L’ECONOMIA AMERICANA E I GIOCHI DI PRESTIGIO
Sul Sole 24 ore del 04.05.2011 è apparso un interessante articolo di Mario Margiocco. Il giornalista e saggista scrive:
<<Il debito totale americano, privato e pubblico, era già alto a metà 2001, circa il 290% del Pil, come nel 1933. Poi ci furono gli attentati e la Federal Reserve, che già aveva abbassato ripetutamente i tassi dal 6% al 3 e mezzo, fece il suo dovere: il Paese era in guerra, come avrebbe detto il presidente George Bush nel discorso sullo stato dell'Unione del gennaio successivo, e occorrevano gli stimoli monetari da economia di guerra. Il tasso di riferimento era a quel punto all'1 e tre quarti, sarebbe sceso all'1% nel giugno 2003 e sarebbe rimasto a quel livello, mai sfiorato da mezzo secolo, per un anno intero. In totale quasi tre anni di tassi sotto il 2%, dal dicembre 2001 al novembre 2004. Inondato da un credito senza limiti, il sistema portava il debito totale a quasi il 380% del Pil. I mutui subprime che dovevano innescare la crisi finanziaria balzavano da circa 200 a oltre 1.300 miliardi, ed è difficile non ammettere che tutto questo rientrava nella risposta americana allo shock dell'11 settembre.>>
Così l’11 settembre 2001 innescando il tentativo americano di ristabilire la propria supremazia planetaria per via militare impose anche un certo tipo di politica economica; politica che comportava certo scelte onerose ma fatte, però, con la convinzione che la riaffermazione piena del monocentrismo Usa avrebbe permesso anche sul piano strettamente economico-finanziario di poter recuperare facilmente le risorse spese per gli sforzi che sarebbero stati fatti. Col senno di poi si può ormai dire che probabilmente – senza le scelte seguite all’11 settembre – la crisi finanziaria sarebbe stata diversa e meno virulenta proprio perché non ci sarebbe stata così a lungo una politica monetaria estremamente espansiva. Ma la crisi vera e propria come ”grande depressione” che ha colpito soprattutto i sistemi-paese occidentali ma anche – nonostante l’inizio di un barlume di “disaccoppiamento “ dell’economia globale – i paesi “emergenti” sarebbe comunque scoppiata visto che la causa fondamentale risiede proprio nell’incapacità degli Usa di coordinare la formazione sociale globale e arrestare l’avvento di una nuova fase multipolare. Margiocco si domanda poi se i successi di Obama in politica estera, simboleggiati dall’uccisione del nemico n.1 degli Stati Uniti, ma legati evidentemente a quella che su questo blog abbiamo definito come tattica del “serpente” e strategia del caos, possano ripercuotersi positivamente anche a livello più propriamente economico-finanziario. Così egli scrive, infatti, a proposito dell’attuale presidente
<<Certamente l'autorevolezza del presidente è aumentata. Può darsi riesca a imporsi meglio nelle trattative con i repubblicani sui nodi di deficit e debito. I due piani di riduzione di spesa sono molto simili nell'entità e nei tempi decennali, diversi nella composizione: solo tagli i repubblicani, tagli e tasse i democratici. Ma rovesciare la corsa del debito pubblico, raddoppiato in sette anni e passato dal 56% del Pil trovato da Bush jr all'83% trovato da Obama a quasi il 100% attuale, è un'impresa titanica. Che implica chiarezza di idee mentre invece Washington, nel giudizio di un veterano super partes come Paul Volcker, «ha perso quel modello di governo coerente e di successo capace di farsi emulare dal resto del mondo».>>
Ma il problema principale consiste, forse, nelle divisioni interne al sistema di potere Usa e in particolare tra i due maggiori partiti e tra questi e la Federal Reserve. Così Margiocco descrive la situazione:
