, alla liberalizzazione, passando per la buona gestione ed il rispetto dei diritti dell’uomo. Quattordici paesi africani sono stati esclusi da questa nuova legge che autorizza l’entrata negli Stati Uniti in esenzione doganale e senza quota fino al 2008 dei prodotti che provengono dal continente africano. Si tratta dell’Angola, del Burkina, del Burundi, delle Comore, della Costa d’Avorio, del Gambia, della Guinea equatoriale, della Liberia, della Namibia, della Repubblica Democratica del Congo, della Somalia, del Sudan, del Togo, dello Zimbabwe. Quanto all’Unione europea, non aveva esitato a sospendere la sua cooperazione nel 1990 con il Sudan (firmatario degli accordi di Lomé Europa-ACP) per inosservanza dei diritti dell’uomo, della democrazia e del processo di pace. Ha ribadito, nel marzo 2007, la sua volontà di sospendere il suo aiuto al Sudan di fronte al rifiuto delle autorità di questo paese di autorizzare uno spiegamento di caschi blu nel Darfour. Il Forum sino-africano del novembre 2006 ha proposto un’iniziativa simile senza alcuna condizione politica, che offre così un’alternativa ai paesi récalcitranti o bolsi nel rispetto dei diritti dell’uomo. Come faceva osservare il sottosegretario di Stato americano aggiunto agli affari africani, il sig. Michael Ranneberger, il 28 luglio 2006 davanti alla sottocommissione degli affari africani della camera dei rappresentanti: " La Cina, esercita un’influenza crescente sul continente africano, e si può temere che abbia l’intenzione di aiutare i dittatori africani, ad ottenere un dominio sulle ricchezze naturali dell’Africa e a distruggere la maggior parte dei progressi che i paesi africani hanno realizzato in quest’ultimi quindici anni in materia di democratizzazione e di gestione degli affari publici(38).
§2.La messa in discussione dell’integrazione politica del continente
A. Verso il ritorno del nazionalismo
Il partenariato strategico sino-africano si sviluppa anche in un contesto politico predominato, dalla messa in opera di un ordine del giorno africano centrato sulla ricerca di una più grande integrazione politica del continente. Infatti, la creazione dell’ UA nel 2002 segna una tappa determinante nella marcia del continente verso l’unificazione politica. Questa visione unitaria è sottesa dall’idea di fare pesare l’Africa nelle istituzioni internazionali per influenzare i vari dibattiti (come il raggiungimento degli obiettivi del Millennio per lo Sviluppo), ed indurre la Comunità internazionale a negoziare non più con un conglomerato di stati ma piuttosto con le strutture sotto-regionali, regionali o continentali, in particolare con la UA. Il passo unitario ha iniziato a portare i suoi frutti con l’invito regolare dei capi africani promotori del NEPAD ai vertici del G8. È da temere che la nuova diplomazia cinese rompa questa dinamica. Da un lato, l’approccio bilaterale privilegiato da Pechino, soprattutto con i paesi petroliferi, può mantenere l’illusione di uno sviluppo distinto e relegare in secondo piano le preoccupazioni unitarie del continente. A questo proposito, l’attivismo di Pechino irrita il Sudafrica che, in mancanza di petrolio, vede i suoi due principali concorrenti, la Nigeria e l’Angola, approfittare in gran parte della manna cinese. La presenza cinese aizza le rivalità sorde tra i tre paesi candidati ad una seggio permanente nel consiglio di sicurezza. D’altra parte, l’Angola intende trarre vantaggio dal sostegno cinese per invertire l’equilibrio sotto-regionale in Africa australe per il momento predominato dalla direzione sudafricana.
