L’ECONOMISMO, MALATTIA DEL PENSIERO CRITICO, di GLG

gianfranco

(22 settembre 13)

Si sta intensificando in certi settori la campagna contro l’euro con gradazioni varie, la più forte delle quali chiede l’uscita del paese dalla moneta comune e il ritorno alla lira; o comunque ad una valuta nazionale. Si è fatto promotore di una campagna in questo senso il giornale “Libero”, su cui oggi vedo anche un articolo dell’economista Bagnai – apprezzato da molti critici dell’attuale sistema economico-politico italiano ed europeo – che mi sembra riassumere i motivi per cui noi ci salveremmo dalla crisi con questa scelta “politica”. Diamola pure per politica, anche se nutro qualche dubbio che si possa qualificare secondo questa caratterizzazione.

Vedo intanto che, come del resto pensavo, si dà per scontato, nel caso di uscita dall’euro, il cambio di uno contro uno: un euro, una lira (o unità di moneta di nuovo nazionale). Ricordo che, prescindendo adesso dai tre zeri (che non rilevano per il ragionamento in questione), noi abbiamo dato due per avere uno. Quindi, in ogni caso, il nostro potere d’acquisto resterebbe fortemente ridimensionato. E’ certo ragionevole sostenere che non si può tornare indietro; il danno fatto dai Ciampi, Amato, Prodi, ecc. non verrà più sanato (ma questi sono ancora qui a combinare altri guai, in particolare il “dottor sottile”, che è invece di pensiero grossolano e rudimentale quant’altri mai ed è stato ulteriormente “miracolato” dall’ineffabile presdelarep).

Il ragionamento continua con l’affermazione secondo cui sarebbe possibile usare il vecchio sistema della svalutazione della nostra eventuale futura moneta nuovamente nazionale; così verrebbero favorite le esportazioni. Intanto, teniamo conto che la svalutazione comporterebbe un’ulteriore riduzione del potere d’acquisto rispetto all’estero. Bene, si dirà, così gli italiani se ne andrebbero meno all’estero e spenderebbero di più in casa, notazione che ci viene tuttavia risparmiata. In ogni caso, il settore export riguarda circa il 20% delle nostre imprese industriali ed è quello che, anche nel corso dell’attuale crisi, ha sempre “tirato”, pur con qualche indebolimento negli ultimissimi mesi. Inoltre, un qualche aumento dell’esportazione non darebbe sufficiente respiro al nostro sistema economico (e nemmeno gran che al livello occupazionale, soprattutto a tempo indeterminato; anche perché una parte dell’export credo sia di tipo stagionale). Poi vorrei ci si indicasse meglio i settori che principalmente esportano. Credo che in buona parte si tratti del ben noto “made in Italy”; cioè di tipici settori “cotonieri”, che accentuerebbero la nostra sudditanza rispetto ai sistemi dei paesi industrialmente forti e sarebbero alla mercé delle “congiunture” di questi ultimi (talvolta pure a cambiamenti di gusti, ecc.). In ogni caso, potremmo essere preda di una qualche labilità.

Tutto questo nel mentre si intende privatizzare la nostra principale impresa strategica (anche in tema di innovazioni tecnologiche) che è la Finmeccanica; e la privatizzazione, data la nostra situazione industriale interna, significherà cederne il controllo a mani straniere. Si ammette poi che verrebbero a costare di più le importazioni di materie prime. E qui mi sembra ci si addentri in un discorso pasticciato e generico in cui si sostiene (come scrive Bagnai) che “non è detto” si verifichi una simile conseguenza (ma nemmeno è detto il contrario, cioè si ammette che non si è in grado di fare previsioni di alcun genere). Si afferma inoltre che il costo delle materie prime non rappresenta il principale costo di un prodotto (merce). Non per tutti i prodotti, comunque per buona parte, si può accettare simile conclusione; non si chiarisce però minimamente la sua diversa incidenza a seconda dei vari settori dell’export, pur essi del resto lasciati nella “nebulosa” del generico, tanto per chiacchierare atteggiandosi ad “esperti”.

Tra le materie prime ci sono quelle energetiche. Non c’è giorno che passa senza che si parli di grandi manovre internazionali per oleodotti e soprattutto gasdotti. Si svolge una lotta accanita intorno ai loro percorsi “preferiti” (per convenienze non tanto economiche quanto politiche), al tentativo di ridurre l’importanza (economico-strategica evidentemente) della Russia, agli ampi bisogni della Cina (che si trova ora in gravi difficoltà in Africa, in specie in Niger, Gabon e Ciad) e di altri paesi emergenti, all’apertura di eventuali rotte artiche di trasporto, ecc. Si insiste, a volte cervelloticamente, sulle energie rinnovabili, si nutrono grandi (e, temo, deludenti) aspettative sui rifiuti e altre pinzillacchere del genere. Insomma, il problema di queste materie energetiche non è irrilevante; e non è che l’Italia ne importi poche! Quanto aumenteranno i costi con la mossa della svalutazione dell’eventuale moneta nazionale?

