L'Araba Fenice del ceto medio
Queste riflessioni traggono spunto da quattro scritti: l'articolo di Berlinguer dell'ottobre 1973, con cui si lanciava la proposta di compromesso storico del PCI con la DC, gli articoli di Stefano Fassina, responsabile economico del PD, apparsi su Italianieuropei del 21 marzo scorso, intitolato “Europa-Italia: un progetto alternativo per la crescita e di aprile 2009, intitolato “l'agenda riformista per le democrazie dei ceti medi”, nonchè un saggio di Arnaldo Bagnasco, esposto all'Accademia dei Lincei nel 2004.
Il centro dell'attenzione è ovviamente costituito, per la sua attualità politica, dall'elaborazione di Fassina; è la prosecuzione, la sua, di uno sforzo elaborativo di un programma politico capace di attrarre nell'area PD nuovi strati sociali, lanciato nell'assemblea democratica dell'inverno scorso di cui si è già discusso in un precedente articolo e proseguito con ulteriori elaborazioni miranti a individuare le figure sociali da coinvolgere in un piano riformatore. Cotanta ambizione sembra esaurirsi già nei soli titoli; non trova spazio adeguato negli elaborati.
L'assunto da cui parte è che l'attuale crisi deriva dalla insufficiente “governance” del multilateralismo incipiente, dalla polarizzazione sociale e dal progressivo impoverimento di gran parte del ceto medio dei paesi occidentali.
Il rimedio dilatorio e foriero di ulteriori squilibri economici e finanziari è stato quello di finanziare l'indebitamento dei paesi esposti da parte di quelli produttori di ricchezza e dei ceti medi in via di depauperamento. Così i ceti medi della Cina hanno finanziato l'indebitamento americano e dei suoi ceti medi, rinunciando a buona parte del proprio benessere in nome del surplus; così, nella Comunità Europea, la Germania mantiene il proprio predominio economico e le proprie esportazioni in Europa finanziando l'indebitamento degli stati deboli e alimentando la stagnazione della loro economia e dei loro ceti intermedi.
Lo sforzo elaborativo, in pratica, si esaurisce qui, in un abbaglio epifenomenico.
La soluzione non è da meno: ridurre gli squilibri attraverso la tutela della capacità di reddito e di spesa del ceto medio di ogni paese ed alimentare la ripresa produttiva interna e scambi più equilibrati.
Anche concedendo, solo per un attimo, plausibilità a questa visione economicista e di mercato, di domanda aggregata, sorgono due quesiti: quale sarebbe il destino dei paesi con scarsa capacità produttiva ed industriale? In una Europa sempre più aperta al mondo, per motu proprio e per impulso americano (vedi le pesanti pressioni, dovuti a motivi geopolitici, per l'apertura unilaterale ai prodotti coreani), quali sarebbero i rischi di pesante indebitamento e dipendenza commerciale dai paesi emergenti rispetto all'auspicabile circuito virtuoso di sviluppo delle economie interne?
Ancora una volta la sinistra paga uno scotto pesante alla propria visione armonica ed ecumenica delle cose del mondo che si sintetizza nella proposta ricorrente di costruzione di istituzioni internazionali dotate della finzione di una propria forza statuale, ma che in realtà, per operare concretamente, hanno bisogno della forza degli stati nazionali e, realisticamente, degli stati nazionali predominanti.
In alternativa esse si riducono a luoghi scenografici o di semplice transazione.
Tanta mistificazione, con il tempo, si riduce progressivamente nel sostegno sempre più plateale ed estatico, ma con un velo di ipocrisia in più rispetto alla destra, alle politiche degli stati predominanti, anzi dello stato predominante.
Quando dallo scenario internazionale si scende a quello italico, coinvolto, nella sua visione, in una competizione (economica) mondiale di tipo atomizzato, appaiono tutti i limiti e le ambiguità intrinseche di questo sforzo elaborativo.
I ceti medi andrebbero, quindi, sostenuti politicamente e soprattutto economicamente, nella loro capacità di reddito, con una serie di interventi di creazione di contesto favorevole e di gestione degli strumenti fiscali e di incentivazione.
I primi consistono in pratica nel codificare procedure che permettano ai sindacati di concertare e contrattare da posizioni più favorevoli le condizioni economiche; già tutta l'enfasi iniziale dei proclami in realtà si spegne nella concretezza, circoscrivendo le attenzioni soprattutto al ceto medio dipendente.
Quanto alla componente autonoma ed imprenditoriale, le proposte si riducono alla riforma degli ordini professionali, alla loro liberalizzazione senza una adeguata precisazione dei termini e all'introduzione di un sistema di incentivazione e defiscalizzazione di interventi ed investimenti nei punti di forza della piccola e media industria (vedi la meccanica) e dei settori emergenti più trendy(green economy ed energie alternative, riciclo).