B. La fidelizzazione del voto africano all’ONU
Chiamando ad accrescere l’influenza dell’Africa nelle istituzioni internazionali, la Cina cerca piuttosto di sviluppare una rete di alleati per mantenere un vivaio di partner suscettibili di controbilanciare l’influenza delle potenze concorrenti. La prospettiva dell’allargamento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha già dato un assaggio del duello diplomatico ingaggiato da Cina e Giappone in Africa. Pechino apprezza tutto il peso delle voci africane che gli hanno permesso nel 1971 di avere il suo seggio di membro permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a scapito di Taiwan. La recente nomina di una cinese alla testa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha rimarcato l’importanza del voto dei 48 paesi africani, che rappresentano il 25% alle Nazioni Unite. D’altra parte, non è escluso che la divisione dei paesi africani si accentui al livello delle istituzioni internazionali attorno alle questioni, ad esempio, legate ai diritti dell’uomo, un settore dove Pechino eccelle nell’immobilismo. Inoltre, anche se la questione taiwanese non è più al centro della sua azione in Africa, Pechino, a sostegno del suo successo economico, utilizza ormai la diplomazia del “portafoglio” per isolare Taiwan, con un certo esito. Dopo il ristabilimento delle relazioni diplomatiche del Senegal con la RPC nel 2004, rimangono soltanto quattro paesi africani (Burkina-Faso, Gambia, Sao Tome e Principe, Ciad) su 53 a sostenere Taipei. L’opportunismo di alcuni stati africani è tale che la serie Taipei-Pechino è lungi dal conoscere il suo epilogo e trascinerà con sè, certamente, un’enfasi nella divisione del continente negli organismi internazionali. Riassumendo, la non ingerenza cinese elevata a principio immutabile, minaccia pericolosamente il futuro politico del continente africano. Come osserva Valérie Niquet, "Pechino utilizza la sua condizione di membro del consiglio di sicurezza dell’ONU per offrire garanzie politiche a regimi corrotti." La Cina ha buon gioco sul tessuto del terzo mondo, questa pratica ricorda le strategie che i paesi occidentali avevano realizzato appena dopo la liberazione; ritarda le evoluzioni democratiche necessarie in Africa”(39).
Sezione 2: Le prospettive economiche: opportunità o pericoli?
Anche se apparentemente le nuove relazioni sino-africane sono portatrici di opportunità economiche per il continente, resta il fatto che non garantiscono uno sviluppo economico realizzabile e soprattutto, presentano reali rischi di déstrutturazione del tessuto industriale embrionale dei paesi africani.
§1. Le opportunità economiche
A. Se lo sviluppo venisse dall’oriente?
La penetrazione economica di Pechino si accompagna alla promozione del modello cinese basata sull’idea di una compatibilità sino-africana, quasi naturale. Infatti, a lato del passato di umiliazione e di privazione giudicato comune, la Cina insiste sulla necessaria complementarità sino-africana. Nel corso della sua visita in Nigeria, nell’aprile 2006, il Presidente Hu Jintao non ha trascurato di metterla in evidenza dinanzi ai parlamentari dichiarando: "l’Africa ha risorse ricche ed un grande potenziale di mercato, mentre la Cina ha accumulato nel suo ammodernamento un’esperienza vantaggiosa e delle tecniche pratiche." La cooperazione sino-africana ha dunque vaste prospettive. L’argomentazione cinese riposa sull’adattamento delle tecniche cinesi al substrato sociale ed economico dei paesi africani, in ragione della loro semplicità e della loro frugalità. "Questa visione genera emulazione al punto che alcuni pensano che il partenariato sino-africano offra prospettive di sviluppo reale dell’Africa. Inoltre, "l’autoritarismo politico raddoppiato dall’apertura economica, fonte di crescita (40)" non lascia indifferenti i dirigenti africani. Alla Cina piace ricordare che è il più grande paese in via di sviluppo e che l’Africa rappresenta il più vasto complesso in via di sviluppo. A questo titolo, e secondo ogni verosimiglianza, la complementarità va da sé. Pechino ha bisogno delle materie prime del continente africano per sostenere la sua crescita, mentre l’Africa è alla ricerca di capitali, di prodotti e del "know-how" cinese. Questa visione si è tradotta dal lato di Pechino in una rivalutazione dell’aiuto allo sviluppo dell’Africa grazie ad un approccio multidimensionale che va dell’assistenza tecnica, ai prestiti e crediti senza interessi, passando per le realizzazioni di carattere sociale. Queste opportunità si misurano inizialmente con il miglioramento della crescita in alcuni paesi, quindi al livello degli aiuti allo sviluppo e alle prospettive economiche in esse racchiuse.
