Le apparenze ingannano
Si potrebbe dire che finalmente la politica italiana stia tornando in mano agli italiani; sarebbe meglio dire ai figuranti che li rappresentano.
Finalmente un deciso atto di volontà teso a sciogliere l’equivoco di un governo “tecnico” di nome ma con un forte e pesante programma politico. Il PDL, Berlusconi sembrano aver recuperato il coraggio e l’iniziativa per defenestrare Monti.
Il bottino in verità è più che altro simbolico: la probabile anticipazione di un mese della data delle elezioni. Si tratta, comunque, di una scelta che consentirà a Berlusconi di sfrugugliare nel malcontento del paese, di contendere a Lega e in parte al M5S il voto di opposizione; di continuare quindi ad ergersi a paladino di determinati settori della società, a cominciare dai “tartassati”, oggetto da oltre vent’anni dei suoi corteggiamenti platonici e delle sue circuizioni e proseguire con i liberi imprenditori ostaggi dei mille lacciuoli, alcuni di questi, la riforma del rapporto di lavoro, varati dallo stesso Monti sotto costrizione della sinistra, come stigmatizzato dal segretario del PDL. Alfano, infatti, ha voluto sottolineare comunque il rispetto verso la persona del Presidente del Consiglio e separarla dal contesto operativo troppo ecumenico nel quale ha operato. Non deve essere nemmeno mancato, a Berlusconi, qualche incoraggiamento d’oltreatlantico se è vero che qualche malumore cominciava a trasparire nella stampa anglosassone più legata agli ambienti finanziari; che un personaggio ancora importante come Luttwak sottolineava giorni or sono che si sarebbe aspettato qualche intervento più deciso sui tagli della spesa e sulle privatizzazioni-dismissioni piuttosto che la via “facile” dell’imposizione fiscale ritenuta un fattore recessivo in grado di reinnescare la crisi mondiale.
A ben vedere, però, la scelta del PDL pare quantomeno istigata dalle presunte vittime degli strali pidiellini.
Tra il quattro e il sei dicembre, tanto per fissare l’attenzione solo sugli ultimi giorni, Luca di Montezemolo, Cordero di nome e di fatto, dichiara che, senza Monti, la lista centrista è votata praticamente al fallimento; Berlusconi conferma praticamente la propria ricandidatura; il tecnico Passera bolla il ritorno in campo del Cavaliere come un ritorno al passato; il Governo presenta alla Camera il decreto sulla incandidabilità e sulla decadenza da incarichi pubblici dei condannati definitivi ad oltre due anni di carcere; atti politici, questi ultimi che sembrano fatti apposta per provocare reazioni dirompenti in un solco però ormai solidamente tracciato da gerarchie superiori per i prossimi anni.
Nelle ultime due settimane, in effetti, la disposizione delle forze sulla scacchiera italiana ha cominciato ad assumere forme più nitide. Il PD, predestinato a conquistare la maggioranza dei voti, ha consolidato attorno a Bersani una sorta di alleanza tra forze liberali e genericamente keynesiane; nella galassia di centro si profila ormai l’affermazione del movimento civico “Verso la Terza Repubblica” egemonizzato dall’ “Italia Futura” di Montezemolo e con la possibile alleanza con l’UDC di Casini; il PDL il quale, “obtorto collo”, tramontata l’ipotesi di poter assorbire il Montismo ed escluso dai circoli “politicamente corretti” perché impossibilitato a consumare il parricidio, punta a recuperare, con qualche perdita iniziale ma con buona probabilità di parziale successo finale, parte degli antichi consensi con i classici cavalli di battaglia del movimento in questo ventennio. Restano le forze residuali della Lega e del M5S, la prima destinata ad avere un peso in caso di risultato significativo del PDL o di slabbramento ulteriore del paese, il secondo ad essere residuale e strumentalizzabile a prescindere dal clamore del risultato.
Una breve analisi dei primi tre schieramenti disposti sulla scacchiera potrebbe spiegare le cause delle fibrillazioni e delle accelerazioni in corso ma anche individuare una prima rudimentale composizione di quelle forze che stanno concedendo energia e consenso al processo di subordinazione e regressione del paese.
