LE CONNIVENZE ISLAMISTE E LA TRAPPOLA AFGHANA
L’articolo del generale Laporta, pubblicato su ItaliaOggi e da noi riproposto in data 16/09/2011, è breve e succinto, ma chiaro. Al di là del punto di vista dell’autore, ciò che di più palese emerge da una simile riflessione è un evidente punto di rottura – per certi versi irrimediabile ed insanabile – all’interno del fronte atlantico. Cosa sta accadendo nelle stanze dei bottoni di Washington? Laporta è chiaro e punta dritto il dito contro le “disastrose” gestioni democratiche di Clinton ed Obama. Pur diversissimi i contesti storici nei quali i due presidenti hanno occupato la poltrona più importante della Casa Bianca, sembra evidente che quella che Laporta definisce “inerzia nei confronti di Al Qaeda” risponda in verità ai criteri di una vera e propria strategia di ben più ampia portata, che ha coinvolto e chiamato in causa almeno quattro guerre (Afghanistan 1979-1989, Somalia 1993, Serbia 1999 e Afghanistan 2001-…). Sommati ai tradizionali vicini archi di crisi e alle recenti destabilizzazioni, e tracciati come punti-chiave in una mappa del Vecchio Mondo, questi tre scenari delineano i confini di un’area fondamentale compresa tra i Balcani, l’Africa nord-orientale e l’Asia centro-meridionale, riconfermando – dunque – in buona parte la centralità dei cosiddetti Balcani Globali, individuati da Zbigniew Brzezinski negli anni Novanta. [Per la visualizzazione della mappa “Balcani Globali” cliccare due volte sull’icona in formato word che figura subito di seguito affianco alla dicitura “Formato stampabile” n.d.r.]
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Se, come dice Laporta, di “trama oscura” si tratta, appare evidente che ci troviamo dinnanzi ad un complesso progetto di inserimento strategico – nel tentativo di sfruttare i principali archi di crisi e le principali contrapposizioni interne – avviato quanto meno a partire dall’ingerenza statunitense nella Repubblica Democratica dell’Afghanistan, allorquando le continue destabilizzazioni interne provocate dall’integralismo islamico, costrinsero nel dicembre 1979, Kabul a richiedere l’aiuto militare sovietico. Durante quell’anno, la svolta forse più decisiva nello scacchiere internazionale fu il colpo di Stato dei militari in Pakistan che deposero il socialista Bhutto, poi barbaramente trucidato, restituendo un certo vigore generale all’Islam politico. Fu proprio la complicità di Islamabad e di Riyād a facilitare il compito di Stati Uniti e Gran Bretagna, nell’ambito di una trama cooperativa tra ISI pakistano, MI-6 e Cia, chiaramente finalizzata a destabilizzare il più importante alleato sovietico in Asia Meridionale, indebolendo al contempo il bilancio della spesa militare di Mosca. La collega norvegese Kirstin Aalen ha dedicato nel 2008 un intero reportage alla complessa trama di contatto tra le intelligence occidentali e le frange dell’integralismo islamico, proseguita per tutti gli anni Ottanta e Novanta, e rafforzata in modo decisivo per effetto del crollo dell’Unione Sovietica e della Federazione Jugoslava. Nel 1991, Al Qaeda poté dunque infiltrarsi in Azerbaigian e direzionare dalla nuova sede di Baku, una vera e propria penetrazione internazionale coordinata, tanto nei Balcani (soprattutto in Bosnia) quanto in Asia centro-meridionale (a cominciare dall’Afghanistan e dalla FATA nel Pakistan).
