L’assioma mediorientale

Piero Pagliani

 

 

[Nota. In un commento al mio post dell’8 gennaio scorso, un lettore mi chiedeva delucidazioni sulla programmazione della Guerra dei Sei Giorni, anch’essa contrabbandata come una risposta difensiva, disperata e quasi istintiva, a un pericolo di genocidio. Nel contributo che segue questa storia viene rivelata. Non da me, ma dai generali israeliani.]

 

1. Un assioma si aggira per l’Unione Europea e per il resto del mondo occidentale: Israele ha ragione.

Sono possibili sfumature, moderate riserve, modeste varianti, stili retorici differenti, ma la sostanza dell’assioma non può essere messa in discussione, pena l’emarginazione dal convivere civile e politico, di destra e di sinistra.

E’ un assunto che se è diventato un “must” a partire dalla caduta del Muro di Berlino ed è stato trasformato in un dogma semi-religioso dopo l’11 settembre, ha iniziato ad essere asserito in modo sempre più imperioso dai tempi della Guerra dei Sei Giorni. Un assioma che si è diffuso sia in ampiezza sia in profondità in modo inquietante in tutto il mondo ad egemonia USA.

 

2. Andrebbe capito come mai, in Italia e in Occidente in generale, mentre il sostegno alla lotta palestinese era un impegno ovvio negli anni Settanta-Ottanta per la sinistra (nel senso che, al di là delle organizzazioni politiche, era un elemento della soggettività antimperialista), ora sia appannaggio di un ristretto gruppo di attivisti e di persone “impegnate”. Andrebbe, in quest’ambito, anche discussa la relativa autonomia in politica estera che la vituperata Prima Repubblica si era presa dagli Stati Uniti, autonomia finita in concomitanza con i diktat economici della globalizzazione, i cui esecutori e cani da guardia in Italia sono stati, dal principio, proprio gli uomini del personale politico di sinistra. specialmente ex-comunista. E bisognerebbe similmente capire come mai i pacifisti israeliani che dopo il massacro dei campi palestinesi di  Sabra e Chatila  scesero in piazza in 400.000, oggi per i crimini di Gaza scendono in piazza in 400. Evidentemente anche un mondo ideologico è cambiato, seguendo i passaggi temporali sopra accennati e ciò meriterebbe un’analisi di grana fine, che permettesse di mettere in rilievo l’incidenza della sfera culturale e ideologica e delle “grammatiche della vita” sulla cosiddetta “struttura”, come aveva indicato Gramsci poco meno di un secolo fa, un’incidenza che ai nostri giorni permette in modo apparentemente sempre più facile e scontando una sempre minore vischiosità, di fare e disfare le coscienze, di trasformarle in tabulae rasae su cui incidere ciò di cui le strutture di dominio locali e mondiali hanno via via bisogno (ma non si pensi a un processo uniforme, perché – per dirla in modo molto schematico – queste strutture di dominio necessitano di una base comune, dovuta alla logica di accumulazione e di componenti differenziate richieste dalle lotte strategiche di potere).

Non essendo in grado di fare quest’analisi, per ora avanzo l’ipotesi più “strutturale” e a grandi linee che il primo di quegli eventi storici, la guerra del 1967 – e specialmente l’immediato sostegno americano all’occupazione permanente dei Territori – è stato utilizzato per consolidare il dominio statunitense in Medioriente, mentre gli ultimi due sono stati passaggi salienti del recente tentativo degli USA di imporre un impero formale mondiale, cioè una struttura gerarchica di stati a dominanza USA, in parallelo a un impero informale sui paesi maggiormente sviluppati.

 

3. Vedremo tra un momento le motivazioni, allora inconfessate, della guerra vinta da Moshe Dayan nel 1967. Per quanto riguarda l’attacco a Gaza, mi sembra, così all’impronta, che esso sia un tentativo di “normalizzare” il fronte Palestinese a favore dell’OLP di Abu Mazen, che secondo Uri Avnery, giornalista ed ex parlamentare israeliano, “viene considerato da molti in Israele come una succursale dell’organizzazione sionista”. In altri termini: “O vi fate rappresentare da chi vogliamo noi, o vi condanneremo alle pene dell’Inferno”. Per non parlare delle motivazioni relative alle prossime elezioni politiche israeliane (che senso morale! i voti contesi a suon di indicibili sofferenze agli abitanti di Gaza – un’annotazione etica del tutto elementare che però non mi sembra di aver letto o sentito da nessuna parte: “E’ la stampa, bellezza!”).