Dove però il tutto mostra ampiamente la corda – facendo capire come la questione dell’uscita dall’euro, se è di carattere politico, appartiene ad una politica abbastanza miope – è nel misconoscimento che il problema dell’aumento dei costi, per la possibile svalutazione di una nuova moneta nazionale, va ben oltre il problema delle materie prime; soprattutto, poi, se si cederà al controllo straniero la nostra Finmeccanica. Ci sono tecnologie avanzate e innovazioni che costano, e che si dovranno importare se si pongono gravi intralci alle poche imprese italiane esistenti in questi settori; le difficoltà (con relativi costi) si accresceranno ulteriormente se non viene dato incremento alla “ricerca avanzata”, che pur essa richiede notevoli investimenti. Mi sembra dunque superficiale prestare attenzione in senso solo generale (e generico) alle esportazioni, essendo molto trascurati in merito alla qualificazione delle stesse e agli effetti provocati sui costi dei differenti prodotti esportati dall’aumento dei prezzi delle materie prime e tecnologie importate.

Anzi, affrontiamo tale problema secondo quanto è veramente decisivo: ciò che conta di più non è in definitiva l’eventuale aumento dei costi relativi alle importazioni quanto invece la sottovalutazione, addirittura la dimenticanza, degli economisti in merito a quali sono i nuclei centrali di una competizione fra paesi in campo internazionale. Ad es., un Lenin aveva capito la differenza tra imperialismo e colonialismo. Egli aveva esplicitato che – mentre chi insisteva sulla questione coloniale poneva in luce il semplice “sfruttamento” di dati paesi (più tardi detti del “terzo mondo”), una cospicua parte del quale concerneva proprio l’accaparramento di materie prime – bisognava invece parlare soprattutto di sfere d’influenza e di conflitto acuto, realmente aperto alla “politica in grande stile”, tra le maggiori potenze per la suddivisione delle stesse.

Per le sfere d’influenza è senza dubbio fondamentale la forza militare; e su questo punto nessuno mai si sognerebbe di sostenere che l’Italia è in grado di conseguire risultati apprezzabili. Paesi come l’Italia hanno però possibilità discrete in altri campi dell’attività tesa all’ampliamento, sia pure magari collaterale a quello delle maggiori potenze, di spazi soggetti ad una almeno modesta, ma non irrilevante, penetrazione. Uno di tali spazi è quello finanziario, con i prestiti concessi ad altri paesi per investimenti; o anche per investimenti più diretti in progetti industriali concordati con questi paesi. Vi sono acquisizioni di rilevanza politica in buona parte mascherate da “disinteressato aiuto” ad ambienti culturali, all’informazione (giornali, TV, ecc.), perfino ai servizi sanitari e di assistenza e ad altri settori di vario genere. Importantissima è l’azione che, in questo nostro paese in mano a mentecatti, viene stupidamente combattuta in quanto corruzione; che è infatti fondamentale per conquistare una rete di relazioni e “buone conoscenze” presso gli apparati politici e amministrativi di paesi verso i quali si vuole estendere la propria influenza.

Importante per condurre le varie operazioni relative all’ampliamento dei rapporti con diversi paesi è la cura che va prestata, in specie mancando di mezzi bellici “di ultima istanza”, ai servizi detti di Intelligence, dov’è indispensabile dotarsi di personale ben qualificato e di una strumentazione assai sofisticata. Se siamo in deficit di tecnologia, e di ricerca avanzata in merito a quest’ultima, si deve ricorrere all’importazione della stessa. Non tutto può però essere comprato, nemmeno pagando; quanto meno non apertamente e secondo i normali canali del commercio con l’estero, il che implica allora costi molto più elevati. Quanto più depotenziamo i nostri centri produttivi di tecnologie avanzate, tanto più saremo alla mercé dei paesi che curano simili settori di attività. Non voglio adesso dilungarmi in discorsi relativi a branche dell’agire “sociale” (politico in senso proprio) che ovviamente non conosco a sufficienza, ma di cui almeno afferro intuitivamente la decisività per ogni paese che non intenda affondare come sta affondando questo disgraziato paese. Ed è disgraziato tanto più quanto più continuerà a lasciare spazio a quei chiacchieroni impenitenti che sono ormai gli economisti.

