L'ANNO DEL DRAGONE (di G. Gabellini)
E' notizia relativamente fresca di cronaca quella che rivela il "sorpasso" economico del colosso cinese sul suo grande, storico rivale estremorientale, il Giappone. Questo mero dato di fatto altro non è che il coronamento dell’acuta politica estera ed economica portata avanti dai facinorosi strateghi di Pechino da diversi anni a questa parte.
I fattori fondamentali che hanno contribuito al successo sono diversi, ma riconducibili a una civiltà marcatamente ispirata al confucianesimo tradizionale, che è una dottrina particolarmente radicata nella cultura cinese. La Cina basa la propria efficacia su una società fortemente centralizzata, autocratica e autoritaria, sull'elemento demografico letteralmente esorbitante e, last but not least, su un tipo di politica scevro da condizionamenti ideologici, sacrificati sul benemerito altare del pragmatismo operativo. Se il vecchio statista Deng Xiao Ping indicava a suo tempo la necessità di "Nascondere gli artigli mentre si sviluppa la propria potenza”, i suoi eredi (Hu Jintao in particolare) hanno dimostrato di aver tenuto in notevole considerazione tale suggerimento. La Cina è infatti estremamente restia a scoprire le carte e a rivelare apertamente i propri progetti economici, politici e geopolitici. E’ proprio di fronte a questa saggia discrezionalità cinese che molti “esperti” di relazioni internazionali sono rimasti letteralmente impietriti, quando sono venuti a sapere che gli abili diplomatici di Pechino avevano chiuso un contratto d'oro per lo sfruttamento della gigantesca miniera di rame situata nella provincia afghana di Lowgar, corrompendo alcuni dirigenti del burlesco governo guidato da Hamid Karzai; o quando uscì la notizia relativa al fatto che Pechino stava letteralmente "comprandosi" vastissime zone dell'Africa per adibirle ai propri scopi (non ultimo dei quali, la coltivazione intensiva di cereali, utili a far fronte alla crescente domanda di quel miliardo e passa di persone), riproponendo una versione, pur rivisitata e corretta, del vecchio colonialismo britannico. Questo pragmatismo, da molti "utili idioti" considerato "cinico", in realtà estremamente "realista" nel senso schmittiano del termine, ha portato la Cina ad eludere la strada ipocrita dei diritti umani (tanto cara agli yankees) in favore di una tacita noncuranza nei confronti del tasso di moralità e dell'operato dei principali interlocutori politici ed economici, cosa ampiamente dimostrata dall'appoggio incondizionato fornito al governo sudanese in occasione della patetica e gonfiatissima campagna mediatica costruita ad arte sul regime di Karthoum, reo, secondo i soliti “umanitaristi” a corrente alternata e geometria variabile (gli stessi, per intendersi, che cianciano di "democrazia in Iraq"), di perpetrare il solito "massacro indiscriminato" a danno dell’inerme popolazione civile. Con questo paese Pechino vanta rapporti economici estremamente redditizi (specie per quanto riguarda il petrolio), che vanno ben oltre il mero saccheggio di materie prime. Intrattenendo rapporti internazionali sulla falsariga di quello con il Sudan, in chiave, cioè, chiaramente strategica, la Cina non si limita infatti a trarre vantaggi diretti (in termini di conquista di materie prime), ma mira a conquistare mercati su mercati, a forza di infrastrutture, corruzione ed investimenti rigidamente gestiti dal fondo sovrano nazionale ("China Investment Company"), di proprietà dello stato. Lo stato è detentore, tra l'altro, della quota di maggioranza del colosso energetico "China National Petroleum Corporation" (CNPC), la più grande compagnia petrolifera (al di fuori di qualche "Sorella" americana) in termini di capitalizzazione. Questa compagnia statale ha stipulato una serie di contratti energetici molto vantaggiosi con la russa Gazprom, mediante i quali è stato spianato il terreno per l'odierna intensificazione dei rapporti diplomatici tra le due grandi potenze asiatiche, dalla quale è scaturita la "Organizzazione per la Cooperazione di Shangai", un patto sottoscritto da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tajikistan in chiave politica, economica e militare. Diversi analisti hanno indicato la possibilità che l'organizzazione in