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IL CENTRO SPUMEGGIANTE
Il posto d’onore nella graduatoria delle attenzioni spetta, in questa fase, al “Manifesto verso la Terza Repubblica”, http://www.versolaterzarepubblica.it/doc/24/manifesto-verso-la-terza-repubblica.htm , non tanto per la consistenza delle forze che riuscirebbe a mettere in campo quanto perché rappresenta la classica buccia di banana su cui potrebbe scivolare, in caso di vacuità, il progetto di riproposizione dell’esperienza montiana, almeno nelle sue attuali forme. La crescente istigazione ai danni di Berlusconi, consentita anche dalle innumerevoli occasioni offerte da un apparato statale sempre più frammentato e feudalizzato, mira, a mio avviso, a erodere dal PDL le forze più “europeiste”, a spingere il PD ancora una volta nella trappola ormai ritrita dell’antiberlusconismo, a proporre su queste basi l’alleanza tra la nuova formazione centrista, nella veste di forza governativa responsabile, e un PD invischiato nelle polemiche moralistiche contro il Cavaliere Nel primo caso il bottino di fuoriusciti sembra per ora poco significativo, ma siamo solo agli inizi; nel secondo, a giudicare dalle reazioni delle seconde file dei “democratici”, le tentazioni di ricaduta nel riflesso condizionato appaiono palpabili ma per il momento sotto controllo; quanto alla terza ipotesi, allo stato la futura alleanza vede pesi di proporzione rovesciata rispetto alle aspettative con la conseguenza che le velleità keynesiane dell’attuale gruppo dirigente del PD possano rendere ingestibili le contraddizioni.
Il vero punto debole, però, di questa trama si manifesta proprio nelle caratteristiche intrinseche di questo movimento. Il “Manifesto verso la Terza Repubblica” nasce dalla fusione di “Italia Futura” con i partecipanti al seminario di Todi, promosso dalla componente episcopale della Chiesa Cattolica, ma con la defezione significativa di “Fermare il Declino” di Oscar Giannino, dal lato dei liberali, e quella di Coldiretti e in parte di Confartigianato dall’altro versante. Dei “Todisti” ho già parlato dettagliatamente in due articoli; l’Italia Futura di Montezemolo ha goduto di minori attenzioni anche perché sino ad ora ha seguito una strada parallela e più discreta rispetto alla scena politica vera e propria e ha preferito concentrarsi sul radicamento territoriale dei circoli ormai presenti in gran parte del paese. La fonte principale di ispirazione dell’associazione è l’Istituto Leoni, http://www.brunoleoni.it/default.aspx. Una organizzazione che ha fatto del liberismo, dell’arretramento dello stato, delle privatizzazioni e del rafforzamento del mercato attraverso la progressiva frammentazione delle strutture economiche un dogma indiscusso e indiscutibile che prescinde completamente dal ruolo delle scelte politiche, dal peso della geopolitica nelle strategie economiche dei regolatori e delle grandi imprese; una convinzione che l’ha immediatamente trasformato paradossalmente da associazione di studio a vera e propria lobby di interesse impegnata anche in operazioni di piccolo cabotaggio. Una realtà, quindi, che non poteva non colpire la capacità visionaria di Luca Cordero di Montezemolo (LCdM) acrobaticamente in grado di conciliare il suo afflato orientato al bene comune dell’Italia e la sua prosaica e contestuale rappresentanza degli, tra i tanti da lui coperti, interessi industriali francesi e finanziari qatarioti. Una sorta di riproposizione dozzinale dei valenti uomini d’arme italici del ‘500; valenti sì, anche orgogliosi, ma pur sempre mercenari. Dalla gloria alla vanagloria il passo è breve e spesso il passaggio impercettibile perlopiù attraverso una strada piena di macerie e predazioni.
La visione di Montezemolo prefigura l’Italia come un immenso campo aperto dove le virtù, il merito e le capacità dell’individuo, da qualunque parte essi provengano, trovino cavalleresco riconoscimento e nel quale il talento italico trova quindi le migliori possibilità di emergere. Rispetto alla compostezza funerea e all’inesorabile grigiore di Monti, lo spumeggiante tripudio crepuscolare ma con l’identico esito finale.
