L'aquila americana trasformata in arpia con artigli e, mutazione genetica, tentacoli
“Per noi americani queste scene di rivolta possono essere spiazzanti, ma conosciamo bene le forze che le guidano. La nostra stessa nazione è stata fondata sulla base della ribellione contro un impero."
E' un passo del discorso del presidente Obama, tenuto il 19 maggio, bellamente ignorato nei resoconti; un messaggio, quello di Obama, pieno di retorica ma che sancisce in maniera esplicita e definitiva, nel medio periodo, il cambio di strategia e di tattica avviato, oltre quattro anni fa, con la nomina di Robert Gates a Segretario della Difesa e che potrà essere ribaltata, a questo punto, in caso di scacco, solo con una aperta e traumatica sconfessione dell'attuale amministrazione americana. Non è il passo cruciale; ve ne sono altri, strombazzati dalla stampa, quelli per intenderci su Israele, sul Bahrein, sulla Siria, altri ancora, sui piani di aiuti e riforme economiche, più importanti ma passati praticamente in sordina, entrambi concreti rivelatori dell'articolazione di obbiettivi e modalità di intervento. E' il segno della maturità e della sagacia raggiunta dai gruppi dirigenti americani; qualità che spesso si acquisiscono e coincidono, stando alle nostre analisi e ai nostri auspici, ma anche alle esperienze storiche similari, in particolare quella dell'Inghilterra di inizio novecento e in minor misura della Francia di fine settecento, con la fase crepuscolare del dominio imperiale.
Quella frase vuole essere, soprattutto, una rassicurazione e un avvertimento agli ambienti americani, orfani di Rumsfield e delle sue tattiche più dirette. Il discorso segue di due anni, con coerenza, quello pronunciato a fianco del “dittatore” Mubarak con un appello al dialogo con il mondo islamico, alla democrazia e con i richiami “responsabili” in particolare all'Iran.
La coerenza della retorica, però, il più delle volte fa a pugni con la realpolitik e gli atti politici concreti.
Se la Tunisia e l'Egitto hanno offerto una sorta di investitura popolare al cambiamento pilotato con le loro manifestazioni di massa, ma comunque decisamente minoritarie rispetto alla popolazione, in Bahrein le stesse, realmente partecipate, sono state duramente e sanguinosamente represse, in Libia letteralmente inventate per giustificare, senza la minima preoccupazione di argomenti fondati, l'intervento militare, in Siria, limitate e circoscritte ad alcuni paesi di frontiera e istigate da operazioni di provocazione e cecchinaggio di forze filosaudite, utilizzate per spingere, per il momento, Bashar a trattare.
Tutti questi eventi hanno però una prima costante fondamentale: quella di avere il centro ideologico e di attivismo agitatorio, nella diaspora ospite soprattutto negli USA e in Gran Bretagna e con legami riconosciuti con fondazioni e servizi di intelligence, il sostegno concreto oltre che dei due paesi dominanti, anche, in paradosso apparente, dei regimi più reazionari della regione (Arabia Saudita e Qatar) e, nei paesi alleati di Egitto e Tunisia, il sostegno della quasi totalità dell'esercito.
Si sa che quasi tutte le rivoluzioni serie, checché ne pensino i romantici ed i demagoghi, hanno goduto, per il loro successo, del sostegno decisivo e delle rivalità delle potenze dominanti. E' successo in America, in Russia, in Cina, nel Medio Oriente e altrove; quello che fa la differenza è la presenza di un gruppo dirigente consapevole, portatore di interessi nazionali e profondamente radicato nella popolazione; un requisito che dall'Egitto in giù risulta tanto più evanescente quanto più i movimenti appaiono eterodiretti e indefiniti, legati per lo più ad interessi e libertà di bottega.
Obama ha detto anche che le vie della democrazia varieranno a seconda del contesto e non avranno un tracciato lineare.