<<Sul debito, la situazione dei tre maggiori protagonisti, i due partiti e la Fed, è la seguente. I repubblicani dicono che è colpa dello "statalismo", di un modello troppo all'europea, si rifiutano di riconoscere che c'è dietro all'origine l'eccesso di americanismo romantico reaganiano, convinto che l'intendenza – cioè il pareggio dei conti – comunque seguirà. I repubblicani rifiutano l'evidenza, e cioè che il troppo debito è dovuto soprattutto ai loro presidenti e alle loro politiche, che hanno ridotto le entrate ma non le spese. I democratici avevano fatto bene, sul debito, con Clinton. Ma con Clinton hanno creato quell'asse tra il partito e le grandi banche di Wall Street che adesso li mette con le spalle al muro. Non possono dire a piena voce che l'esplosione del debito, quasi 4mila miliardi in più dal gennaio 2009, è dovuta alla crisi finanziaria. Se lo facessero, dovrebbero dire di chi è la responsabilità di una crisi costata 2mila miliardi finora a Washington per salvare il sistema finanziario, e circa 8mila miliardi di ricchezza finanziaria, al momento, persi dalle famiglie. La Washington democratica ha deciso invece di coprire tutto, quasi si fosse trattato di ineluttabilità. Non uno, fra finanzieri troppo avventurosi e controllori fedifraghi, ha dovuto affrontare davvero la giustizia. Solo Madoff.>>
Nel testo di Margiocco si deve leggere un atto d’accusa molto pesante nei confronti della leadership politica americana sia democratica che repubblicana ed una situazione di fronte alla quale la Fed <<è oggi come un acrobata che esegue esercizi rischiosi>>: vorrebbe un dollaro debole per aiutare le esportazioni e il pagamento del debito e un dollaro forte che <<continui a essere il pilastro dei pagamenti internazionali>>. Alla fine di giugno, tra l’altro, ci si troverà davanti ad una scadenza decisiva: avrà termine il quantitative easing ovvero la creazione eccezionale di credito per sostenere crescita e debito pubblico. E il Qe sembrerebbe veramente un gioco di prestigio rischioso degno di Harry Houdini. In un recente articolo Kenneth Rogoff ne ha parlato in questi termini
<<…il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha difeso con vigore il tanto criticato piano di acquisto dei titoli di stato americani, detto "quantitative easing" (Qe). Le sue giustificazioni sono state convincenti? La maggior parte degli economisti lo giudica un colpo da maestro.[…]La Fed è stata forzata a passare al Qe, come lo chiamano i trader, dal momento che lo strumento normale per ritoccare inflazione e crescita, ossia il tasso di interesse[…]è già a zero. Eppure la crescita economica americana resta stagnante, accompagnata da una disoccupazione ostinatamente elevata. Il Qe è stato incolpato di qualsiasi cosa, dalle bolle finanziarie alle rivolte per il carovita alle malattie infettive. […]I critici insistono che il Qe sia l'inizio della fine del sistema finanziario globale, o forse della civiltà stessa. Lamentano soprattutto il fatto che non si sappia molto del suo funzionamento e che la Fed stia mettendo a rischio il sistema finanziario globale per favorire una modesta accelerazione dell'economia Usa.>>
Se è vero quello che sostiene Rogoff avremmo in Bernanke un novello apprendista stregone che mentre si esibisce nei suoi giochi di prestigio tenta di rassicurare il popolo Usa assicurando che nel prossimo anno si passerà ad una fase di rigore monetario – senza avere fretta perché la crescita è molto debole – che arresterà le aspettative inflazionistiche senza il bisogno di ricorrere ad una “ter
apia” troppo “aggressiva”. Bernanke avrebbe anche sostenuto
<<che se si guarda al modo in cui il Qe ha influito sulle condizioni finanziarie, inclusi i tassi di interesse a lungo termine, la volatilità e i prezzi azionari, lo strumento assomiglia decisamente alla convenzionale politica sui tassi di interesse, che pensiamo di capire. Di conseguenza, i timori sui presunti effetti nocivi del Qe sono eccessivi, e non c'è nulla di così allarmante in un cambio di rotta finale.>>
Insomma anche l’attuale capo della Fed sarebbe un novello “genio” alla stregua del grande Greenspan, il quale ha scoperto, qualche anno dopo essersene andato, di aver sbagliato tutto (o quasi). In realtà Obama, il suo quartier generale e quello dei repubblicani sperano molto di più dalla forza politica e militare, da usare con “saggezza” strategica, che dalle alchimie dei nuovi e vecchi profeti della dismal science.
Mauro Tozzato 08.05.2011