Il problema fondamentale per LCdM è lo Stato sprecone, corruttore e ormai privo di risorse il quale deve cedere la gran parte delle attività e gestire al meglio le risorse residue; seguendo il principio di sussidiarietà, l’impegno deve essere portato sempre più dagli imprenditori, dalle comunità civili e dalle associazioni piuttosto che dallo Stato; va da sé, tesi ancora più realistica se sostenuta da un antesignano come lui, che in questa militanza debba essere compresa a pieno titolo l’intraprendenza incondizionata dei capitali esteri.
Un approccio approssimativo ma che poggia con qualche credibilità sulla condizione attuale dello Stato, delle pubbliche amministrazioni e della società.
Non c’è dubbio che su questo aspetto Luca di Montezemolo abbia molto da insegnare e da svelare; sorprende invece, nella sua rappresentazione epica della lotta tra pubblico e privato, la completa rimozione di un periodo cruciale della sua formazione politica e imprenditoriale: quello trascorso alla Fiat sino a diventarne presidente. Eppure quell’esperienza dovrebbe avergli insegnato che i confini tra pubblico e privato sono molto più incerti di quanto la rappresentazione ideologica lasci intendere. Il modello gerarchico-sabaudo della casa torinese, arricchito del bagaglio non solo culturale della tradizione borbonica, presenta inquietanti analogie e somiglianze, anzi vere e proprie commistioni con il modello statuale piemontese, anch’esso arricchito dal contributo delle Due Sicilie, imposto allo Stato Unitario. Il trionfo del mercato diventa quindi lo spazio libero di composizione delle lobby più svariate; la richiesta dell’abolizione degli incentivi diretti alle imprese con contestuale detassazione comporta la rinuncia di un qualsiasi indirizzo concreto di politica industriale nei settori strategici e l’emersione spontanea dei settori meno importanti. Nel programma e nei proclami non esiste altro, semplicemente perché lo scacchiere geopolitico e le gerarchie sono decisi da altri e in altre parti del mondo. Quasi tutto è affidato all’iniziativa civile; alla società civile tocca scendere in campo nel processo di trasformazione politica. Ovvio che LCdM si sia proclamato esponente e mallevadore di questa resurrezione.
Il paradosso, quindi, dell’alleanza tra una componente cosi ostentatamente liberale come Italia Futura e le associazioni aderenti al seminario di Todi presenti prevalentemente nel cosiddetto terzo settore (ACLI, Compagnia delle Opere, Cisl), nel lavoro dipendente pubblico nella sua forma più conservatrice (Cisl), con una presenza residuale del ceto medio artigiano, culminato con il Manifesto verso la Terza Repubblica, è solo apparente.
Poggia sulla ipotesi di una cessione progressiva di attività e servizi, almeno quelli superstiti, da parte dello Stato; si fonda sulla fusione di una visione individualistica e sempre più comunitaristica dell’iniziativa politica.
Non è un caso che, nel loro economicismo di fondo, la maggiore articolazione di proposte del documento riguarda i settori del turismo, del patrimonio storico, culturale e monumentale del paese, della scuola praticamente fine a se stessa o tutt’al più orientata alla ricerca ma senza la lucida creazione di serie piattaforme industriali in grado di dare forza al paese e senso allo sforzo formativo.
Per il resto siamo alle enunciazioni sul welfare più orientato a sostenere le opportunità piuttosto che l’assistenza parassitaria o consumatrice, più rivolto ai servizi, quindi agli apparati, che alla monetizzazione del disagio; alle raccomandazioni su una politica più oculata delle infrastrutture. Buoni propositi, corroborati in qualche caso dal fascino indiscutibile delle relatrici (Irene Tinagli), ma poco altro.
Mi sembra evidente che un programma così limitato e residuale faccia a pugni con le intenzioni egemoniche del movimento e lasci nell’ambiguità demagogica e “populistica” il rapporto con gran parte dei ceti produttivi e trainanti della società; proprio l’atteggiamento che rimproverano ai movimenti protestatari e al berlusconismo di ritorno.