Nel 1992 cadde definitivamente il regime socialista del presidente Mohammad Najibullah. I suoi appelli per la salvaguardia della stabilità interna furono ignorati per almeno tre anni dalla comunità internazionale, che, da par suo, non mosse un dito contro il suo rapimento e la sua barbara esecuzione per mano talebana nel 1996.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, al democratico Jimmy Carter erano subentrati in sequenza Ronald Reagan (1981-1988), George H. W. Bush (1989-1992) e Bill Clinton (1993-1999). Proprio il 26 febbraio del 1993, cioè un mese dopo l’insediamento di Clinton alla Casa Bianca, New York è sotto attacco: è il World Trade Center lo scenario urbano di un’esplosione di tritolo che uccise sei persone e ne ferì altre mille. L’FBI arrestò Mohammed Salameh e Nidal Ayyad come esecutori materiali dell’attentato e, qualche anno dopo, Sheik Omar Abdel-Rahman come mandante. Così come per l’Undici Settembre, anche in questo caso risultano ormai stantie e sin troppo pompate a livello mediatico le tante, troppe versioni cospirazioniste, che – pur partendo da dubbi leciti – giungono spesso a conclusioni altrettanto opinabili quando non addirittura ridicole. Quali che siano le dinamiche reali che condussero ai due attentati contro le Twin Towers, ciò che stride in questa faccenda è un aspetto inquietante ed al contempo meno dibattuto ed approfondito: quanto e in che misura i gruppi integralisti islamici furono avvantaggiati dal supporto logistico, economico e militare che le intelligence occidentali fornirono ad essi tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta? Oggi che le rivolte arabe sanciscono la fine quasi definitiva dei regimi laici sorti dalla stagione del panarabismo, ed impongono un forte e marcato ritorno dell’Islam politico nello scenario internazionale, qual è il ruolo della Turchia (membro Nato e in odore di ingresso nell’Unione Europea – giova ricordarlo), qual è quello dell’Arabia Saudita, e in che misura gli Stati Uniti potrebbero approfittare delle velleità neo-ottomane di Ankara per rimescolare le carte in tavola all’interno del Medio Oriente e del Nord Africa? Quali scenari si aprirebbero con un forte ritorno di istanze pan-turchiste e pan-islamiste all’interno del Caucaso e dell’Asia Centrale, specialmente in relazione alla Russia (Cecenia, Dagestan, Inguscezia) e alla Cina (Xinjiang)? Il “cedimento” di Joe Biden in merito al Tibet e a Taiwan, nel quadro dell’ultimo incontro diplomatico con Xi Jinping a Pechino, può essere definito veramente tale o deve invece considerarsi come una mossa retorica priva di significato, dal momento che sia Taiwan (grazie al ruolo di mediazione diplomatica del nazionalista Ma Ying-jeou), sia il Tibet (in virtù di un sempre più imponente sviluppo economico ed infrastrutturale interno alla regione, che favorisce l’integrazione tra Han e Tibetani) potevano forse già considerarsi battaglie ipotecate dalla Cina?
Rispondere con esattezza a queste domande pare davvero complicato, tanto quanto capire se mai si concluderà realmente la missione atlantica in Afghanistan, a quanto pare prolungata segretamente in agosto sino all’assurda data del 2024. Se fosse confermata questa scadenza, l’intervento americano nel Paese asiatico raggiungerebbe i ventitré anni di durata, superando persino i notevoli picchi di aggressione raggiunti con la Guerra del Vietnam.
Passano i secoli, tuttavia l’Afghanistan si conferma come uno dei territori chiave dell’intera massa eurasiatica. Lo aveva compreso Friedrich Engels, che in un articolo del 1857 ricordava come “la posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata” e scriveva:
“Gli afghani sono divisi in clan, sui quali i vari capi esercitano una sorta di supremazia feudale. Soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono loro di diventare una nazione potente; ma questa stessa irregolarità e incertezza nell’azione li rende dei pericolosi vicini, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni”
Pur volendo evitare tutte le suggestive descrizioni “misteriche” sulla particolare natura morfologica del territorio dell’Afghanistan, tanto in voga negli ultimi anni, è comunque un dato di fatto storico che chiunque abbia tentato di controllare – in vari modi e in varie epoche – questa nazione, sfruttandone le enormi potenzialità di pivot strategico incuneato tra il vecchio Turkestan (Asia Centrale + Xinjiang), il Medio Oriente e il sub-continente indiano, si sia scontrato con mille problemi ed ostacoli all’apparenza insormontabili.
La permanenza americana resta a maggior ragione inspiegabile, considerando gli alti costi di una missione del genere. Tuttavia, questa confermerebbe una sostanziale linea di fondo comune a tutte le pur diversissime strategie adottate da Washington negli ultimi dieci anni: mantenere la presenza militare in Afghanistan per mantenere il containment su Russia e Cina.
Il gioco torna ad essere estremamente pericoloso. Si attendono reazioni a catena e rotture incontrovertibili. Tutto sembra confermare che siamo di fronte all’inizio di una fase di rimescolamento globale, dove i diversi attori internazionali cercano di ridefinire sé stessi alla luce di una ritrovata, ma ancora embrionale, dimensione di potenza regionale (Iran, Turchia, India, Brasile) o mondiale (Cina e Russia): una fase enormemente caotica, volutamente lasciata al caso, e all’occorrenza reindirizzata dai principali attori in gioco secondo le rispettive necessità; una fase che affonda necessariamente le sue radici nella fine del confronto bipolare, un evento epocale capace di sprigionare tutte quelle potenzialità inespresse a causa della rigidità della Guerra Fredda, ma anche di aumentare l’instabilità internazionale e l’imprevedibilità dello scenario globale (e la guerra a-simmetrica dell’era Bush jr. ne fu una prima conferma). Sarà solo il tempo a dirci se il Medio Oriente e l’Africa musulmana (non soltanto il Maghreb, dunque, ma anche altre realtà “nere” a cominciare dagli instabili teatri del Sudan, della Mauritania e della Somalia), costituiranno uno scenario di conflittualità simile a quello dell’Europa nel trentennio 1915-1945.