L'ARREMBAGGIO (di G. Gabellini)

Come è noto a chiunque sia riuscito a mantenere un briciolo di lucidità nel bel mezzo della canea mediatica scatenatasi di recente (e con sprazzi di inedita malafede), i tanti eventi che in questi ultimi tempi hanno scosso i precari equilibri diplomatici non sono altro che manovre tattiche che preludono all'imminente, inesorabile attacco frontale che i consueti "poteri forti" internazionali si stanno apprestando a sferrare.

L'obiettivo dei grandi e facinorosi agenti del capitale è quello di assestare un colpo definitivo alla serpeggiante indisciplina tenuta da alcuni paesi europei, che si ostinano a volgere lo sguardo ad est, in direzione di Mosca, e a civettare con l'"innominato" che siede attualmente sul trono del Cremlino. Così l'Italia capitanata dal puttaniere di Arcore si è trovata in prima linea, con la Germania della traballante Merkel a ridosso. Peccato mortale, quello commesso dai due incauti paesi in questione, rei di essersi prodigati attivamente per assecondare gli ostinati approcci della Russia, interessata a stringere l'intera Europa nel suo caldo abbraccio politico ed economico. Berlusconi stava già sondando il terreno nel lontano 2004, per stringere un accordo diretto con la Russia che impegnasse entrambe le compagnie petrolifere "di bandiera" (ENI e Gazprom) a lavorare fianco a fianco al fine di garantire vantaggi ai rispettivi paesi e, last but not least, di dar vita a un progetto congiunto che mettesse definitivamente l'Europa al riparo dai rischi derivanti dallo spettro della "chiusura dei rubinetti" interamente connesso alle infinite turbolenze ucraine, ma alcune divergenze di varia natura, le pressioni esercitate dagli organi di stampa (Corriere della Sera, La Stampa) di riferimento dei "soliti" e le incredibili minacce all'ENI ("posizione dominante", si profilava il fantasma "spezzettamento" tanto caro agli stuoini endogeni del verbo atlantista) annunciate dalle tante "authority" di turno fecero si che l'affare non andasse in porto in tempi brevi. L'affermazione di Romano Prodi alle elezioni del 2006 si sarebbe potuta plausibilmente tradurre in una radicale inversione di tendenza in questo ambito specifico, ma così – vuoi perché il progetto era oramai avviato e troppo importante, vuoi per un rarissimo quanto improbabile spunto di ritrovato patriottismo dell'abatino bolognese – fortunatamente non è stato, e Prodi ha effettivamente capitalizzato il tutto, nel curioso ma eloquentissimo silenzio di tomba di tutti gli "indipendentissimi" organismi di vigilanza antitrust, che si sono tacitati in un batter d'occhio. In realtà, l'abatino è parso stranamente vitale e attivo nel trattare la faccenda; tendo un atteggiamento fortemente incoerente e soprattutto incompatibile con il suo passato di presidente e sponsorizzatore della UE, in quel frangente costui ha bypassato il vaglio dei burocrati di Bruxelles per tendere direttamente la mano a Putin, riconoscendo apertamente alla Russia quel ruolo cruciale che le spetta, specie in vista dell'ottenimento di una pur limitata autonomia politica europea. Nel 2007 dalle viscere dell'accordo nacque l'ambizioso e destabilizzante progetto South Stream, un gasdotto in grado di soddisfare una parte consistente della domanda europea, slegato dai continui ricatti ucraini, alla cui realizzazione lavorano già da tempo le compagnie ENI, Gazprom e diversi paesi europei (Grecia, Ungheria, Austria, Slovenia, Serbia e Bulgaria) e non (Turchia). Vladimir Putin apprezzò la disponibilità mostrata da Romano Prodi al punta da offrirgli con insistenza il ben remunerato incarico di presidente dell'organizzazione che sponsorizzava il progetto, ma Prodi declinò, probabilmente per non vedersi puntato contro il medesimo arsenale con cui aveva dovuto far i conti qualche tempo prima l'ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder, il quale, dopo aver accettato di occupare il ruolo, speculare a quello offerto a Prodi, di presidente del Nord Stream, fu attaccato con veemenza dalla semi – totalità degli squallidi giornali occidentali, che gli contestavano con inaudita arroganza una sorta di conflitto di interessi. In proposito, il fonato "nouveau philosophe" Andrè Glucksmann (impareggiabile reggicoda di lorsignori) parlò di "Bustarella per i servizi