L’ATLANTISMO DE NOANTRI
Potremmo definire “Internazionale atlantica” quell’insieme variegato di poteri e di intellettualismo post-sessantottino sedicente di sinistra ( più che di destra), che praticamente detiene le leve del parassitismo ideologico spacciato per modernità. Col suo pedante armamentario di granitico leguleismo e indefessa democraticità liberale, è il baluardo del Pensiero Unico mondialista. Non ne è l’unico filone, di sicuro ne è l’espressione massima. Dentro e fuori l’Italia.
Sono iscritti all’Internazionale atlantica sia i comunisti reazionari (come nella definizione di G.P. di qualche giorno fa) sia i cosiddetti liberali alla Furio Colombo. Nolenti-volenti cioè, due modi per essere atlantici. Un ibrido molto peggio del berlusconismo.
Recitano il copione di questa insulsa sceneggiata italiota e globale i fanatici del filotto borghesia-proletariato-lotta di classe, i rappezzati keynesiani, i verdeggianti eco-(in)sostenibili che ormai nun se reggono più, i pacifisti coi fiori nei cannoni sempre presenti, i dispensatori dei retti criteri “in Inghilterra e in America si fa così”, i preti immigrazionisti d’assalto che se quelle barche potessero tornare indietro dovremmo piazzarceli a bordo, i numi tutelari dell’immodificabilità della Carta costituzionale garanzia della democrazia, ignari che se democratica dovrebbe potersi anche cambiare; gli evangelizzatori dei diritti umani per tutti… pure per quelli che non gradiscono, le femministe alla Gad Lerner che dopo aver professato per anni la copula duale e multipla da esibirsi in piazza o mimato l’icona triangolare della donna che si fa protagonista senza catene, puttane comprese… ora insorgono contro le ultime fatiche dell’anziano Ercole-Silvio sul lettone gazprom di Putin, beandosi delle campagne mediatiche angloamericane sbattendosene -o assecondandole convintamente- delle mire geopolitiche antinazionali da cui esse scaturiscono.
Per tutti lorsignori, parecchi dei quali in rotta dall’internazionalismo proletario a quello borghese-apolide global style, l’esterofilia poi è troppo na figata. Qui l’esterofilia è specchio di provincialismo
“Avete letto cosa dicono dell’Italia il New York Time, l’Economist, El Mundo… ma io sono proprio indignato… hanno ragione… roba da andarsene via da questo Paese…”.
Andava di moda la Spagna. S’è visto… Qui non siamo messi bene, lo sappiamo, ma il punto è un altro: assecondare le manovre dei poteri che detengono quei giornali è pura idiozia.
E quindi ci sono i mestatori a mezzo stampa e tv dell’opinione pubblica, su commessa delle cricche banco-finanziarie; i contestatori colorati per i quali i tipi alla Soros hanno scelto per l’Italia il viola e altrove l’arancione, il verde, ecc.; quelli che si entusiasmano con i report della Freedom House o di Transparency International senza aver capito queste a chi fanno capo e quali obiettivi perseguono; i depistatori di certo giornalismo culo e camicia con quei settori della magistratura che per la propaganda facile destroide sono comunisti, ma che in realtà fiancheggiano – in ossequio alle strategie tipo Britannia– le dismissioni del sistema Italia, di quel che rimane di un apparato dirigente ancora autonomo e della nostra sovranità.
Più su, quindi, eccovi i salotti buoni banco-mafio-usurai nonchè i parassitismi sindacali che in combutta con squinternate gestioni politiche hanno svilito per gran parte il senso e la valenza degli apparati pubblici. Ed eccovi quelle industrie decotte come la FIAD che sta a Detroit e a Torino fa la mantenuta.
Tutto questo ceto politico, economico-affaristico e intellettuale – contestatario/pseudo-rivoluzionario o dirigenziale che sia – è il più potente, il più subdolo e il più confacente al mantenimento del nostro Paese (e dell’Europa) nella palude dell’asservimento ai poteri dominanti e ai desiderata atlantici.
Tutto questo sofisticato crogiuolo, nostra sventura, converrà dunque, in buona parte, con l’intervento del liberale Piero Ignazi sul n.23 de L’Espresso, grande punto di riferimento della gauche nostrana giustizialista e atlantica, nelle mani di un tipico personaggio a sinistra come De Benedetti (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/se-obama-chiama-giorgio/2128369/18).
Il prof. Ignazi in questo suo “Se Obama chiama Giorgio” fornisce non solo la misura delle preoccupazioni sue, di quelli come lui e di Obama, ma di riflesso conferma –qualora ce ne fosse bisogno- l’avvedutezza delle posizioni che questo blog, nella persona del professor La Grassa e degli altri, da tempo ha assunto in merito ad una serie di azioni occorse in seno alla politica estera italiana, in specie sotto il profilo energetico.
Ovviamente le preoccupazioni di Ignazi&soci ci rallegrano e vorremmo si trasformassero in incubo per loro.