 

4. Insomma, Israele, per i nostri media e per i nostri politici (con poche e marginali eccezioni), si sta “difendendo”. Anzi: si è sempre e solo difesa. Non è ovvio? Forse a tratti un po’ troppo energicamente. Però Hamas … la tregua … i razzi Qassam … tanto è vero che l’organizzazione di resistenza islamica palestinese è nella lista UE di quelle terroristiche …  vorrà pur dire qualcosa, no? No: non vuol dire proprio niente. Anzi, tanto per fare un esempio, lo era anche il Partito Comunista Maoista Nepalese, che adesso è democraticamente al governo dopo le prime libere elezioni di quel Paese, imposte con le armi proprio dai maoisti (eh … sì … è vero … però … ma la violenza …).  

Non diversamente che nei mesi scorsi, nel 1967 tutti i media occidentali si erano messi d’accordo e d’impegno per far credere che Israele fosse minacciata di un nuovo Olocausto  da parte dei paesi arabi e in primo luogo dall’Egitto di Nasser.

Ci fu una corsa alla solidarietà con Israele. Come ho ricordato in un commento, io avevo 15 anni e – cresciuto nel sacrosanto disgusto per lo sterminio nazista – giravo convinto con un adesivo sul petto con la stella di Davide e lo slogan “Io sto con Israele”.

Ma il fior fiore dei generali israeliani smentì questa propaganda qualche anno dopo la guerra.

Come ammise al giornalista franco-israeliano A. Kapeliouk l’ex capo di stato maggiore generale H. Bar Lev in una famosa intervista su Le Monde del 3 giugno 1972: “Noi non eravamo minacciati di genocidio alla vigilia della guerra dei sei giorni e non abbiamo mai detto né pensato che una tale eventualità fosse possibile.” Infatti Yitzchak Rabin, al tempo capo di stato maggiore dell’Esercito, aveva già dichiarato su Le Monde del 29 febbraio 1968: “Non penso che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni che inviò nel Sinai il 14 maggio [1967] non sarebbero state sufficienti a scatenare un’offensiva contro Israele. Lui lo sapeva e anche noi lo sapevamo.” Ma su Le Monde del 10 giugno 1972 il generale H. Herzog, allora capo dell’Ufficio Informazione dell’Esercito suggerì agli altri generali di “mettere fine a questa discussione [sulle responsabilità della guerra] perché non è il caso che noi solleviamo dei dubbi intorno a questa storia che noi abbiamo creato” (sottolineatura mia).

I motivi di quel conflitto erano sostanzialmente tre.

Il primo era di tipo espansionistico e fu spiegato dal generale Peled, all’epoca membro dello stato maggiore dell’Esercito: “Il governo falsificando le cause della guerra, respingendo nella nebbia le sue vere motivazioni, cerca di fare accettare al popolo un principio di annessione dei territori, parziale, o se possibile, totale.” (Le Monde del 3 giugno 1972).

Il secondo era di tipo ideologico: “[…] lo Stato d’Israele, se non avessimo colpito, non avrebbe potuto continuare ad esistere con la sua specificità, con il medesimo spirito, con la medesima essenza.” (generale Weizmann, all’epoca capo dell’Ufficio operazioni dell’Esercito, riportato in un artico di M. Roversi su Rinascita del 9 giugno 1972).

Infine il terzo era di tipo geopolitico e concerneva la necessità strategica (statunitense in primis) di espellere l’Unione Sovietica dal Medio Oriente, e innanzitutto dall’Egitto e fare di Israele il responsabile di questa operazione (si veda lo stesso articolo di Roversi e l’intervista di Simon Malley al capo della CIA, R. Helms, su Africasia, n. 45 del 1971).

Dopo oltre quarant’anni la storia sembra quasi ripetersi.

 

5. Il fatto è che l’assioma di cui stiamo parlando è complemento e continuazione di quello che fu iniettato prioritariamente nell’immaginario collettivo fino alla caduta del Muro di Berlino, che recitava: bisogna stare con la NATO e l’America contro l’Orso comunista (assioma che venne accettato dal segretario del PCI Enrico Berlinguer – “stare sotto l’ombrello protettivo della NATO”: indubbiamente politiche che vengono da lontano).

Stare con Israele contro Hezbollah o Hamas (e, alla fin fine, senza nemmeno troppi  “se” o troppi “ma”) non è un invito né morale né politico, ma un’opzione geostrategica, ammantata da motivazioni d’altro tipo.

Ed è un invito che nulla ha a che fare col benessere delle genti che popolano il Medio Oriente, quali esse siano in generale, anche se solo uno sciagurato o un delinquente non riesce a vedere chi nei fatti è stata finora la vittima sacrificale designata. Cosa tragicamente lampante in questi giorni a Gaza!

E’ un gioco di potere, una scelta di campo per interessi strategici che, guarda caso, si chiamano “giacimenti e linee di trasmissione delle risorse energetiche di origine fossile”.