resi a Putin", mentre quell'anima bella di Piero Ostellino, dalle colonne del Corriere della Sera, ebbe l'ardire di scrivere che "Una cosa è un lavoro di consulenza svolto da manager estranei alla politica, un'altra è un lavoro di lobby svolto da ex uomini politici, che del proprio paese conoscono i risvolti di diretto interesse politico, a favore di un paese le cui credenziali democratiche non sono limpide". Peccato che Ostellino e i suoi compagni di redazioni si siano sempre guardati bene dal pretendere il medesimo rigore nei confronti, ad esempio, di Dick Cheney, numero uno di Halliburton e numero due di George Bush allo stesso tempo o, tornando a casa nostra, nei confronti di Mario Draghi, uomo della Goldman Sachs prestato alla politica ai "bei tempi" delle svendite. Ma congedandoci dall'"Ostellino furioso" nei confronti di uno Schroeder reo di essersene giustamente sbattuto altamente della presunta mancanza di "credenziali democratiche" per fare affari con la Russia di Putin, e venendo a cose più serie, è bene ricordare che poco tempo dopo la ratifica dell'accordo sul South Stream Prodi cadde sotto i colpi infertigli dai suoi alleati, e le redini del governo tornarono saldamente in mano di Berlusconi, che sfruttò i propri personali rapporti, che vanno ben oltre il "diplomatico" (rapporti che fruttano montagne di quattrini a D'Avanzo, Travaglio e ai tanti altri gossippari perdigiorno loro consimili), con Putin per intensificare le relazioni italo – russe, culminate con la recente concessione di appetitose commesse russe a svariate compagnie italiane di punta, Finmeccanica su tutte. In questi ultimi mesi Finmeccanica (con un'escalation di accanimento mediatico iniziata all'indomani della visita a Roma di Gheddafi, con relativa assegnazione alla compagnia romana di commesse in Libia, e culminata proprio mentre la stessa chiudeva un contratto da 1,5 miliardi di dollari proprio con la Russia, guarda caso…) è finita nell'occhio del ciclone in seguito a svariati procedimenti giudiziari disposti dalla solita magistratura a corrente alternata, che sta ancora una volta prestando il proprio braccio armato per intentare un'operazione analoga a quella che anni fa le varie "authority" montarono, come descritto in precedenza, contro l'ENI, finalizzata solo ed esclusivamente a destrutturare l'azienda. All'ENI contestarono di occupare una posizione dominante nel mercato, in violazione delle norme che tutelano la concorrenza, e tentarono di frazionarla in una galassia di sottogruppi del tutto innocui, mentre con Finmeccanica stanno puntando il dito contro la condotta "deprecabile" dei suoi vertici e consulenti, da Guarguaglini a Cola, per portare a termine un'operazione affine, volta anche in questo caso a minare alla base la struttura su cui si regge l’ottima azienda romana. Inutile sottolineare che tanto l'ENI quanto la Finmeccanica (oltre all'ENEL) sono aziende strategiche ancora parzialmente pubbliche, che garantiscono all'Italia di potersi ritagliare importanti spazi di manovra in politica estera in grado di far ricadere enormi vantaggi sul paese, poiché da un lato fanno si che cert
e competenze e certi patrimoni non vadano dissolti o svenduti (come accadde dal 1992 in poi), dall'altro giocano pur sempre un ruolo cruciale quando si tratta di regolare i rapporti di forza internazionali, fattore, quest'ultimo, fondamentale in epoca di imminente multipolarismo. La grottesca tempesta in un bicchiere meglio nota come "affaire Wikileaks" è proprio caduta a fagiolo, in questo senso, in quanto da un lato non ha fatto altro che portare acqua al mulino di chi da anni ripete che i timori statunitensi nei confronti dell'Italia riguardano la politica estera, mentre dall'altro ha messo bene in luce, per l'ennesima volta, la natura della sedicente "sinistra", che in questi giorni non ha trovato di meglio da fare che reclamare a gran voce la disposizione di un'istruttoria da parte della "authority" garante della "concorrenza" in cui si "faccia luce" su un presunto conflitto di interessi di Berlusconi in Russia. Roba da manicomio. O da obitorio, viste le condizioni in cui versa l'agonizzante PD, pieno zeppo di ex "compagni" che sbagliano, relitti di un passato poco glorioso prontamente riciclatisi in meri stuoini della grande finanza internazionale.