LIBANO/ HEZBOLLAH ED ALLEATI VINCONO NELLE URNE, MA NON IN PARLAMENTO
di F. Labonia (“Indipendenza”, luglio/agosto 2009)
Se si dovesse trarre una lettura sintetica dell’esito elettorale del 7 giugno scorso, ricalcando gli stereotipi massmediatici dominanti che vengono costantemente rilanciati quando si parla di Libano, il campo del “Bene” (cioè gli anti-siriani / anti-iraniani, i referenti/alleati “democratici” dell’Occidente) avrebbe vinto sul campo del “Male” (cioè i pro-siriani/pro-iraniani, che minano democrazia, pace e futuro). I primi esprimerebbero valori (democrazia e libertà) presuntivamente “occidentali” e sarebbero espressione della “società civile” libanese, i secondi veicolerebbero interessi stranieri, anti-nazionali, in ultima istanza anti-democratici ed oscurantisti. È necessario superare questo fuoco di sbarramento ideologico, queste fratture immaginarie, per comprendere, comunque poi la si voglia giudicare, una realtà ben diversa ed articolata.
Numeri dalle urne e sistema elettorale. Il flagello del comunitarismo
Al di là dei partiti che si sono presentati e di quelli che hanno ritenuto inutile farlo, stante un sistema elettorale blindato e molto discusso, ad aspirare ad avere i “numeri” per governare erano sostanzialmente due forze in campo, presentatesi in coalizioni. Da un lato la governativa “14 marzo”, il blocco filo-occidentale, formata dai sunniti del Movimento del futuro di Saad al-Hariri, dai drusi del Partito socialista progressista di Walid Joumblatt, dai cristiani delle Forze libanesi di Samir Geagea e dalla Falange di Amine Gemayel. Va ricordato che proprio Samir Geagea (condannato e poi perdonato) e la famiglia Gemayel furono tra i protagonisti della carneficina palestinese nel campo profughi di Sabra e Chatila (1982). Dall’altro quella dell’opposizione, la “8 marzo”, coalizione nazionale il cui nerbo principale sono i partiti sciiti, Hezbollah ed Amal, e il Movimento Patriottico Libero, guidato dal cristiano maronita ed ex capo di Stato maggiore, Michel Aoun –colui che tra il settembre 1988 e l’ottobre 1990 presiedette un governo ostile all’occupazione siriana, che lo costrinse a 15 anni di esilio in Francia da cui tornò proprio all’indomani del ritiro delle truppe di Damasco, nel maggio del 2005– alleatosi con Hezbollah tre anni fa. Un connubio che il prestigioso intellettuale libanese ed ex ministro delle Finanze (1988-2000) Georges Corm (il Riformista, 29 novembre 2007) considera un’ulteriore confutazione di quell’ideologia dello “scontro di civiltà” che Washington prova a scatenare per dominare, attraverso la frammentazione, il Medioriente. Si tratta infatti di «un accordo politico che vede i cristiani maroniti non più
schierati solo da una parte, il vecchio schema “cristiani contro musulmani”, ma divisi da idee diverse sul futuro del Libano, non più soltanto condizionate da schemi di tipo prettamente religioso». L’opposizione “8 marzo” comprende inoltre altre forze tra cui i movimenti sunniti di Salim Hoss e Omar Karameh (ex primi ministri libanesi), i drusi dell’ex ministro Talal Arslan, gli armeni-libanesi di Tashnag.
Il dato da cui partire, generalmente sottaciuto nei resoconti e nelle analisi dei “network” dominanti, è che la volontà espressa nelle urne è stata rovesciata nella distribuzione dei seggi e configurazione del parlamento e del governo che ne è conseguita. Il Libano ha scelto in maggioranza la resistenza, il fronte di forze guidato da Hezbollah, ma il numero più consistente di seggi è andato al blocco guidato dal plurimiliardario e filo-occidentale Hariri. I numeri parlano chiaro: la coalizione guidata da Hariri ottiene il 45.3%, aggiudicandosi 71 dei 128 seggi del Majlis al-Nuwwab (l’Assemblea Nazionale libanese), mentre l’opposizione guidata da Hezbollah, pur ottenendo il 54.7% dei voti (quasi il 10% in più), si ritrova solo 57 seggi (Hezbollah, peraltro, per non togliere spazio ai propri alleati, ha presentato solo 11 candidati, tutti eletti a schiacciante maggioranza).
