L’ESTREMISMO ODIERNO, DEMENZA SENILE DEL “COMPAGNISMO” Di Andrea Fais
Perché chiunque provi a fuoriuscire dalle logiche che contestualmente vanno per la maggiore, viene letteralmente messo sulla graticola? Perché la linea da seguire deve essere sempre quella più rumorosa e riecheggiata? Se così avessero fatto Lenin e Mao, ad esempio, si sarebbero ritrovati impantanati nella staticità miserevole del menscevismo e nel compromesso con la repubblica nazionalista del Kuomintang, avrebbero rinunciato a quelle che, inizialmente sembravano soltanto lontane e remote utopie, abbandonando la strategia che si erano prefissati.
Quando la massa ancora largamente informe prende il sopravvento sull’avanguardia, non subentra soltanto una logica della quantità assolutamente insulsa e priva di sostanzialità politica, ma si corre anche il pericolo di trovarsi sovrastati in modo clamoroso dagli eventi, e ritrovarsi trascinati da correnti ambigue, correnti pericolose. Così, il tiro al bersaglio contro chiunque non abbia appoggiato, almeno empaticamente e sentimentalmente, le violenze scatenate dai facinorosi lo scorso 14 dicembre, contro Berlusconi e contro la riforma Gelmini, è diventato una pratica comune.
Andare in piazza a gridare è comunque giustificato, e la minoranza rumorosa, in quanto tale, ha ragione a prescindere. Poco importa se molti degli studenti andati in piazza non conoscono nemmeno mezzo paragrafo della riforma Gelmini, poco importa se questa riforma è la naturale evoluzione (ed anzi, la naturale risistemazione) del percorso avviato dai ministri di centro-sinistra Berlinguer e Fioroni, finiti al governo anche grazie ai voti di chi oggi sbraita in strada, gridando al montante “fascismo berlusconiano”. Ciò che è importante è “essere presenti”, perché la lotta “paga”, per lo meno in televisione.
Le immagini infatti, sono state il veicolo che ha fatto di un caotico pomeriggio di guerriglia urbana, un evento di portata nazionale, così come qualche persona salita su un tetto, è diventata, quanto meno per una settimana, il martire della nazione devastata dal solito Silvio Berlusconi, il “mafioso”, il “nano”, il “massone” e così via. La televisione ha in mano un potere incommensurabile: quello di decidere in merito all’esistenza sociale, il potere della fenomenizzazione degli eventi sociali. Un evento importantissimo può facilmente diventare nullo e insignificante, nel momento in cui i media dell’informazione lo oscurano, mentre un evento di scarso rilievo, può diventare un fenomeno di grande rilevanza.
Così, i nostri novelli “rivoluzionari” si sono agghindati di ogni oggetto, compresi quelli contundenti, sicuri della montante fenomenizzazione mediatica, progettando un pomeriggio di caos, nel tentativo, magari pilotato, di condizionare il clima all’interno della Camera.
Lenin lo definiva una vera e propria malattia infantile, eppure l’estremismo ed il cosiddetto “attacco frontale”, ai giorni nostri, costituiscono qualcosa di diverso e ulteriore, divenendo la pratica consuetudinaria di ambienti selvaggi e retrivi, che nascondo nel loro aspetto apparentemente rivoluzionario, una carica reazionaria senza precedenti. Animati dal prelibatissimo tentativo di scalzare il “fascistissimo” governo nazionale, gli “eroi del 14 dicembre” hanno messo in scena un teatrino di ignobile teppismo, per effetto del quale gli unici danneggiati sono stati praticamente i piccoli negozianti e i proprietari delle berline che, sfortunatamente, si trovavano nei pressi del corteo. Il risultato ottenuto dai “rivoluzionari” è stato senza dubbio appagante: in mezza giornata sono infatti riusciti nell’ardimentosa impresa di schiacciare le proprie piattaforme in una condizione di assoluta minoranza all’interno del favore sociale di una popolazione che, ormai, dopo decenni di idiozie simili, percepisce queste frange politiche come pericolose, demenziali e parassitarie. Questo è chiaro.