Non mancano i richiami rituali all'importanza degli investimenti nella scuola e nella ricerca, nonché all'adozione di rigorosi piani industriali di riorganizzazione della macchina statale e dei servizi attraverso i quali coinvolgere i dipendenti e i quadri intermedi.
Il tutto inserito in un programma di crescita economica da raggiungere attraverso il deciso incremento dell'occupazione giovanile e femminile e con il quale rendere possibile l'abbattimento del debito pubblico senza innescare processi recessivi, con una evidente inversione dei fattori causali e conseguenziali.
Il nostro intende attribuire un peso importante ad un piano di investimenti europei in infrastrutture e attività, attraverso l'emissione di bond sovranazionali. Un qualche dubbio sulla fattibilità sembra avercelo, vista la constatazione della mancanza di una struttura statuale europea capace di gestire priorità e operatività e la sua preclusione e diffidenza al ruolo degli stati nazionali, visto come antitetico a quello europeo.
E' un aspetto che meriterà, in futuro, una attenta riflessione; è sufficiente, per ora, sottolineare che tale preclusione in realtà porta alla subordinazione pedissequa alle direttive della Commissione Europea, alla sua visione tecnocratica e scopertamente lobbistica, tutt'altro che democratica o mediata politicamente; fa esattamente il paio alla retorica sul nuovo ordine internazionale, con gli stessi effetti di subordinazione ideologica e politica.
Pur nell'estrema sintesi su di un documento di oltre ottanta pagine, sono possibili numerosi rilievi di merito ed una critica di fondo all'impostazione di un lavoro che non mira alla creazione di un blocco sociale basato su un progetto politico realmente riformatore.
Intanto, l'elencazione di stampo sindacale della miriade di interventi impegnativi non precisa da quali risorse attingere sia aggiuntive che tanto meno da piani di riorganizzazione che necessariamente dovrebbero incidere sulla spesa corrente e, quindi, sulle retribuzioni e prebende pubbliche;
manca totalmente una analisi delle logiche di riproduzione degli apparati e delle loro dinamiche di potere, ben più importanti e influenti nelle modalità di erogazione dei servizi e di esercizio del potere politico rispetto alla domanda del consumatore;
lo stesso sostegno ai ceti medi imprenditoriali soffre di una visione statica. Si punta a sostenere, ad esempio, il settore meccanico così com'è, quando una delle sue debolezze strutturali è la carenza della componente elettronica ed informatica, la stessa che ha contribuito,
assieme a scelte politiche di altra natura, ad allentare il legame con la Germania ed altri paesi del Nord-Europa. Ancora una volta, dopo l'intervento di Veltroni e l'assemblea programmatica, si ignora totalmente il ruolo determinante che dovrebbe avere il consolidamento e, soprattutto, il potenziamento e l'autonomia della grande industria strategica, oggi dismessa o pesantemente condizionata dal peso dei fondi privati esteri di investimento e da condizionamenti politici diretti, sino a influenzarne le scelte di fondo e gli investimenti di lunga durata a favore dei legami di dipendenza e di politiche di realizzo immediato di alti profitti (vedi ENI, Telecom) e non ostante l'evidenza, tra l'altro, dei benefici indotti, tra le piccole aziende, dai loro momenti di politica autonoma di relazione e penetrazione; si tende, piuttosto, a contrabbandare per industria strategica, la grande industria in settori maturi, importante dal punto di vista dei volumi ma non da quello del peso nelle geodinamiche politiche. La stessa enfasi riconosciuta ai settori alternativi della green economy tende a sopravvalutare il loro ruolo strategico e a disperdere ingenti risorse senza aver predisposto, tra l'altro, una base industriale nazionale in grado di garantire le forniture e la tecnologia.
Riguardo ai ceti medi professionali, dipendenti ed autonomi, si ignora l'influenza che può avere una riorganizzazione dello Stato sulla loro composizione. Basti pensare alle conseguenze sui commercialisti di un riordino e semplificazione del sistema fiscale, su un ridimensionamento dei settori amministrativi e convenzionati nella sanità, proliferati con il sistema dei ticket e delle convenzioni; le stesse dinamiche, con gli stessi risultati che si sono riprodotti nell'assistenza sociale, nella scuola e persino negli apparati coercitivi;
che dire, poi, della delega di fatto di un ruolo concertativo alle organizzazioni sindacali, quando le esperienze della gestione dei processi di privatizzazione passati hanno evidenziato limiti e connivenze tragicomiche. Tanto per dare qualche elemento concreto di valutazione, alle Poste Italiane, uno degli esempi, comunque, meglio riusciti di gestione privatistica, i sindacati hanno creato in concertazione un sistema di inquadramento iniziale in cui l'80% dei dipendenti, dal direttore d'ufficio all'usciere e ripartitore di posta, era inquadrato in una unica categoria, hanno alimentato collusivamente la proliferazione abnorme di quadri, bloccando per decenni il ricambio generazionale e rallentato vistosamente i processi di riorganizzazione, contribuendo, in posizione subordinata, ad una gestione, diciamo così, poco “laica” dei gruppi.