Un limite ininfluente per le ambizioni di carriera politica di Ministri ed emergenti espressione di questi settori (Riccardi, Tinagli, Rossi, ect), ma che comincia ad essere già significativo per personaggi come Passera e controproducente per un eventuale sostegno diretto ad essi di Monti.
Sono orientamenti e limiti che rendono questo movimento molto più compatibile con il PD che con il versante opposto, con l’eccezione di alcune componenti di questo (Gelmini, Sacconi, Frattini) e che spingeranno dopo le elezioni probabilmente a santificare con esso l’alleanza.
Tanto più che la lotta all’evasione fiscale sarà l’altro tema caldo che potrà unire i due movimenti paralleli con l’aggiunta di una gustosa salomonica ciliegina tipicamente “happy hour”: la proposta di creazione di una agenzia della spesa, complementare e analoga a quella delle entrate e con, evidentemente, le stesse perniciose modalità operative, visto il capzioso silenzio sull’argomento.
Ha ragione, quindi, Rosi Bindi nel sottolineare la necessità di ben altri processi per ricreare la DC, vista la mancanza attuale, aggiungo io, del terzo pilastro che consentì quel successo politico: le Partecipazioni Statali nei servizi e nell’industria e visto addirittura la celebrazione prossima del sacrificio dei resti sopravvissuti al banchetto di fine secolo.
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IL PD di BERSANI
Non ha ragione, però, ad indicare nel PD l’alternativa credibile, non ostante il rinnovamento e il rilancio organizzativo in corso da due anni.
Le ripetute dichiarazioni del Bersani trionfatore nelle primarie mi sembrano eloquenti. Intanto il trionfo andrebbe ricondotto ad una vittoria più modesta, se è vero che è riuscito a recuperare solo una parte dei voti dei candidati che lo hanno sostenuto nel ballottaggio. Per il resto siamo nella piena continuità degli impegni dettati dal FMI e dalla Comunità Europea con l’aggiunta di “qualche soldo” destinato ad alimentare la domanda interna e gli investimenti in infrastrutture e nell’economia verde da ricavare per di più in ambito europeo con l’indebitamento; cosa potrà significare nel contesto euro atlantico di liberalizzazione finanziaria è facile prevederlo. Rispetto a quanto scritto in alcuni articoli precedenti rimangono alcuni aspetti da sottolineare:
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Le dimensioni di dismissioni, privatizzazioni e liberalizzazioni dovrebbero superare le migliori intenzioni espresse da Monti. Se il solco dovesse essere quello tracciato mesi fa da Enrico Letta, piuttosto che una riorganizzazione ed una razionalizzazione si tratterà di una concentrazione e valorizzazione delle attività in funzione della realizzazione di cassa
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La lotta all’evasione fiscale sarà sempre un cavallo di battaglia fondamentale. Piuttosto, però, che una impostazione moralistica sarà privilegiato il fattore di trasparenza che consentirà una distribuzione equa dei servizi, degli incentivi e dei relativi costi legati alla spesa pubblica in base alle reali capacità di reddito. Un principio sacrosanto la cui applicazione pedissequa in una economia ormai strutturalmente legata in gran parte al precariato e al sommerso porterà al contrario ad un ulteriore degrado socioeconomico. La classica dimostrazione di come un nobile principio possa trasformarsi in una arma per ulteriori nefandezze
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La rivendicazione di un maggior ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, quasi a prefigurare una qualche delega da parte degli Stati Uniti ad una politica di consolidamento delle “primavere arabe” e di articolazione delle alleanze in Medio Oriente. Il recente viaggio in Libia di Bersani e il voto all’ONU sullo Stato Palestinese lasciano prefigurare un gioco delle parti meno tradizionale con un qualche ruolo dell’Italia in concorrenza con la Francia e la Gran Bretagna
Come già sottolineato altrove si tratta di una posizione flebilmente keynesiana che nella conferma dell’attuale contesto di Unione Europea e di Alleanza Atlantica non farà che esporre ulteriormente il paese alle fluttuazioni e agli umori dei centri di potere più influenti.