Ignazi lo spiega chiaramente: “Gli Stati Uniti sono sempre più inquieti per la disinvoltura delle relazioni bilaterali e personali del nostro governo”. Al centro ci sono le iniziative politico-economico-diplomatiche con Putin, con Gheddafi, con Lukashenko, con Chavez. Il professore parla di nonchalance nelle nostre ralazioni internazionali. Che sia un sognatore della questione morale in politica estera?
Molto più realisticamente ha una visione stantia delle interconnessioni euro-atlantiche, all’interno delle quali l’Italia dovrebbe continuare a svolgere un ruolo di accondiscendenza e ripiegamento su posizioni non sovrane e soprattutto non foriere di interessi nazionali.
Ecco i gauchisti in servizio atlantico permanente.
Eccoli, sentinelle antinazionali appostate sui loro scranni mediatici. Eccoli, cecchini formidabili con dito lesto al grilletto quando si intravedono movimenti sospetti. Sono le piccole vedette atlantiche.
Nella fase di rimescolamento sullo scenario globale, di scomposizione di legami datati, di tessitura di nuove trame dove riemergono con maggiore vigore gli Stati e i gruppi di punta pubblico-privati che ad essi si ricollegano, i claudicanti spunti bilaterali del nostro Paese con quegli attori internazionali invisi a Washington divengono paturnie per i retrivi guru dell’atlantismo.
Vale a dire che i validissimi accordi energetici portati avanti in specie dall’Eni e le aperture di spazi per le PMI imbarcate nelle agitate acque della competizione globale, sono additate come pericolosi colpi di testa. La denuncia allarmistica ha il sapore dell’imbroglio. Ignazi non menziona apertamente l’Eni e non accenna al contenuto strategico di siffatte manovre, bensì ripiega su un criterio di analisi che oscilla tra il solito antiberlusconismo e una sciatta ingannevole semplificazione delle relazioni internazionali.
Tant’è che l’esimio – che come volevasi dimostrare fa il paio con Nicola Melloni su Liberazione o Massimo Giannini su Repubblica, assieme nell’Internazionale atlantica – ci tiene a rimarcare come i legami bilaterali siano il frutto tout court del solito personalismo berlusconiano che finisce per “determinare i nostri orientamenti in politica estera”
Subdolo approccio per sottacere la verità di fondo: gli americani avversano di principio la nostra sovranità, in tal caso energetica, in quanto non fun
zionale alla loro strategia di controllo dei gangli vitali dell’intera massa eurasiatica e avversano le sinergie strategiche di aggregazione che fuori e dentro di essa possano costituirsi, intaccando la loro coltre egemonica.
E’ chiaro, nell’esempio dei rapporti berlusco-putiniani compaiono anche, se vogliamo, interessi relativi agli asset del Cavaliere, ma un piglio analitico che si sofferma e ingrandisce il fattore personalistico nei termini di protagonismo e tornaconto privato tout court è in maniera ambivalente tanto farlocco e superficiale che fuorviante e beffardo. Le dinamiche geopolitiche non ammettono riduzionismi di tale risma e sbugiardano i facili moralismi demo-umanitaristici e le etichettature a marchio di infamità che vengono elaborate dalle centrali occidentali di disinformazione.
Ma il prof. Ignazi si fa portavoce convinto dei timori della Casa Bianca che “l’atteggiamento del governo italiano può cambiare anche nei confronti dell’America. E in effetti, nella stampa di destra sta spirando un inedito vento anti-americano”. Tranquilli però, in quella di sinistra il vento spira sempre d’Oltreoceano.
Al professore sta a cuore pure la condotta protocollare a fronte della “cordialità da vecchi amici esibita dal ministro degli esteri Franco Frattini con il presidente venezuelano Chávez subito dopo gli incontri americani”.
Ma dopo le preoccupazioni, ecco la speranza: Giorgio Napolitano. Ed è una speranza fondata. Come fai a non fidarti del navigato Giorgio l’americano? Proprio lui che, si pensi, “condivide con la regina Elisabetta II [ cloaca massima del parassitismo regio post-coloniale ndr ] il ruolo di senior leader in Europa, ma diversamente dalla sovrana britannica ha un passato politico lunghissimo e articolato”. Proprio lui che “ha assunto agli occhi dell’amministrazione Obama il ruolo di garante della continuità, atlantica ed europeista, della politica estera italiana”.
Gli atlantici non disperino, “la peculiare biografia politica di Napolitano ne fa un interlocutore privilegiato degli Stati Uniti sia per i rapporti bilaterali che, ancor più, per i rapporti tra Usa ed Europa. L’europeismo spinelliano del presidente lo differenzia dalle cautele e dagli egoismi nazionali di tutti gli altri capi di governo europei”.
Nel frattempo, però, Ignazi o Furio Colombo avranno di che rallegrarsi della recente ulteriore indecorosa manifestazione di sudditanza nostrana alle performance israeliane.
E’ l’atlantismo de noantri nel Mediterraneo.