Detto in termini grossolani, ma che credo descrivano una situazione in modo abbastanza realistico, penso si stia ormai chiudendo un lungo ciclo iniziato forse addirittura con l’Unità d’Italia. Giudico piuttosto corretto quanto scritto da De Martini nel pezzo che precede questo mio: “in un secolo e mezzo abbiamo proceduto col passo del gambero. Se uno dei tanti caduti di cento anni fa resuscitasse, vedrebbe immensi progressi meccanici e tecnologici, ma istituzioni pressappoco come quelle che conobbe. Classi sociali, le stesse. Tra i governanti individuerebbe nomi familiari. Leggi, ancora quelle e le nuove illegibili”.

E’ dunque ovvio che sarebbe necessaria una “rifondazione” ed un nuovo avvio. Prima di riavviarsi, è però necessario chiudere definitivamente il ciclo che si è nella sostanza esaurito; lasciando tuttavia pesanti strascichi che non si riescono ad eliminare e che ci stanno penalizzando sempre più pesantemente. Dobbiamo lavorare duramente per contrastare senza più remissione l’economismo e le sue degenerazioni, che hanno investito in pieno, a partire da un secolo a questa parte, perfino larga parte dei (e infine quasi tutti i) pretesi critici di questa società, anche quelli che sono stati fatti passare per marxisti. Si tratta di una grave malattia, dei cui effetti “mortali” non ci si è resi conto per oltre cent’anni. Difficile recuperare il tempo perduto; non c’è da perderne altro.

PS. Si alza il lamento del centro-destra del “nano” sulla vittoria della “rigorista” Merkel, che non ha comunque la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, mentre liberali e anti-europa non vi entrano. Adesso alcuni “critici-critici” (detto del tutto ironicamente) si sentiranno autorizzati ad accentuare viepiù il loro atteggiamento anti-europeo e, ancor più, anti-euro. Siamo chiari: non siamo innamorati dell’euro e ancor meno della UE (che non significa Europa Unita). Tuttavia, non siamo nemmeno patiti per le manovre soltanto diversive, non accettiamo la scelta di “nemici” di comodo, considerati tali allo scopo di non contrastare quelli che si ergono con maggiore efficacia contro ogni nostra autonomia.

Siamo perfettamente consci che gli Usa, con le gatte che hanno adesso da pelare, non si interessano direttamente e con asfissiante interventismo del nostro paese. Tuttavia, sia pure con le redini lasche, sono loro, in ultima analisi, a ridurre l’Italia al servaggio data la nostra posizione geografica (strategica). Basti vedere quali sono gli organismi finanziari (ivi comprese le indecenti e incredibilmente ancora ascoltate società di rating) che condannano al controllo estero le nostre ultime aziende “non cotoniere”. Quindi, smettiamola con l’acrimonia nutrita soltanto nei confronti della Germania, che sta solo approfittando delle mene statunitensi miranti a cavarsi d’impaccio per aver insistito, forse con non sufficiente abilità, sulla neostrategia del periodo obamiano. Ovviamente, il paese europeo più forte molla colpi agli altri partner della UE, ma solo perché agisce, almeno parzialmente, da Stato nazionale. Infatti, non ha partecipato all’aggressione della Libia né a quella della Siria. E la si smetta di citare le armi date da società tedesche ai ribelli in quest’ultimo paese; si tratta di “affari” e chi li può fare li fa. Non sono certo le armi a sostenere i ribelli siriani e a impedirne la piena sconfitta; si cerchi di capire cos’è oggi la politica internazionale delle potenze (quella ancora più forte e le altre che cercano di crescere facendo le “furbette” e nascondendo le mani pur esse assassine!).

Negativo è dunque il centro-destra; tanto quanto l’altro schieramento. Con simile personale ormai asservito non si va da nessuna parte, si diventa una sorta di Protettorato retto da quello che mi sento di considerare uno dei peggiori presdelarep, rieletto non certo per meriti propri. Gli Usa di Obama sono il principale affossatore del nostro paese; e la lotta per l’autonomia italiana non si combatte con poco pensate agitazioni contro la Ue e contro l’euro. Questi obiettivi possono essere al massimo transitori e tattici, utili a rafforzare la nostra strategica opposizione a chi ci vuole sempre docili strumenti delle loro operazioni. Eleggere la tattica (per di più di tipo solo economico-monetario) a strategia assomiglia tanto al comportamento di chi finge di combattere, ma si adegua invece alle mosse altrui, con scaramucce che distraggono la popolazione dai suoi reali interessi nazionali. E’ esigenza primaria criticare aspramente simili imbrogli da “Dulcamara”!