Come è stato possibile questo esito? Semplice, in base alla legge elettorale. Le riforme elettorali in Italia dovrebbero mostrare come un modo “democratico” per manipolare il voto è quello di predisporre alchimie nella configurazione delle circoscrizioni e/o nelle modalità di assegnazione dei seggi. Per ragioni storiche il sistema elettorale libanese è improntato ad un “comunitarismo” da vero rompicapo. Per non andare troppo lontano, ci limitiamo ad accennare all’Accordo di Taif, l’intesa raggiunta il 22 ottobre 1989 dalle varie fazioni comunitariste e grandi famiglie libanesi che ridefiniva il potere politico nel Paese, dopo 15 anni di guerra civile (dal 1975). L’accordo da un lato esprime la necessità di fermare un conflitto che danneggiava tutte le parti in causa, dall’altro dimostra nella sostanza che senza una reale forza militare esterna (in quegli anni la Siria) i leader locali non sono in grado di superare i reciproci sospetti ed ottemperare agli impegni presi. Un’intesa che ribadiva il confessionalismo comunitarista (che a ben vedere riduce le comunità a strumento per l’egemonia politica –nella nazione– da parte di notabilati locali, a loro volta sotto tutela di grandi potenze esterne) come elemento cardine del sistema politico del Paese, elemento che secondo intellettuali libanesi come il succitato Georges Corm è stato il maggiore impedimento alla nascita di uno Stato realmente unitario, sovrano e padrone del proprio destino. «Il comunitarismo libanese è un prodotto della modernità ( … ) non una realtà permanente e fondativa ( … ). Il costituirsi delle comunità in istituzioni della vita pubblica e la loro politicizzazione sono il risultato della storia contemporanea del Libano, il frutto dei giochi e delle rivalità delle potenze europee e dell’Impero Ottomano», ha scritto sempre Corm (“Il Libano contemporaneo”, Jaca Book, 2006). Non a caso il fondamento comunitario è fortemente caldeggiato da
Francia e Stati Uniti, interessati a ‘pilotare’ assetti e direzione politica di questo paese mediorientale. Un meccanismo che si è rivelato sempre più poco conseguente anche seguendo questo criterio confessionale, stante che la popolazione è in larga parte musulmana (e di questa il 40% è sciita), mentre i cristiani costituiscono il 25% circa dell’intera popolazione. L’Accordo di Taif confermò, sulla falsariga della Costituzione del 1926, un assetto istituzionale, giuridico ed amministrativo avente come principio ordinatore il peso demografico e sociale dell’appartenenza religiosa. Un principio che nel 1936 la potenza coloniale francese provvide a istituzionalizzare ponendo la comunità religiosa a fondamento della vita pubblica. Da quel momento ogni libanese non può esistere legalmente se non appartiene ad una delle comunità identificate come «storiche». Nell’articolazione dei poteri, senza soffermarci sulle relative competenze, si ribadiva l’assegnazione della Presidenza della Repubblica ad un cristiano maronita, di quella del Consiglio dei Ministri ad un musulmano sunnita e di quella della Camera dei Deputati ad uno sciita. In Parlamento si sancì la suddivisione paritetica dei seggi del parlamento tra componente cristiana e musulmana, con 64 seggi ognuno, da suddividere ulteriormente –sempre entro numeri blindati– all’interno delle rispettive confessioni religiose. Rispetto al passato, gli accordi di Taif si sono limitati a riequilibrare i rapporti di forza tra le confessioni maggiori, facendo in modo che il numero di deputati musulmani fosse pari al numero di deputati cristiani, e aumentando i poteri e le prerogative del primo ministro a scapito del presidente della Repubblica.
Dei seggi della comunità cristiana, 34 sono appannaggio dei maroniti, 14 dei greco-ortodossi, otto dei cattolici, sei degli armeni e due di altre minoranze.
Dei seggi della comunità musulmana, 27 sono appannaggio degli sciiti, altrettanti dei sunniti, otto dei drusi e due degli alawiti.
C’è ora da prestare attenzione alla corrispondenza del numero dei deputati e degli elettori. Su un totale di 3.160.336 aventi diritto al voto, per i 128 seggi vengono eletti: 34 deputati cristiano maroniti per 690.368 elettori; 27 deputati sunniti per 851.670 elettori; 27 deputati sciiti per 840.308 elettori; 14 deputati cristiano ortodossi per 240.918 elettori; 8 deputati drusi per 178.712 elettori; 8 deputati cristiano cattolici per 152.052 elettori; 5 deputati armeno ortodossi per 88.589 elettori; 2 deputati alawiti per 26.503 elettori; 1 deputato armeno cattolico per 20.229 elettori; 1 deputato cattolico evangelico per 16.787 elettori; 1 deputato per i rimanenti 48.675 elettori di altre confessioni minoritarie. È evidente che un sistema elettorale così organizzato esaspera un senso di appartenenza confessionale a discapito di quello nazionale.