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L’EPILOGO DI BERLUSCONI
Quello che appare assodato, invece, è la circoscrizione dell’area operativa di Berlusconi; circoscritta ma non necessariamente ristretta; tutt’altro! A tutt’oggi le sue sortite sono ancora dei “ballon d’essai” tesi a provocare, a lasciar intravedere i propri spazi di azione, a sondare le disponibilità e le reazioni, ad annichilire le tentazioni centrifughe all’interno del proprio schieramento. L’ampiezza del loro raggio d’azione e la contraddittorietà della loro direzione rivela certo l’incertezza del momento, ma anche l’isolamento e il bieco opportunismo del personaggio. Somiglia sempre più all’impressionante e innocua scenografia pirotecnica della contraerea di Saddam Hussein sotto il cielo di Bagdad. Alla fine Berlusconi, per sopravvivere, dovrà puntare al nocciolo duro del suo elettorato in Nord-Italia e battere la via, magari in forme più mitigate, della critica all’euro, alla Germania e al complotto politico finanziario ordito da essa ai danni suoi personali e dell’Italia; con il risultato che ancora per chissà quanto tempo non vedremo crescere in Italia una autentica forza nazionale e sovranista. Le sue recenti accuse di complotto dello spread hanno il merito di evidenziare il livello di rivalità che stanno raggiungendo i rapporti tra i principali stati europei. Nasconde volutamente il ruolo di osservatore, arbitro e giocatore principale svolto dalla potenza americana e la subordinazione ad esso delle strategie dei paesi europei. Se è vero che le banche tedesche nella primavera-estate del 2011 hanno venduto massicciamente i titoli italiani, seguendo tra l’altro l’onda di “rinazionalizzazzione” parziale dei debiti pubblici, è altrettanto vero che non sono state le sole, che sono state le agenzie di rating americane ad emettere i verdetti, che l’Unione Europea e il FMI sotto influenza diretta americana hanno stabilito le modalità di esecuzione della pena e della espiazione del peccato; soprattutto hanno trovato terreno fertile in un paese fragilissimo e prono politicamente quanto debole, anche se ancora ricco, economicamente e, per questo, di fatto isolato non ostante i giochi di prestidigitazione di Monti. Un esempio lampante è l’estraneità delle residue aziende strategiche italiane (ENI e Finmeccanica) dai processi di concentrazione ed integrazione di imprese europee e l’asservimento di interi settori economici, compresa la distribuzione commerciale, così importante per il sostegno delle piccole e medie imprese. La soluzione che Berlusconi sembra riproporre sottovoce è infatti il ritorno della piena pari dignità dei ventisette e/o diciassette paesi europei; ancora una volta un nobile principio che in realtà nasconde l’intenzione di ripristinare il potere di mediazione della Commissione Europea sotto supervisione prevalentemente statunitense.
Non è un caso che questa capziosa rivendicazione di autonomia e dignità del paese si realizzi, nelle intenzioni di Berlusconi, attraverso una saldatura diretta ancora più ferrea agli Stati Uniti; una politica che abbiamo visto più volte all’opera in questi sessant’anni, certamente non nei momenti migliori del paese e che acuirà ancora di più, nell’attuale contesto, una conflittualità perniciosa e su basi falsate tra i paesi europei. Il “Monti troppo filotedesco” oltre a negare ogni evidenza storica del legami essenziali coltivati dal professore mira a carpire la benevolenza di determinati settori americani meno inclini a delegare agli europei le questioni regionali e a guadagnarsi il consenso di quei settori produttivi traditi dalla politica mitteleuropea della Germania degli ultimi vent’anni.
La caoticità e l’isteria di queste scaramucce preelettorali sottendono processi di disfacimento di blocchi sociali e di ricomposizione degli stessi ancora su basi del tutto fragili. Per tentare di individuarli servono sicuramente l’analisi delle scaramucce politiche, della composizione dei vari seminari e movimenti in corso, l’evidenza dell’enfasi con cui si sbandiera l’attivismo di quelle aziende vocate alle esportazioni (nemmeno il 30% delle imprese produttive, a prescindere tra l’altro dall’importanza strategica dei settori occupati) le quali dovrebbero creare le risorse necessarie a questa ricomposizione.