B. Il commercio cinese fattore di crescita
Gli effetti positivi della presenza cinese in Africa derivano soprattutto dall’aumento della domanda di materie prime e dunque dal loro prezzo di vendita. Per esempio, la domanda cinese d’acciaio è aumentata del 20% tra 1992 e 2002, mentre l’aumento medio mondiale non era che del 4%. Alcuni stati sono cresciuti per l’espansione del commercio sino-africano. Così la Nigeria e l’Algeria hanno conosciuto un tasso di crescita rispettivamente del 6,8% e del 10%. L’Africa ha oggi il suo tasso di crescita il più elevato (circa 6% nel 2006) in parte grazie al dinamismo della presenza cinese. Gli scambi commerciali sino-africani hanno avuto un aumento folgorante in quest’ultimi anni, con un aumento del 535% dal 1995. Pechino è diventato il terzo partner commerciale dell’Africa, dopo la Francia e gli Stati Uniti. Più di 800 imprese cinesi si sono stabilite in Africa e la Cina importa il 30% del suo petrolio dal continente africano. Nel settore dell’aiuto allo sviluppo, i crediti e i prestiti cinesi si quantificheranno in 5 miliardi di dollari entro il 2009, senza contare la firma a margine del terzo vertice sino-africano, di 16 accordi commerciali tra 12 imprese cinesi e 10 paesi africani che riguardano un valore di 1,9 miliardi di dollari.
C. Un aiuto pubblico differenziato ed un partenariato motore dello sviluppo
Nel settore dell’aiuto pubblico, il segnale è stato già dato dal Presidente cinese, Hu Jintao che, in occasione della sua visita in Africa del 2004, aveva promesso una cooperazione economica verso le infrastrutture, l’agricoltura e lo sviluppo delle risorse umane. Le misure previste dal vertice sino-africano del novembre 2006 lasciano pensare che la Cina sia impegnata nella realizzazione di queste promesse in Africa. Infatti, prevede di inviare i 100 ingegneri agronomi, creare 10 centri-pilota agricoli, costruire 30 ospedali, ed offrire gratuitamente 300 milioni di yuans per lottare contro il paludismo nel corso dei prossimi tre anni. Per l’istruzione, Pechino prevede di inviare 300 giovani volontari cinesi per aiutare a creare 100 scuole rurali in Africa e portare da 2000 a 4000 il numero delle borse studio accordate ogni anno dal governo cinese agli studenti africani. Nel settore delle prospettive economiche suscettibili di rappresentare una reale sfida di sviluppo, va notato che l’aumento dei costi di trasporto marittimo potrebbe gradualmente portare la Cina a favorire la creazione di un’industria di trasformazione delle materie prime (bauxite e ferro) sul continente. Si aggiunge che la firma degli accordi di partenariato economici (APE) tra le strutture regionali africane e l’Ue porterebbe gli industriali cinesi a produrre all’interno di queste regioni al fine di accedere al mercato europeo ed approfittare così della prossimità geografica. Infine, l’avvio di una cooperazione tecnologica inciterebbe a pensare che un trasferimento di "know-how" cinese contribuirebbe ad accelerare lo sviluppo di alcuni settori, in particolare agricoli ed industriali. In breve, il partenariato strategico è vissuto da molti dirigenti africani come un’opportunità economica. In un contesto di chiusura del mercato europeo, l’Asia, e la Cina in particolare, rappresentano un’alternativa. Alcuni osservatori vi vedono anche un nuovo mezzo per ridare all’Africa un ruolo strategico, rafforzando così il suo potere di negoziato grazie alla diversità degli interlocutori. Il Presidente Olesegun Obasanjo della Nigeria, ammirato dinanzi al futuro delle relazioni sino-africane ha esclamato: "auspichiamo che la Cina diriga il mondo e quando sarà il caso, noi vogliamo essere appena dietro voi." Quando andrete sulla luna, non vogliamo essere lasciati indietro ".