Che dire poi dell'enfasi sinistra su liberalizzazioni e privatizzazioni, senza la minima analisi critica dei processi avviati negli anni '90, in questo ben spalleggiati da Tremonti, Frattini e chissà quanti altri del centrodestra; si spaccia per liberalizzazione vantaggiosa lo smembramento di aziende strategiche come l'ENI, ipotizzando benefici tariffari dell'ordine dell'un per cento e senza tener conto dell'accresciuta dipendenza, con un mercato al dettaglio frammentato, verso le grosse multinazionali ed i paesi fornitori di energia; tutto lascia presagire l'ennesima formulazione di un patto scellerato e unilaterale di svendita in cambio di una qualche concessione sul debito pubblico, ovviamente con il beneplacito benevolo e comprensivo della Commissione Europea.
Il problema di fondo è che la sinistra parla ancora una volta di ceti, quando in modo distorto ragiona vagamente in termini di classi; se proprio non riesce a trovare una collocazione per i vari strati sociali, li classifica sulla base della propensione al consumo e della capacità di reddito, accomunandoli di fatto in un unico calderone.
In un altro contesto, il concetto di ceto potrebbe essere utile ad una politica di formazione di blocco sociale.
Dal punto di vista dell'approccio politico al problema, la sinistra è paradossalmente subissata da uno studioso accademico come Arnaldo Bagnasco il quale, pur in una visione liberale, invita a determinare un declivio e scomporre il ceto medio sulla base di un progetto politico e, quindi, a determinarne i vari ruoli e funzioni e a individuare i vari gruppi, all'interno di essi, suscettibili di aderire o meno a un progetto di efficienza orientato a obbiettivi. Essendo la parte del ceto medio, una componente importante dell'ossatura in grado di attuare il progetto, manca ancora, in Bagnasco, l'individuazione della testa strategica, in grado di elaborare e dirigere, la quale non può essere la sola organizzazione politica. Lo stesso Berlinguer, nel '73, pur nella visione di un capitalismo stagnante, retrivo e golpista che induceva a giustificare la sua proposta di compromesso storico, si pose il problema di analizzare il ruolo dei vari settori dei ceti medi sia come componenti possibili del blocco progressista e modernizzatore a suo modo, sia come componenti da neutralizzare e sterilizzare nella loro propensione reazionaria, corporativa e conservatrice. La progressiva accentuazione dell'importanza di questo secondo aspetto, rispetto al primo ha portato alla collusione del PCI e poi del PDI-PDS-PD nella gestione assistenzialista e parassitaria delle risorse e della progressiva perdita del punto di vista dell'interesse nazionale, paradossalmente più presente nella sua componente migliorista filosovietica che in quella radicale.
E' su questo filone che dobbiamo lavorare e ,quindi, sulla costruzione di un progetto nazionale, tanto più che questi settori e strati sociali sono i più soggetti alle trasformazioni attuali dei ruoli, della divisione del lavoro e delle competenze richieste rispetto ai ceti operai i quali, in gran parte, questi cambiamenti qualitativi li hanno già conosciuti nelle loro caratteristiche fondamentali.
Preciso questo con una sottolineatura, evidente in Bagnasco, ma che spesso, nella vis polemica del blog, in particolare nell'ultimo articolo di Andrea Fais sull'argomento, si rischia di sottovalutare: se, sino agli anni '80, la sinistra partecipò alle gozzoviglie dello stato assistenziale e alla formazione dell'odierno blocco sociale parassitario, pur con il varo di un paio di riforme importanti come quella sanitaria, gli artefici principali di quel processo che spaziava dall'industria di stato ad ambiti sempre più pervasivi dell'organizzazione statuale e sociale furono soprattutto le forze presenti nella Democrazia Cristiana le quali, per altro, seppero assecondare ed alimentare anche la formazione di un ceto medio produttivo di fatto complementare e, successivamente, sostitutivo del ruolo della grande industria; in quest'ultimo aspetto, il PCI vi partecipò solo in alcune parti del paese.
Oggi se la sinistra rappresenta quasi esclusivamente questi settori parassitari, non determinanti e la limitatezza delle sue elaborazioni conferma l'incapacità di uscire dalla schiavitù di questi legami, nell'altro schieramento la composizione è quantomeno variegata sino a paralizzarne l'agibilità politica e a renderla ostaggio della opposizione di gruppi minoritari, ma solidi e strutturati. Un esame anche superficiale dell'elettorato e della dislocazione geografica del consenso del centrodestra confermerebbe questo aspetto composito.