Si badi bene, sono interessi non limitati a quelli di breve termine – che comunque ci sono – legati allo sfruttamento immediato delle risorse petrolifere o di gas naturale (ma un giorno bisognerà anche parlare del controllo dell’acqua). Sono interessi di medio-lungo termine che si giocano in Medio Oriente ma hanno come orizzonte la Cina, l’India e la Russia, cioè i nuovi assetti egemonici planetari che potrebbero emergere dall’esaurirsi di quel ciclo sistemico di accumulazione del capitale iniziato con la II Guerra Mondiale  coordinato dagli Stati Uniti, in crisi da oltre trent’anni e in cui le difficoltà economiche attuali sono una manifestazione della perniciosità e progressiva ingovernabilità di questa perdita di capacità statunitense a far sistema (che non c’entra niente col cosiddetto “crollo” o “esaurimento” del capitalismo di cui parlano intellettuali, economisti e ultrasinistri sfrantumati – la Jervolino mi conceda in prestito l’espressivo termine).

Una volta sviluppato, si vede allora chiaramente che questo assioma significa una cosa semplice e precisa: Israele deve essere l’unica potenza regionale di rilievo. Tutte le altre devono essere subordinate ad essa sia economicamente sia, innanzitutto, militarmente.

 

6. Se questo non fosse vero non si capirebbe come mai non si promuova un piano di denuclearizzazione di tutta la regione ma ci si limiti a puntare i riflettori e a lanciare strali solo sul programma iraniano di arricchimento dell’uranio.

Ammettendo che l’Iran voglia veramente costruirsi la bomba atomica, dirò subito che personalmente a me piace poco che ci sia un nuovo paese con armi nucleari, anche se non posso non riconoscere il realismo di quel generale indiano che a commento dell’invasione dell’Iraq disse “Non si può litigare con gli Stati Uniti se non si possiede la bomba atomica”.  Ma mi preoccupa ancor più che ce ne sia uno – che guarda caso è Israele – che ne abbia stoccate a decine se non a centinaia segretamente e continui a negarlo ufficialmente (perché in questo caso le possibilità di controllo sono ancora più scarse). Inoltre è stato tragicamente dimostrato che la presenza di democrazia (occidentale) influisce molto poco sulla decisione di usare le armi atomiche. Come tutti sanno, finora a utilizzarle sono stati gli USA e, tanto per ribadire il concetto, l’eroe della lotta antinazista, Eisenhower, proprio colui che aveva denunciato il complesso militare-industriale statunitense, proponeva il bombardamento atomico del Nord Vietnam durante la “sporca guerra”. Last but not least, il nuovo “Nuclear Posture Review Report” commissionato al Dipartimento della Difesa dal Congresso degli Stati Uniti, adombra la possibilità di attacchi atomici preventivi, anche nei confronti di paesi non nucleari, una bestemmia rispetto all’epoca della Guerra Fredda.

Al dittatore pakistano Musharraf, i cui servizi segreti hanno avuto e hanno parecchi intrighi con il fondamentalismo e il terrorismo islamico, le potenze democratiche hanno perdonato tranquillamente le provocazioni atomiche contro l’India, nonostante il fatto che esse stesse la celebrino come “la più grande democrazia del mondo” e abbia oltretutto ottimi rapporti con Israele. E all’India vengono perdonate le sue controprovocazioni, basta che firmi certi accordi commerciali e che isoli l’Iran sulla questione nucleare. Il che – incidentalmente – vuol dire anche che lo si deve isolare su quella energetica, rimandando sine die il progetto di pipeline Iran-Pakistan-India, vero incubo geopolitico statunitense. A questo fine gli USA hanno recentemente spinto con decisione perché l’India siglasse, come poi è stato fatto, un accordo di cooperazione in campo nucleare, che però – neanche a dirlo – desta molti dubbi legali e normativi a livello internazionale, perché l’India non è firmataria degli accordi di non proliferazione nucleare, mentre, ohibò, il “rogue state” Iran invece lo è (non c’è nulla da fare: l’Occidente è un vero maestro in ipocrisia e doppiopesismo).

La Corea del Nord può tranquillamente dire di avere la bomba, tanto sa che non le accadrà niente, perché conosce la verità lapalissiana rivelata da quel generale indiano (come e stato detto, gli USA non hanno attaccato l’Iraq perché temevano che avesse armi di distruzione di massa, ma proprio perché ormai erano sicuri che non ce le aveva).

Ma in questo preoccupante quadro l’Iran porrebbe, chissà perché, il problema più grave.

 

6. Ci invitano a difendere Israele perché è l’unica democrazia in Medio Oriente. Diamolo per buono e non discutiamo adesso questa affermazione. Ma anche dandolo per buono, questo è un motivo sviante, perché il termine “democrazia” è quello meno citato e utilizzato negli studi geostrategici, mentre ben altri sono i concetti importanti[1].