Questa affermazione lascia intravedere una seconda costante, già presente nella politica di Bush padre, in un'ottica però, allora, di tradizionale rapporto tra stati, resa evidente dalla gestione della prima guerra del Golfo, tracciata nel primo discorso di Obama ed ora messa scientificamente in atto: quella delle pratiche di divaricazione delle contraddizioni nei paesi oggetto di attenzione e dell'indebolimento e della penetrazione attraverso sostegno eventuale ad alcune delle fazioni contrapposte; è accaduto in Libia con il sostegno anche alle componenti integraliste più militarizzate ed impegnate, in altri fronti, a cecchinare i militari americani; sta accadendo in Egitto con le reciproche aperture con i Fratelli Mussulmani e l'avvallo delle loro trattative con l'esercito egiziano a scapito della componente più occidentalizzata del movimento; comincia a maturare anche in Iran dove il parziale tentativo di trasformazione laica dello stato e di costruzione di un nazionalismo alla ricerca di radici più nella cultura persiana che in quella del panismo islamico spingerà una delle parti, presumibilmente quella integralista, a cercare sostegno presso i democratici occidentali, tanto più che sono ancora da definire i pesi nelle zone di influenza regionale in Iraq e in Afghanistan.
Si tratta di realtà estremamente fluide e dinamiche, in regioni strategiche dove la società sta conoscendo ampie trasformazioni.
“Per prima cosa, abbiamo chiesto alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale di presentare un piano, al G8 della prossima settimana, per stabilizzare e modernizzare le economie di Tunisia ed Egitto. Secondo: non vogliamo che l’Egitto democratico sia zavorrato dai debiti ereditati dal suo passato. Quindi alleggeriremo di un miliardo di dollari il debito dell’Egitto e lavoreremo coi nostri partner egiziani per investire queste risorse per la crescita economica. Garantiremo agli egiziani un miliardo di dollari in prestiti, per creare posti di lavoro e infrastrutture. Terzo. Stiamo lavorando con il Congresso per creare fondi d’investimento in Tunisia e in Egitto, sul modello di quelli che furono messi in campo nell’Europa dell’est dopo la caduta del Muro di Berlino. Quarto, lanceremo un’iniziativa globale per ravvivare il commercio e le esportazioni di Medio Oriente e Nordafrica: se si toglie il petrolio, oggi le esportazioni dell’intera regione sono pari a quelle della Svizzera.”
La stampa ha pressoché ignorato anche questo passo fondamentale del discorso di Obama, come ha ignorato nell'intervento in Libia, a suo tempo, il nesso tra il rifiuto di Gheddafi di varare le riforme liberiste, di mercato aperto, promosse dal filoangloamericano Jabril, la sua successiva apertura a Putin e Berlusconi e l'inizio dell'infiltrazione anglo-franco-americana nella Cirenaica.
Alla strategia di alleanza, dove possibile, con i regimi nazionalisti, rimasti pressoché identici pur nei loro voltafaccia, si sta sostituendo, quindi, una strategia tentacolare tesa a creare in quei paesi più centri di potere, più flessibili e con propri legami con la casa madre, una economia non più solo sovvenzionata ma interconnessa e integrata con i paesi dominanti e alla creazione e sviluppo di nuovi ceti medi più legati agli interessi
ed ai valori occidentali.
Questa politica potrà portare anche benefici a parti importanti della popolazione, così come il colonialismo occidentale arrivò a proibire la tratta degli schiavi in uso tra i colonizzatori portoghesi e soprattutto arabi in africa nera, probabilmente alcuni di questi paesi riusciranno a ritagliarsi un ruolo intermedio ma tutto a scapito dell'indipendenza politica e delle possibilità di sviluppo autonomo.
Gli esempi e l'esperienza in questo tipo di politica ormai non mancano. L'Europa dell'Est, il Sud-Est asiatico sono a proposito illuminanti; quello che cambia è la dinamicità e la vastità del progetto, come pure le incognite che lo attraversano; probabilmente ci sarà qualche accorgimento in più nel creare una struttura produttiva ed industriale più capillare che in qualche maniera attenui le predazioni ed i disastri creati nei paesi baltici e in quelli più prossimi alla Russia; tanto dipenderà dalla residua forza delle classi dirigenti locali.