Non è il grande capitale, non è Marchionne, non è Montezemolo, e non è Berlusconi a scandalizzarsi veramente o a indignarsi seriamente per questi personaggi. È la gente comune, quella che lavora in fabbrica, in ufficio, nei mercati rionali, quella che fatica a tenere in piedi una piccola attività commerciale, è la gente che LAVORA, a puntare anzitutto il dito contro questi “professionisti della guerriglia”, che da anni mostrano i loro volti inutili in televisione, passando alle cronache come gli “amici di Otpor”, “esproprianti delle playstation”, “vandali delle stazioni ferroviarie” e via così… Sono i figli di papà dei figli di papà che nel ’68 si inebriavano di spinelli e di euro-comunismo. Sono la feccia della società, il lumpenproletariat postfordiano dei nostri tempi, pronto a riversare le sue demenzialità e il suo isterico vittimismo nelle pagine dei giornali, nei servizi dei rotocalchi e nei comunicati stampa diffusi pubblicamente, appropriandosi della piazza ed esponendo al ridicolo anche la più giusta delle battaglie.
Dal momento che ogni strategia politica comincia allorquando si sia individuato il “nemico principale” (che sia di “classe”, di “nazione” o di “partito”), si presuppone che alla base di una scelta di campo autenticamente marxiana (o presunta tale) e di un preciso indirizzo vi siano analisi serie e strutturate della formazione sociale attuale e dei contestuali rapporti di produzione, di forza e di confronto, individuando chiaramente i meccanismi dell’attuale base economica e della sua relativa sovrastruttura. La loro idea di “nemico principale”, invece, non nasce da alcun tentativo dialettico, né da una compiuta osservazione della società, ma semplicemente da facili equazioni tautologiche, da sentenze indimostrate e dalla più superficiale delle letture della società.
Secondo queste sette del verbo rivoluzionario incarnato nel “barbone con la erre moscia” di turno, laddove esistano parametri quali “capitali”, “sviluppo” o “autorità”, vi è necessariamente capitalismo. È questa una lettura assolutamente estetica e, oserei dire, romantica del capitalismo, che mescola un grottesco decrescitismo arcadico e primitivo alle più ridicole mode ambientaliste, comunitariste e pseudo-proudhoniane, che negli States e in Inghilterra (non a caso) vanno tanto per la maggiore. Un’ideologia, appunto, che non ha nulla di scientifico: il capitale, infatti, è in sé neutrale, esattamente come l’autorità in sé, come la fabbrica, come i mezzi di produzione e come lo sviluppo delle forze che questi sprigionano così grandemente. Stiamo parlando non solo di termini dalla valenza politica essenzialmente neutrale, ma di forze sociali e fattori di produzione assolutamente essenziali all’interno del percorso di svolgimento progressivo, sebbene ricorsivo, della storia. Fu Stalin a centrare esattamente il punto e a ricordare che
“Vi furono un tempo dei «marxisti», nel nostro Paese, i quali asserivano che le ferrovie rimasteci dopo la Rivoluzione d'Ottobre erano ferrovie borghesi, che sarebbe stato sconveniente per noi marxisti utilizzarle, che avrebbero dovuto essere divelte e che occorreva costruire delle ferrovie nuove, «proletarie». Per questo essi furono sopr
annominati «trogloditi»”1
Questi sottoproletari odierni inneggiano, oggi, all’abbattimento dei sistemi economici, alla distruzione indiscriminata delle classi dirigenti europee e, persino all’abbattimento dell’Unione Europea in quanto istituzione, proprio oggi (e dopo averla per un decennio indicata come la miglior conquista ulivista) che la sua possibile cementificazione politica potrebbe finalmente aprire la strada ad un primo organismo internazionale europeo, dotato di una propria linea di indirizzo economica e geopolitica, parzialmente smarcato dall’egemonismo americano.
