(qualche riflessione sul Myanmar)
Quello che sta succedendo in Myanmar mette noi tutti di fronte ad un dilemma tragico: valgono di più le giuste ragioni dei monaci e degli oppositori della giunta militare che chiedono maggiore libertà e una politica economica più aperta, oppure quelle geopolitiche, i cui indizi riconducono immancabilmente ad un tentativo di destabilizzazione dell’area da parte della politica geostrategica americana? E’ ovvio che il discorso sui diritti civili e sulla democrazia è, palesemente, la testa d’ariete con la quale gli Usa tentano di forzare i bastioni eretti dai paesi non-allineati contro i tentativi di egemonia mondiale messi in atto dall’occidente filo-americano, per cui non si spiega, se non inserendosi nella logica della politica di potenza statunitense, perché, ad esempio, al Kossovo in mano ai criminali etnici dell’UCK si vorrebbe far raggiungere la piena indipendenza mentre nei confronti di Iraq, Afghanistan, Iran ed ora anche Myanmar (in quest’ultimi due casi, attraverso una diversa strategia di assedio mediatico e non di assalto guerreggiato per via della ferma opposizione di Cina e Russia) si proceda con le armi, con le sanzioni economiche e con l’inevitabile pressione mediatica. La rivolta dei monaci è iniziata a causa di un aumento del prezzo del petrolio e del gas che, certamente, danneggia i settori sociali più deboli di un paese che non è un Eldorado ma che l’intervento dell’Occidente ha fatto artatamente precipitare nel caos, per ragioni nient’affatto nobili come si vuol far credere.
Ci sono degli elementi lampanti che lasciano intuire quali siano le vere preoccupazioni degli Usa e dei suoi alleati occidentali i quali, come al solito, utilizzano il paravento dei diritti umani per intorbidare le acque e inserirsi nelle contraddizioni sociali delle aree strategiche del globo.
Il Myanmar può divenire un avamposto privilegiato per schierare le proprie legioni e porre un freno all’avanzata di Cina e India, per cui anche l’ex-Brimania deve essere sottoposta alla cura democraticistica, a dosi omeopatiche, per la quale il governo statunitense, con il suo stuolo di ONGS, è campione indiscusso.
Che l’obiettivo sia predatorio diviene chiaro allorché si guarda alle mosse che la giunta birmana ha compiuto negli ultimi tempi, a partire dagli accordi con la Cina per la costruzione di un oleo-gasdotto di 2380 kilometri, da dislocare lungo la costa dell’Arakan fino alla provincia cinese dello Yunnan. La Cina si servirebbe di tale pipeline per soddisfare le sue crescenti esigenze energetiche facilitando così l’importazione di petrolio e gas dal Medio Oriente, dall’Africa e dal Venezuela. Ancora una volta il mondo si fa piccolissimo lungo le strade dell’oro nero e di quello blu, tanto che il governo statunitense non può permettere ai cosiddetti ex-paesi in via di sviluppo di agire senza il suo imprimatur e il suo controllo diretto. Ma non si tratta semplicemente di un controllo sulle risorse energetiche del pianeta, che pure può apparire come l’obiettivo più immediato della “tenzone”, quanto di impedire che si vada rafforzando il coordinamento politico tra Cina, Russia, India e paesi sudamericani (Venezuela).
Ancora, come si può leggere nell’ottimo “notiziario strategico” di Alex Lattanzio (www.sitoaurora.altervista.org): “Un altro motivo di intervento in Myanmar, da parte USA, è lo stretto legame, nel progetto di guerra elettronica avanzata, patrocinata dal leader della junta (il Consiglio per la Pace e lo Sviluppo – SPDC), lo specialista di guerra psicologica, Generale Than Shwe. Il progetto, da 1,5 miliardi di dollari, vede la collaborazione della Cina Popolare. Una collaborazione Cina-Myanmar volta a controllare i movimenti delle guerriglia etnica in Myanmar; Karen, Chan, Wa e altri, che si spostano attraverso i confini con la Cina. Inoltre, tale accordo comprende la sorveglianza strategica dell’area e del traffico navale nell’Oceano Indiano, soprattutto dei movimenti della flotta militare degli USA, senza menzionare il ruolo cruciale del traffico nello Stretto di Malacca”. Ed ecco qui svelate le “ragioni della democrazia” imposte a “furor mediatico” dagli organismi internazionali (in preda alle solite convulsioni pro-Usa) e dal circo intellettuale nostrano (al quale non sono immuni nemmeno i sinistri) unanimemente uniti nella condanna “morale” dell’attuale situazione in Birmania. Detto per inciso i monaci buddisti mi sono anche “simpatici” e non mi sognerei mai di mettere in dubbio le rivendicazioni di maggior benessere sociale che provengono dai settori più deboli e vessati del popolo. Tuttavia, sarà solo dalla crescita del policentrismo su scala mondiale che si apriranno spazi di rivendicazione, con maggiori possibilità di successo, per i dominati. Pertanto, il nostro compito, almeno in questa fase, è quello di denunciare il tentativo americano (ed occidentale) di ingerirsi nelle faccende interne degli altri paesi con falsi pretesti, ammantati dalla necessità di democratizzare il mondo (ma per meglio dominarlo). La strategia americana non è univoca, al contrario, essa è fortemente differenziata a seconda delle aree nelle quali si trova ad essere esplicata. Se nei confronti dei paesi dell’ex-Unione Sovietica, dove il terreno è più fertile in virtù della vicinanza con l’Europa, bastano le rivoluzioni arancione e le fondazioni sorosiane per orientare le classi dirigenti autoctone, nei paesi che ricadono sotto l’influenza di altre potenze ci si inserisce, invece, nelle contraddizioni sociali esistenti per direzionare il malcontento fino a farlo sfociare, come in Myanmar, nel caos più completo.