§2. I pericoli economici della presenza cinese
Dietro le cifre e le promesse dell’offensiva cinese, occorre interrogarsi sul futuro economico del continente alla luce delle tendenze che si delineano in molti settori. Innanzitutto, la presenza economica cinese incontra dei limiti a livello della generazione di un quadro strutturale africano favorevole alla crescita, e che si iscrive negli schemi d’integrazione in corso. In secondo luogo, i meccanismi del partenariato ricordano sotto diversi aspetti lo squilibrio commerciale che ha sempre caratterizzato gli scambi tra l’Africa e le sue ex potenze coloniali. Infine, la presenza cinese non è sempre sinonimo di creazione di ricchezza a causa dei metodi in vigore.
A. L’assenza di un quadro strutturato di sviluppo
Il primo pericolo indotto dalla presenza cinese in Africa deriva dall’assenza di un quadro strutturato atto a garantire la durata della redditività degli investimenti. Infatti, mettendo davanti il principio di non ingerenza e la cultura del bilatéralismo, la Cina rivolge indirettamente le spalle alle iniziative collettive come quelle del NEPAD che ha chiaramente stabilito la necessità di inserire i grandi investimenti sul continente africano, in progetti collettivi e complementari. Ad esempio, nel settore dello sviluppo delle infrastrutture, gli investimenti cinesi sono generalmente volti alla costruzione di una rete di comunicazioni (strade, ferrovie, condutture) utili solo all’estrazione ed al trasporto del petrolio o delle materie prime (caso del Sudan) e spesso staccati dal progetto d’integrazione previsto dagli esperti del NEPAD. Come sottolinea giustamente Yves Ekoué Amaizo "se la UA ed i governi africani non si decidono ad elaborare una carta esauriente delle azioni multidimensionali della Cina in Africa, avranno lasciato operare l’essenziale della loro cooperazione con la Cina senza una strategia d’insieme"(41). Questa cautela raggiunge quella del presidente della commissione dell’ UA, Alpha Oumar Konaré, che ha annunciato le sue preoccupazioni, nel periodo successivo al vertice di Pechino del 2006, quanto alla capacità dell’Africa di trarre un grande vantaggio dal partenariato con la Cina sotto la sola insegna del bilatéralismo. A questa mancanza di visione strategica, si aggiunge la tendenza ad incoraggiare il malgoverno economico con il contributo d’investimenti senza alcuna condizione. Tale atteggiamento, che favorisce l’emergenza di pratiche clientelari, rallenta l’arrivo di altri investitori potenziali e ritarda, di fatto, il formarsi di un ambiente degli investimenti propizio alla crescita delle economie africane.
B. La persistenza del deterioramento dei termini dello scambio
Nel settore degli scambi commerciali, il partenariato sino-africano è predominato dalla diseguaglianza degli scambi. Risulta che la Cina importa principalmente materie prime dal continente e non favorisce la diversificazione delle esportazioni africane. Al contrario, inonda il mercato africano di prodotti manifatturieri e fa concorrenza alla stessa industria locale. Nel settore tessile ad esempio, l’industria sudafricana è stata scossa dai prodotti cinesi al punto che gli imprenditori locali richiedono misure di protezione per fare fronte alle pratiche di dumping cinese. Nel corso della sua recente visita in questo paese nel gennaio-febbraio 2007, il Presidente Hu Jintao ha potuto misurare il clima anticinese veicolato dalle organizzazioni patronali e sindacali. Dallo smantellamento degli accordi multifibre nel 2005, tutta l’industria tessile del continente è minacciata; le ditte cinesi in questo settore non possono essere oggetto di concorrenza da parte delle imprese africane ed è da temere un declino prossimo dell’industria tessile in Marocco (45% dell’occupazione industriale), in Tunisia, nel Madagascar (30% dei lavoratori dipendenti del settore industriale) ed in molti paesi africani dell’Ovest produttori di cotone; una situazione portatrice, molto probabilmente, di disoccupazione e di tensioni sociali. Oltre allo smantellamento di tessuto industriale embrionale, le esportazioni cinesi di prodotti manifatturieri in Africa soffocano le piccole e medie imprese (PMI) ed ampi settori dell’economia informale. In Senegal, l’Unione nazionale dei commercianti ed industriali (UNACOIS) ha denunciato varie volte, nel 2004 e nel 2005, la concorrenza sleale cinese. Lo stesse récriminazioni sono percettibili in Sudafrica, in Guinea equatoriale, nello Zimbabwe ed in Zambia dove l’argomento ha occupato una parte del dibattito in occasione dell’elezione presidenziale, che induce anche alcuni candidati a promettere l’espulsione pura e semplice degli uomini di affari cinesi dal paese. Lo squilibrio della bilancia commerciale dei paesi africani (eccetto per i paesi produttori di petrolio), evoca la situazione degli anni ‘70, anni durante i quali l’economia africana era ridotta ad un’economia di entrate i cui redditi sparsi non erano orientati alla costruzione di un’industria ed al miglioramento delle condizioni socio-economiche delle popolazioni. "La Cina appare dunque in Africa come un predatore, secondo il modello ieri messo in opera dalle potenze coloniali." (Una) strategia… che permette ai regimi più discutibili della regione di ricostituire un’economia di entrate fondate sullo sfruttamento massiccio delle risorse naturali, senza reale trasferimento di ricchezza o di "know-how" verso le popolazioni locali(42).