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LA SOSTANZA
Serve ancora di più sollevare lo sguardo su orizzonti più ampi; tra questi, lo scenario dell’Unione Europea.
L’attenzione di questi mesi si è rivolta al “fiscal compact”, alla vigilanza bancaria della BCE e all’intervento della stessa nei mercati obbligazionari. Si è trascurato un altro aspetto fondamentale: il ridimensionamento del bilancio europeo e soprattutto dei fondi di coesione e di sostegno alle politiche agricole. Il “popolo europeista” dovrebbe infatti spiegare la compatibilità della proposta di costruzione di una Europa Federale, quindi di uno stato federale europeo la cui fattibilità è per altro tutta da verificare e il quale per avere una parvenza di serietà dovrebbe quantomeno raccogliere il 25% delle entrate fiscali europee, con questo processo di riduzione il quale non consentirà nemmeno di raggiungere le poche unità percentuali attuali. Se si va ad analizzare dove si concentreranno i tagli, cioè le politiche agricole e di coesione, si comprenderà che la direzione è tutt’affatto diversa. La politica agricola è un pilastro dell’alleanza franco-tedesca e i corrispondenti tagli finanziari favoriranno le tentazioni liberiste tedesche di rifornirsi dai paesi extraeuropei accentuando la propria politica commerciale nazionale; saranno anche propedeutici all’accettazione, dopo venti anni di resistenza, della liberalizzazione prevista dai negoziati di Doha con i quali si apriranno ulteriori praterie all’agricoltura intensiva statunitense. All’interno di questa logica, ad esempio, le organizzazioni degli agricoltori italiani si sono inserite dichiarandosi favorevoli alla creazione di un mercato unico euro-statunitense; un frammento, quindi, secondario ma eloquente di quanto propugnato da Monti e Cameron nella ormai famosa lettera dei dodici di marzo scorso in polemica con Francia e Germania e di un processo che riguarda settori ben più strategici come il complesso militare, la politica estera e i processi industriali.
Le stesse politiche di coesione, lungi dall’essere strumento di riequilibrio delle strutture economiche, bensì di semplice parziale redistribuzione, gestite nell’ultimo quindicennio per integrare i paesi dell’Europa Centro-Orientale all’Unione e in particolare alla Germania e agli Stati Uniti, specie quelli più prossimi alla Russia, lasceranno più margini agli interventi nazionali.
Di fronte alla grandiosità di questi processi, in Italia ci si dibatte ancora tra il misticismo e l’irreversibile inerzia europeista da una parte e, con peso minoritario, il recupero salvifico della sovranità monetaria e dell’indipendenza nazionale dall’altra senza altre connotazioni. Della prima ho discusso ormai in numerosi articoli; dell’altra ci si scorda troppo facilmente che è stato lo strumento, compreso le svalutazioni, per lo sviluppo in altri tempi di strutture parassitarie e arretrate che stanno asfissiando il paese e lo stanno relegando a terreno di conquista. L’altra tendenza, il “recupero salvifico” già citato, se non supportato dalla formazione di un gruppo dirigente tosto capace di creare le risorse necessarie a sostenere questa politica e di ricreare nuove condizioni di collaborazione almeno tra i tre/quattro stati principali dell’Europa Continentale su basi autonome dagli Stati Uniti, rischia di trascinare il paese nell’avventurismo il cui esito è solo vagamente prefigurabile da quello che è successo recentemente in Libia. Berlusconi, con la sua innegabile abilità tattica, appare il soggetto più o meno consapevole meglio predisposto ad assecondare questo tipo di evoluzione.
Per il momento le due componenti avverse e complementari sembrano avere ancora il controllo dei flussi e probabilmente avranno la meglio nelle prossime elezioni.
Il piano su cui poggia la scacchiera è però alquanto instabile e roso velocemente dalla crisi. Dal lato e sopra di essa gli urti e gli scossoni di forze e centri di potere ben più potenti dei nostri politici vanagloriosi possono a loro volta scompaginare la disposizione delle pedine. Non dovremo attendere ancora molti anni per individuare l’epilogo. Sta a noi sfruttare il poco tempo.