Interferenze esterne
L’importanza di queste elezioni si è riflessa nelle pesanti interferenze esterne. Ben
quattordici visite di responsabili statunitensi negli ultimi sei mesi, prima delle elezioni,
danno da pensare. A ridosso, i due pezzi da novanta dell’amministrazione Obama, il
segretario di Stato Clinton e il vice presidente Biden, sono stati chiari nell’avvertire, in conferenza stampa nel paese dei Cedri, quindi alla popolazione, che sarebbero stati tagliati gli aiuti al paese (condizionati comunque a riforme come la privatizzazione dei servizi pubblici), se avesse preso vita un esecutivo guidato da Hezbollah. A coordinare l’attività, l’ambasciatrice statunitense in Libano, Michel Sison, dedita alla pianificazione della campagna elettorale per la coalizione filo-occidentale di Saad Hariri. La stampa libanese parla di profluvi di denaro che Stati Uniti, Arabia Saudita ed Egitto avrebbero speso per indurre i cittadini a votare i propri referenti locali. Una delle voci di spesa ha riguardato il pagamento per decine di migliaia di persone con cittadinanza libanese, residenti all’estero, fatte rientrare per il voto. Il voto “straniero” nel Paese dei Cedri ha favorito la coalizione guidata da Hariri. Sulejman Franjieh, presidente del Libano dal 1970 al 1976, leader cristiano maronita libanese a capo del movimento Marada, facente parte dell’opposizione, ha duramente attaccato quegli Stati che hanno raccolto i dati sui libanesi emigrati all’estero per poi riportarli in patria a votare in forma organizzata. Stando a Franjieh, sono rientrati in Libano per le votazioni 50mila libanesi (secondo un comunicato del partito comunista libanese, 100mila sono stati i biglietti aerei messi a disposizione degli emigrati). «Nemmeno l’Arabia Saudita può finanziare tutto questo da sola», ha dichiarato. Nella sua circoscrizione Franjieh ha denunciato che la maggioranza parlamentare ha speso venti milioni di dollari solo nell’ultima settimana per organizzare i rientri e comprare i voti. Franjieh ha rilevato che gli attacchi si sono concentrati soprattutto sui cristiano maroniti ed hanno volto a favore dei filo-occidentali il destino di quei collegi elettorali il cui esito appariva piuttosto incerto o favorevole alla resistenza.
Hezbollah ha provato a vincere anche in queste condizioni ed ha mancato per un soffio. Il Movimento Patriottico Libero del generale Michel Aoun, quest’ultimo risultato il più votato rappresentante della comunità cristiana libanese, ha comunque preso il 52% del voto cristiano, anche se la configurazione dei distretti elettorali cristiani –decisa in passato dai grandi notabili maroniti in modo da favorire i propri feudi– ha dato la maggioranza dei seggi ai suoi rivali, in tal modo sottorappresentando quella parte consistente dell’elettorato cristiano alleato politicamente con Hezbollah ed Amal.
Hezbollah sul responso delle urne
«Accettiamo i risultati con spirito democratico, nonostante l’enorme quantità di soldi spesi [il riferimento è anche ai finanziamenti esterni ricevuti dalla coalizione filo-occidentale, ndr], l’istigazione interconfessionale e le interferenze straniere», ha dichiarato all’emittente televisiva al-Jazeera il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. «Ci congratuliamo», ha aggiunto, «con tutti i libanesi, di ogni affiliazione politica, e con i vincitori della maggioranza e dell’opposizione, con la magistratura, le forze armate libanesi e le forze di sicurezza che hanno garantito la pace e la sicurezza».
«La maggioranza parlamentare però è diversa dalla maggioranza popolare», ha osservato. L’accettazione di Hezbollah di una sconfitta elettorale inattesa riflette ancora una volta il sentire democratico e nazionale di questa organizzazione politica, il suo intendimento a non voler spaccare la società libanese su basi confessionali, la convinta assunzione della valenza nazionale nella lotta politica, oltre e contro ogni connotazione comunitaristica. Il consenso, accresciuto ben oltre la componente sciita libanese da cui è sorta, la vede da anni inserita pienamente nella politica nazionale, tanto da essere efficiente ed incisiva come forza sociale di governo, tanto quando è stata nell’esecutivo quanto quando ne è uscita. È questa consapevolezza che relativizza di molto questa sconfitta elettorale. E non solo.