L’avvicinamento della Germania del Cancelliere Angela Merkel alla Russia del Primo Ministro Vladimir Putin, e il nuovo ruolo internazionale della Turchia di Erdogan – l’autentica svolta nelle relazioni internazionali lungo il 2010 – potrebbero provocare un terremoto all’interno della Nato, già a partire da quest’anno, e l’Unione Europea diventerebbe, seppure con tutti i difetti possibili, l’unico appiglio per la neutralizzazione dei pericoli costituiti dall’onnipresente speculazione finanziaria internazionale, i cui rapaci, tatticamente, sembrano già aver affittato nuove leve all’interno del solito becero attivismo politico estremista e movimentista. In Grecia, in Portogallo, in Spagna e in Irlanda, è presumibile che le frange estreme, tutte in qualche maniera accomunate da vecchi rancori contro Strasburgo, possano essere utilizzate in azioni di destabilizzazione dei locali governi, nel momento in cui, questi, dovessero scegliere lo scudo protettivo dell’Unione al fine di evitare un drammatico isolamento internazionale, magari persino accettando, come nel possibile caso di Lisbona, un aiuto dalla Cina. Come scriveva Lenin,
“Vi sono compromessi e compromessi. Si deve essere capaci di analizzare le circostanze e le condizioni concrete di ogni compromesso e di ogni specie di compromesso. Si deve imparare a distinguere l’uomo che ha dato denaro e armi ai banditi per ridurre il male che i banditi commettono e facilitarne l‘arresto e la fucilazione, dall’uomo che dà denaro e armi ai banditi per spartire con essi la refurtiva. Nella politica, questo non è sempre così facile come nel piccolo esempio che ho citato e che un bambino può comprendere. Ma chi volesse escogitare una ricetta per gli operai, che offrisse loro decisioni preparate in anticipo per tutti i casi della vita, o promettesse loro che nella politica del proletariato rivoluzionario non ci saranno mai difficoltà e situazioni complicate, sarebbe semplicemente un ciarlatano”2
E di ciarlatani, ne vediamo moltissimi. Sono proprio questi novelli “anarco-insurrezionalisti”, questi teorici dell’attacco frontale “in un momento in cui esso è solo causa di disfatte” (come ebbe a dire Gramsci in proposito di Leone Trotskij), non soltanto non concepiscono una disciplina ed un ordine cronologico nell’azione, ma deformano la realtà, individuando nemici che non esistono, quantomeno nei termini in cui, invece, sono soliti raffigurarli. Il sinistrismo (o ultra-sinistrismo) del tempo di Lenin e di Stalin, in realtà oggi nemmeno esiste più, ma permane nel fondo dell’azione di questi utili idioti, l’atteggiamento superficiale, generalista e utopico di chi non è più in grado di individuare nulla. E’ il nientismo, il trionfo del niente, ma non in quanto “nulla” nell’accezione filosofica del nichilismo, e nemmeno nel significato dialettico-hegeliano del “non essere”, cioè dell’antitesi, ma proprio il niente in quanto insieme vuoto.
Tanto che anche quando la loro arroganza diventa numericamente consistente, essa non origina una potenza, ma disperde ulteriormente la sua debolezza intrinseca, distribuendo miseria culturale e sociale in senso collettivo e indiscriminato. Il numero fa sicuramente la forza, ma soltanto quando esso è la risultante del rapporto tra la qualità e la quantità, e se la qualità è pari a zero, l’intero rapporto è altrettanto uguale a zero. Per questo resto sempre più convinto della bontà di una scelta ponderata, strategica e capace di schematizzare ogni situazione contestuale, senza mai perdere di vista la realtà, anzi, vivendola, toccandola e osservandola. Karl Marx, sapientemente annotava,
“Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare! Mentre altri architettano piani per sovvertire il mondo e giorno dopo giorno, sera dopo sera s’inebriano con l’oppio del ‘domani è la volta buona!’, noi ‘demonî’, ‘banditi’, ‘feccia dell’umanità’ cerchiamo di approfondire la nostra preparazione e di approntare armi e munizioni per le lotte future. La politica è studio. I libri sono strumenti di lavoro e non oggetti di lusso. Sono i miei schiavi e devono ubbidire alla mia volontà. La scienza non deve essere uno svago egoistico: coloro che hanno la fortuna di potersi dedicare a studi scientifici devono anche essere i primi a mettere le loro cognizioni al servizio dell’umanità: ‘Lavorare per il mondo’”3
I predicatori mascherati dell’anticapitalismo e della rivoluzione dovrebbero imparare anzitutto a conoscere il mondo, a carpirne i significati: e questo è possibile solo vivendoci dentro in maniera autentica, non dissociata o alienata, immaginando scenari che non esistono e, di conseguenza, sconvolgimenti che non avverranno. Il compromesso oggi non è neanche difficile o ostico da mandar giù, ma è tattica obbligata di una strategia precisa. La scelta di campo è facile da sostenere: attaccare frontalmente e indiscriminatamente tutto il fronte “reazionario” per aprire, de facto, la via alla speculazione internazionale, alla totale privatizzazione del nostro già malmesso e dissestato settore statale e al ripristino immediato della completa subordinazione al polo geopolitico principale dell’imperialismo, o cominciare a studiare la realtà sociale e politica, iniziando a costruire una seria e concreta alternativa credibile, dal basso di un’avanguardia di popolo, capace di sensibilizzare l’opinione pubblica, indirizzandola verso la giusta strada? Credo che, in presenza di onestà intellettuale e sociale, non possano esservi dubbi in merito.
[1]J. STALIN, Il marxismo e la linguistica, 1951
[1] V. LENIN, Estremismo, malattia infantile del comunismo, 1920
[1] K. MARX, cit. riferito da Paul Lafargue 1890 (rif.1865)