questione celasse in realtà una sorta di "Patto di Varsavia" renaissance, finalizzato a proteggere l'area dalle sortite statunitensi. E’ effettivamente probabile che dietro le motivazioni ufficiose della cosiddetta "lotta ai tre mali" (estremismo, separatismo e terrorismo) vi sia un concreto progetto difensivo, che impegna tutte le nazioni a uno sforzo congiunto per il perseguimento di un obiettivo in grado di garantire cospicui vantaggi. Tuttavia la Cina non si è fermata alla fase difensiva, ma si è spinta ben oltre i propri confini, giungendo, addirittura, a mettere le mani sulla grande struttura economica statunitense. Pechino ha fatto leva sulla sua esorbitante capacità produttiva per inondare il mercato americano con le proprie merci, dalle quali ha ottenuto, e continua ad ottenere, lauti profitti da destinare poi all'acquisto di titoli di stato americani, fondamentali per il sistema economico statunitense, incentrato com’è sul deficit pubblico. Gli Stati Uniti hanno però approfittato della situazione, che a breve e forse medio termine farà ricadere vantaggi anche su di loro, per esportare i propri prodotti verso il mercato orientale, alimentando a loro volta la crescita economica cinese, in ciò favoriti da un tasso di cambio tra yuan e dollaro che ha subito ben poche alterazioni in questi anni. In questo modo le due nazioni hanno legato i propri destini in maniera apparentemente equanime, non fosse che il debito pubblico statunitense è a livelli soverchianti, e che la Cina è il primo esportatore negli USA, mentre questi ultimi non dispongono di un potere analogo per quanto concerne le importazioni cinesi. Fino a un quindicennio fa circa, l’equilibrio commerciale tra i due grandi paesi in questione era infatti in parità, mentre ora l’esubero cinese negli scambi con Washington è di circa 275 miliardi di dollari. Queste condizioni favorevoli potrebbero portare la Cina a diminuire gradualmente la quota dei profitti derivanti dall’export che normalmente investono per l’acquisto dei titoli di stato statunitensi, e di destinarli alla costruzione o al potenziamento delle infrastrutture strategiche (quelle, per intendersi, relative all’energia e al trasporto), in modo da svincolarsi parzialmente dal pericoloso legame con gli USA. La Cina è pur sempre titolare del 25% circa del debito pubblico americano (si parla di 800 miliardi di dollari, all’incirca), e anche frenando i flussi finanziari da destinare agli USA, rimarrebbe in posizione dominante rispetto a Washington. Scegliendo di operare in questa direzione, gli abili strateghi cinesi verrebbero, seppur a lungo termine, messi nella condizione di poter decidere arbitrariamente di far leva su questa situazione favorevole alla Cina per assestare un durissimo colpo all’economia statunitense. Al momento la strada è impraticabile, in quanto il dislivello tra le due nazioni non ha ancora raggiunto certi livelli. In sintesi, la Cina dispone al momento dei mezzi per colpire l’economia statunitense, ma non può ancora permettersi di adoperarli, poiché, tra le altre cose, vedrebbe quegli 800 miliardi di dollari di debito statun
itense di cui è titolare volatilizzarsi in poco tempo. Nel non lontanissimo 1973, successe qualcosa di simile, sotto certi aspetti; successe che L’OPEC aveva decretato un aumento del prezzo del petrolio, determinando una crisi economica che era andata a ripercuotersi soprattutto sull’industria automobilistica americana. Il calo vertiginoso della domanda di automobili costrinse le varie Ford e General Motors a licenziare circa otto milioni di lavoratori (mai realmente riassorbiti) e regalò all’amministrazione guidata da Richard Nixon una recessione economica come raramente se n’erano viste fino a quel momento. In ogni caso, risulta evidente anche agli atlantisti più incalliti l’inoppugnabile fatto che la Cina sta bruciando le tappe, ed è, a lungo andare, destinata a scalzare gli Stati Uniti e ad assurgere, di conseguenza, a principale potenza economica mondiale. I laboriosi strateghi di Washington paiono in fibrillazione, e cercano visibilmente di trovare contromisure credibili a questa brutta situazione. E’ probabile però che nemmeno l’Azzeccagarbugli riuscirebbe a individuare una via di fuga percorribile per loro.