Gli accordi di Doha
Per comprendere la situazione attuale, è necessario fare un passo indietro al maggio scorso, quando in Libano sembrò riaffacciarsi lo spettro della guerra civile. Anche allora i disordini e gli scontri originarono dall’intenzione del governo Siniora (filo-‘occidentale’) di varare due provvedimenti: la rimozione dal suo posto, per presunti legami con Hezbollah, del generale Wafiq Shuqeir, responsabile della sicurezza dell’aeroporto di Beirut e lo smantellamento –bollandola come «illegale e incostituzionale»– della rete telefonica parallela (arma difensiva fondamentale nel corso dell’attacco israeliano al Libano dell’estate 2006), creata e gestita da Hezbollah. Il detonatore, comunque, fu l’assassinio, da parte di cecchini, di manifestanti dell’opposizione scesi in piazza il 7 maggio per rivendicazioni legate al salario minimo. Nell’insieme, un tentativo di forza contro Hezbollah, la cui risposta fu fulminea. In meno di 24 ore occupò Beirut e si spinse sin nel nord del Libano, sia nei feudi del leader druso Walid Jumblatt (nel Chouf e sul Monte Libano), sia nell’area di Tripoli (feudo della famiglia Hariri). In poche ore le milizie di Hariri erano disarmate, chiusi il suo giornale («al-Mustaqbal») e la sua stazione televisiva (due emittenti tv in chiaro, un canale sat, un’emittente radiofonica), e posti agli arresti domiciliari sia lo stesso Saad al-Hariri che Walid Jumblatt. Assunto il pieno controllo politico/militare della situazione, all’esercito regolare, che si era mantenuto neutrale, Hezbollah consegnò i membri delle milizie catturati, sgomberò le zone occupate e mantenne per alcuni giorni posti di controllo presidiati da membri non armati del partito. Gli eventi rappresentarono una vittoria non piena ma importante per Hezbollah, alla luce degli accordi stipulati a Doha (Qatar) pochi giorni dopo, il 21 maggio. Secondo una delle proposte che circolavano prima che la situazione precipitasse, la distribuzione dei trenta seggi del gabinetto sarebbe così stata suddivisa: dieci all’attuale coalizione di governo, dieci all’opposizione e dieci nominati dal presidente. Con l’accordo di Doha i numeri cambiano: 16 seggi alla coalizione
vincente, 11 all’opposizione e solo tre al presidente. Ciò significa che l’opposizione gode del potere di veto su questioni fondamentali che necessitano della maggioranza dei due terzi. I tre seggi del generale Suleiman (che viene nominato presidente con il consenso di maggioranza ed opposizione sbloccando un’impasse durata mesi) non avrebbero costituito l’ago della bilancia in nessuna delle due situazioni. In cambio, Hezbollah concordò su un cambiamento del sistema elettorale. Per le legislative dello scorso giugno si decise, con emendamenti riguardo Beirut, l’adozione della legge elettorale del 1960, che prevedeva circoscrizioni più piccole –dai tremila ai centomila elettori– su basi confessionali (il che ha inciso sugli esiti finali). Tutti si impegnano poi a non usare armi per raggiungere obiettivi politici. Per Hezbollah è un passaggio importante perché l’accordo segna la rinuncia da parte delle forze del “14 marzo” della loro richiesta fondamentale del disarmo del “partito di Dio”. Il nuovo presidente è delegato ad occuparsi della questione, ma senza che sia fissata una scadenza precisa.
E ora?