C. Un partenariato che non genara ricchezze
Il partenariato cinese non è generatore di crescita duratura e di ricchezze a causa dei metodi generalmente messi in atto negli investimenti. Infatti, oltre alla constatazione che quest’ultimi sono principalmente volti allo sfruttamento delle materie prime, la Cina si distingue con la sua tendenza a non creare lavoro in Africa. Nei grandi lavori come la costruzione delle infrastrutture, Pechino non esita ad importare manodopera cinese e subappalta di rado alle imprese locali(43). Questa capacità di beneficiare di una manodopera economica rende le imprese cinesi molto più competitive di quelle del settore privato africano. D’altro canto poichè, gli investimenti cinesi non si accompagnano ad alcun trasferimento di tecnologia per le imprese locali africane, è difficile per quest’ultime sviluppare capacità produttive endogene, uniche fonti di creazione di ricchezze durature. Infine, la politica di sovvenzioni realizzata da Pechino rovescia molto spesso il quadro istituzionale concepito dalle istituzioni finanziarie internazionali al punto che alcuni come Paul Wolfowitz, il presidente della BM, predicono il re-indebitamento del continente africano tramite gli aiuti cinesi. Il partenariato strategico sino-africano presenta dunque numerosi scogli nel settore economico e non garantisce una crescita duratura per la maggior parte delle economie africane come constatato da Moeletsi Mbeki, vicepresidente dell’istituto sudafricano degli affari esteri dell’università di Witwatersrand, a Johannesburg: "In cambio delle materie prime che vendiamo loro, comperiamo i loro prodotti manifatturieri (…)," Non si assiste alla ripetizione di una vecchia storia(44)?
Pierre Antoine Braud « La Chine en Afrique, anatomie d’une nouvelle stratégie chinoise » op.cit. p.6
Yves Alexandre Chouala, « L’Afrique dans le nouveau partenariat international Enjeux de civilisation et de puissance », Revue Études internationales, volume XXXIV, no 1, mars 2003
Louis Michel, Conférence publique sur la Stratégie Afrique prononcée à Berlin, le 28 novembre 2006
Jim Fisher-Thompson, La Chine ne constitue pas une menace pour les Etats-Unis», www.uspolicy.be, juillet 2006
Valérie Niquet, interview donné au journal Expansion, 1° décembre 2006
Pierre Antoine Braud, op.cit. p.21
Yves Ekoué Amaizo, « Pour une nouvelle coopération Afrique-Chine : des erreurs à ne plus reproduire », article en ligne www.afrology.com/eco/amazoi_chinafric.htlm, avril 2006
Valérie Niquet, « la stratégie africaine de la Chine », op. cit. pp.373
I cinesi si difendono invocando la mancanza di specializzazione della manodopera locale d’œuvre locale e i margini stretti per le consegne. C’è ugualmente, da parte loro,una volontà di superare gli ostacoli di ordine sindacale. Intervista con M Lionel Vairon, 12 février 2007.
Jean-Christophe Servant, « La Chine à l’assaut du marché africain » op. cit.p.5