L’Europa d(e)i Draghi
Draghi è il principale artefice della libertà dei capitali di scorazzare tra l’America e l’Europa ed è il più solido pilastro di ogni politica americana in Europa oltre ad essere un fedele esecutore di ogni strategia Usa.
Draghi già nel 2009 come governatore della Banca d’Italia osservò che alcuni paesi emergenti avevano innalzato dazi commerciali o avviato azioni antidumpig. Da qui un duplice appello alla Amministrazione americana affinché resistesse alle richieste di protezione commerciale e ai leader europei affinché non desistessero dal “libero scambio” e suggerì che qualsiasi tendenza protezionistica dovesse essere fortemente scoraggiata. Un appello ripetuto all’infinito da Draghi, e da Vitor Constancio numero due del governatore, ha sottolineato (la scorsa primavera) che tariffe e protezionismo potrebbero essere tentati tutti i leader mondiali ma non quello di sfuggire alla “trappola della liquidità” e con ciò aggravare lo stato di salute dell’economia mondiale rendendo più complicata la battaglia anti deflazione di Draghi.
Come si può notare siamo in un completo “cul de sac”. Ci stiamo avviando ad attuare politiche del Qe (Quantive easing) con acquisti di debito degli stati europei con un notevole deficit di bilancio o alto rapporto debito/Pil che aumenteranno i tentativi da parte di Draghi di politiche da “ultima spiaggia” oltre le quali c’è soltanto il baratro. Se si pensa soltanto che la Bce con la sua politica di allargamento della liquidità in una misura spropositata (si parla di acquisti di bond oltre mille miliardi di euro) ha ridotto ai minimi termini (con valori talvolta negativi) il rendimento del risparmio.
Ma c’è ancora uno spettro che si aggira in Europa: l’aumento del costo del denaro dalla parte americana della Fed (Banca Centrale Usa). E’ noto che tutte le banche europee dipendono strettamente da essa in particolare la Bce. Da un suo starnuto viene dipende l’andamento di tutta l’economia mondiale e non solo europea. Da esso dipende il costo del debito pubblico e la possibilità delle banche di attrarre l’interesse degli investitori, per non parlare dell’andamento delle valute sul petrolio in stretta relazione con le decisioni prese a Washington.
Ma più di tutto conta voler dimostrare che la Fed ha il pieno controllo della situazione senza dover aspettare la ripresa di Europa e Giappone. Perciò non si aspetterà che il vecchio Continente realizzi le riforme prefissate (ad esempio il risanamento delle banche) e se deciderà di aumentare il costo del denaro, lo farà possibilmente ( forse) entro la fine dell’anno. Il motivo principale di questa frenata sul rialzo dei tassi va ricercata nella mancata ripresa degli Stati Uniti e di conseguenza dell’Europa ed in particolare dell’Italia con le sue ripetute “crescite” del Pil sempre al ribasso, fino al sottozero. E anche se ci fossero scossoni in Borsa per l’aumento dei tassi Usa, in Italia non si avrebbe alcun significativo segno di vita.
Una paura serpeggia tra gli investitori, la sensazione che il bazooka di Draghi stia diventando un’arma spuntata, che cioè non abbia più l’efficacia di prima con un evidente calo del tasso di rendimento per l’acquisto dei bond, sicuro prodromo del calo di rendimento dei titoli azionari. Tutti fattori che hanno indotto lo stesso Draghi a rimandare l’annuncio sul potenziamento ed il prolungamento degli stimoli derivati dalla massicce immissioni di Qe (Quantitative easing).