Il nuovo esecutivo ora è guidato da Saad Hariri, figlio di Rafiq Hariri assassinato nel 2005, le origini della cui immensa ricchezza restano avvolte nel mistero. Una famiglia sunnita che dal 1990 controlla le leve della politica governativa e che è da sempre vicina alla casa reale saudita e agli Stati Uniti, oltre che in buoni rapporti con la Francia. Il padre ha strutturato un sistema di potere intorno ad un ristretto gruppo di affaristi e notabili in un circuito di arbitrii e corruttele. Gli scandali finanziari hanno contrassegnato la repubblica uscita dalla guerra civile (1975–1990), in un mix di speculazioni ed affarismo: lucro su opere pubbliche e costi di ricostruzione, concessioni pubbliche assegnate a discrezione, emissione a getto continuo di buoni del Tesoro, in numero superiore alle necessità dello Stato e con tassi altissimi, a beneficio delle clientele di riferimento da arricchire, speculazioni azionarie e valutarie, eccetera. Le politiche economiche avviate con il pretesto della corruzione (una rigorosa applicazione dei principi neoliberisti) hanno fatto del Libano il Paese più indebitato del mondo in rapporto al numero degli abitanti e all’estensione del territorio. Il tutto ovattato dalla connivenza di un sistema massmediatico gestito e controllato direttamente, in regime di monopolio. Un sistema, gradito a Tel Aviv e Washington, che si è riprodotto con Siniora e, prevedibilmente, con Hariri. In questo scenario come agirà una forza, come Hezbollah, antimperialista, con un programma sociale avanzato, molto radicato nella società, in grado di fornire servizi amministrativi, sociali, sanitari e previdenziali non solo agli sciiti, ma anche a cristiani, sunniti e drusi, in nome della valorizzazione del fondamento nazionale e contro le logiche divisorie di stampo comunitario che le grandi potenze hanno da sempre alimentato per spaccare il paese? I massimi dirigenti di Hezbollah sono stati molto chiari: la scelta strategica delle alleanze non è in discussione,
nonostante la sconfitta. Resta immutata la convinzione di costruire un altro Libano in cui, come ha detto Ali Doghmush, personalità emergente e responsabile esteri di Hezbollah, uno dei più stretti collaboratori di Nasrallah, «nessuna comunità libanese, piccola o grande, potrà e dovrà mai avere la supremazia sulle altre. Tutti dovremo convivere nel rispetto della diversità ( … ) Il nostro movimento crede in questo Libano, crede e rispetta le diversità che compongono la nostra società». Il che passa per una rivisitazione, che non sarà facile, del sistema elettorale, che con la divisione del paese in piccoli distretti è fatto apposta per garantire interessi locali e settarismo, nonché una messa in discussione del sistema comunitario come fattore dominante della vita politica. Oltre a questo due i punti fermi: Hezbollah ha diritto al veto in parlamento e alle sue armi per difendere il paese. Sul governo di unità nazionale lo stesso Ali Doghmush ha dichiarato: «Vogliamo dare il nostro contributo al governo del paese. Siamo per l’unità nazionale e prima delle elezioni avevamo annunciato che, in caso di una nostra vittoria, avremmo offerto agli sconfitti di far parte di una larga coalizione. In ogni caso l’ “8 marzo” rimane compatto, anche dopo la sconfitta. Con il generale Aoun il rapporto è solido, perché abbiamo un progetto comune importante per il bene del Libano». Sul diritto di veto all’opposizione su questioni di sicurezza nazionale e politica estera (come da accordi di Doha di un anno fa), per Hezbollah «il solo governo possibile è quello che assicurerà il diritto di veto all’opposizione. Se avessimo vinto noi le elezioni, non avremmo avuto alcun problema a garantire questo diritto all’altro schieramento». Sul disarmo di Hezbollah e della resistenza, che Nasrallah esclude, Doghmush dice: «si tratta di un punto centrale, che non può essere affrontato con superficialità. Riguarda la concezione di difesa del Libano di cui stanno discutendo le varie forze libanesi al tavolo del dialogo nazionale. Mentre se ne parla, si deve riconoscere che porzioni di territorio libanese, come Kfar Sbuba (Fattorie di Sheeba, ndr), rimangono sotto occupazione israeliana e che ogni giorno l’aviazione israeliana vìola lo spazio aereo nazionale. L’esercito libanese non è ancora in grado di difendere il Libano dalle minacce esterne e noi riteniamo di dover partecipare alla protezione del nostro paese. Allo stesso tempo deve essere chiaro che Hezbollah non intende usare le sue armi in eterno». E precisa: «metteremo via le armi quando lo Stato libanese sarà in grado di difendersi, di proteggere i suoi confini e di riavere i suoi territori occupati. Rinunceremo al nostro arsenale quando il mondo fornirà al Libano armi che possono aiutarlo concretamente a difendere il suo territorio. Non armamenti leggeri, come quelle date di recente dagli Stati Uniti, destinate unicamente per funzioni di repressione interna. Sino a quel momento le armi di Hezbollah continueranno a proteggere la sovranità del Libano».
Francesco Labonia