E quindi Israele potrebbe anche diventare una dittatura o essere, come è, in mano ai dottor Stranamore sionisti, ma l’assioma non cambierebbe, fintanto che il sub-imperialismo dello Stato Ebraico rimanesse perno delle strategie statunitensi e di quelle, del tutto subordinate, europee[2].

Su ogni conflitto si ridefiniscono interessi politici e geopolitici; e nuovi gruppi di potere con loro logiche vengono generati dai conflitti. Così al di là delle ragioni o dis-ragioni iniziali alcuni di essi finiscono per vivere di vita propria a causa di interessi svariati e stratificati. E alcuni finiscono per avere una sola ragion d’essere e una sola utilità: quella di non finire mai.

Così appare il conflitto nel Kashmir, residuo della tragica spartizione che insanguinò il subcontinente indiano nel 1947 e della politica britannica del “divide et impera” e ora utile spina nel fianco dei rapporti tra India, Pakistan e Cina (ce lo stanno a ricordare i sanguinosi attentati in India dell’ottobre 2005, del luglio 2006 e dello scorso novembre). Così doveva essere il conflitto in Cecenia (utile spina nel fianco della Russia in una zona delicatissima per il trasporto dei greggi). E così appare il cosiddetto “conflitto mediorientale”, spina nel fianco di ogni ipotesi di mondo policentrico e di ogni reale processo di autonoma democratizzazione e di autonomo sviluppo dei paesi dell’area.

La “questione mediorientale” sta tutta qui. Non c’è bisogno né della Bibbia, né dei “valori occidentali”, né dello “scontro di civiltà” per capirlo. Certo, tutto c’entra, perché anche l’ideologia è parte del problema e delle forze attive in campo. Ma non fa parte della “struttura” del problema (passatemi ancora una volta il termine un po’ impreciso) e quindi non fa parte della “struttura” della soluzione, anche se ne è parte collaterale. E Hamas lo ha capito benissimo: appena vinte le elezioni (democratiche, ripeto) in Palestina, lo ha detto chiaro e tondo ad Israele (e al mondo): “Con voi abbiamo un problema politico, non religioso”.

Quale miglior strategia di turarsi le orecchie?

 

 

 

 





[1] Siamo ad ogni modo di fronte a un bell’esempio di “orientalismo”: la democrazia occidentale contro il dispotismo orientale (si veda Edward Said, “Orientalismo”, Editori Riuniti).  Inoltre in Israele i principi democratici sono applicati in modo discrezionale. Per citare solo fonti israeliane, si vedano gli articoli della giornalista Amira Hass, o i siti http://www.rhr.israel.net/ (Rabbis For Human Rights) e http://www.acri.org.il/english-acri/engine/index.asp (Association for Civil Rights in Israel). E gli “amici dell’unica democrazia in Medioriente” dovrebbero chiedersi preoccupati come mai i leader dell’Hindutva, il movimento integralista indù responsabile di atti atroci contro i musulmani, amino rifarsi a Israele come a un esempio da seguire di società capace di mobilitare i propri cittadini attorno a parole d’ordine di difesa dell’identità religiosa contro gli elementi spuri.

[2] Si ricordi che il dott. Stranamore era cinico, amorale, incurabilmente ideologizzato (il braccio che scattava autonomamente nel saluto nazista), ma non era un pazzo. “La Repubblica” ci tiene a mettere in evidenza che i bambini israeliani pregano perché Elohim preservi i bambini palestinesi dai massacri del loro esercito, Tsahal (mah, lasciamo perdere: i bambini sono bambini e lo faranno sicuramente in buona fede, ma gli adulti che si trincerano dietro a queste cose sono dei mascalzoni). Ma c’è poco da pregare  quando si hanno decisori come l’ex capo il capo di stato maggiore Stranamore Dan Halutz famoso perché dopo che aveva ordinato di sganciare una bomba di una tonnellata su un quartiere residenziale di Gaza uccidendo un attivista di Hamas e 16 civili tra cui 11 bambini, alla domanda “cosa si prova a fare un’operazione del genere”, rispose beffardamente “Un lieve sbalzo delle ali [del bombardiere n.d.a]”. Un generale che durante il conflitto in Libano ha apertamente ordinato vere e proprie rappresaglie (10 palazzi a più piani distrutti a Beirut per ogni razzo lanciato su Haifa) fino ad essere censurato per crimini di guerra dalla Association for Civil Rights in Israel. Un generale, nota pittoresca, che appena seppe del rapimento dei suoi due soldati da parte di Hezbollah e dell’uccisione di altri quattro, per prima cosa si preoccupò di vendere i propri titoli azionari in previsione della guerra (per altro preparata da tempo) e del relativo ribasso della borsa di Tel Aviv, che infatti ci fu: -8,3% (cfr. Rothem Shtarkman su Ha’aretz del 12 luglio).