Vi sono ancora due elementi fondamentali che giocano a vantaggio, almeno temporaneamente, della strategia egemonica degli Stati Uniti in questi frangenti: le maggiori chances di costruzione di una Eurafrica filoatlantica in antitesi alle tentazioni di costruzione di un blocco eurorusso autonomo dagli States; il maggiore isolamento cui pare condannata soprattutto la Russia e la maggiore dipendenza della Cina e dell'India dalle scelte americane.
Se a questo dovessero aggiungersi la riuscita delle politiche di autonomia energetica dalle forniture russe o quantomeno dell'interruzione delle politiche di contrattazione diretta dei paesi europei e la significativa minore dipendenza della Cina dal gas dei paesi ex-sovietici, grazie ai rilevamenti di importanti giacimenti di shale-gas sul territorio nazionale verrà ancora più a nudo la debolezza di una politica di indipendenza nazionale russa fondata soprattutto sul quasi monopolio di alcune risorse energetiche. Una particolare attenzione, in casa nostra, dovrà essere rivolta, in proposito, al progetto di ENI di costruire una grande rete di distribuzione europea che riduca drasticamente il fabbisogno di riserve e stockaggio di gas, stimate, pare, all'equivalente delle importazioni di combustibile dalla Russia.
Il nuovo corso di Gates-Obama ha preso atto, in sostanza, dell'impossibilità di gestire e dominare il mondo con i soli interventi diretti e brutali e mira a creare delle gerarchie più articolate e sofisticate entro cui riconoscere ruoli diversi ai vari paesi; la posizione dell'Italia appare alquanto insignificante, se non come terra di conquista da spogliare ulteriormente. La stessa Russia oltre alle concrete manovre di isolamento politico ed economico sta subendo le rinnovate blandizie di inviti a partecipare alle spedizioni militari dei “volonterosi” e a integrare le attività legate alle proprie ricchezze naturali in un mercato comune aperto; una parte del gruppo dirigente appare sensibile. Il resto e gran parte della popolazione saranno, però, ancora memori dei disastri e della carestia provocata dalle analoghe scelte di Eltsin e Gorbaciov; quel che è certo che alla vittoria di una fazione negli USA, corrisponde quantomeno il disorientamento se non la resa o la contrattazione di basso livello degli altri.
Dalla risoluzione di queste residue incertezze dipenderà, tra l'altro, il tipo di trattamento finale da riservare a Siria ed Iran e forse alla Corea.
Si tratta comunque di una politica rischiosa soprattutto per una potenza già invischiata in due conflitti caldi lungi dall'essere risolti e costretta quindi, in caso di ulteriori crisi militari a ricorrere alle riserve, comprese quelle degli alleati, con tutti gli ulteriori costi politici ed economici connessi; è quanto si sta verificando, ad esempio, in Libia dove gli alleati Francia e Gran Bretagna stanno ormai pianificando e predisponendo i mezzi per un attacco con truppe terrestri.
Con tutti questi spunti a disposizione, l'aspetto su cui si sofferma la stampa è la riesumazione del piano di trattative tra palestinesi e israeliani più volte presentato negli stessi termini dai vari presidenti ed altrettante volte fallito e con l'ulteriore aggravante di omettere l'unico aspetto rilevante di quel passo: l'assenza di Siria e Libano tra i paesi da coinvolgere nelle trattative; segno di quale sarà il prossimo scacchiere da tenere in caldo con la diplomazia, l'intervento asimmetrico oppure una vera e propria guerra calda a seconda dell'evolversi della situazione sul campo e con Russia, Turchia e Iran.
I servitori lacchè vogliono vedere la faccia dell'arpia ma non il corpo nascosto fatto, nella versione inedita, di artigli e tentacoli; altro che nobiltà dell'aquila americana