L’IMPORTANZA DELLA RAGIONE E I SUOI LIMITI

LAGRA21

 

Troppo spesso si trovano considerazioni sulla ragione (e razionalità) umana che mi lasciano assai più che perplesso. In certi casi, la ragione viene considerata meno del sentimento o della credenza in Verità ultraterrene; temi entrambi da non svalutare ma semplicemente da ricondurre al loro ambito di rilevanza. Credere in un mondo ultraterreno, pur essendo cosa che non mi appartiene, non è da me aborrito in nessuno modo. Lo posso anche apprezzare secondo certe modalità. Tuttavia, se si pone tale credenza al di sopra della ragione nella vita che conduciamo in questo mondo (non in un “altro” verso cui certe menti vogliono spingersi), allora prendo posizione contraria a simile atteggiamento foriero di atteggiamenti estremamente negativi con effetti disastrosi nella vita degli esseri umani stretti in società e viventi su QUESTA TERRA.
In definitiva, non pongo la ragione (o magari la razionalità che forse è termine un po’ meno tronfio) in una posizione di assoluta superiorità rispetto al sentimento o alla fede o all’intuito (altro elemento di notevole rilevanza). Penso semplicemente che appartengano ad ordini diversi ed esplichino funzioni differenti. Vedo spesso orgoglio di “primo della classe” sia in chi privilegia la ragione (razionalità), sia in chi privilegia la fede o il sentimento o l’intuito. A me sembra che siano attributi, tutti, specifici della specie umana (il nostro intuito non è proprio quello degli altri animali), ma situati in ambiti piuttosto differenti fra loro. E tutti mi sembrano ineliminabili, credo indispensabili, per il nostro atteggiarci di fronte alla “realtà”, cioè a quel mondo che viviamo come “esterno” e nel quale dobbiamo muoverci, cercando di farlo conseguendo, se possibile, una certa qual soddisfazione e contentezza; o quanto meno riducendo al minimo la nostra tristezza, amarezza, talvolta disperazione, ecc.
In questo brevissimo scritto lascio perdere la fede, il sentimento e l’intuito; del resto, non sono il più indicato a trattarli. Veniamo allora alla ragione (o razionalità). La valuto massimamente e tuttavia sono contrario ad assegnarle attributi tali che poi ci lascino assai spesso disillusi; e che inoltre rasentano a volte la ridicolaggine. Per un momento pensiamo a Voltaire che nel “Candide” prende in giro Pangloss (in definitiva Leibniz), sostenendo (in tal caso credo correttamente) che il mondo non è perfetto, non è il “migliore dei mondi possibili”; tuttavia, egli ne trae allora la conclusione che ognuno deve “coltivare bene il proprio orto”, con massima tolleranza verso gli “orti altrui” e giungendo comunque ad un mondo migliore (meno peggiore) tramite il buon uso della ragione. E’ più illuso Pangloss o Voltaire? O lo sono entrambi? Non voglio decidere, ma restare perplesso. Vediamo.
Mi permetto qui di pensare a Robinson (Crusoe). Egli è tipico prodotto della nuova società detta capitalistica, in altri contesti borghese; ma insomma è quella che avrebbe scoperto le “leggi di natura”, quelle che reggono il mondo e sono individuate tramite la razionalità pura. Utilizzando, appunto razionalmente, queste leggi si arriverebbe alla conclusione che per svolgere utilmente le nostre azioni dovremmo strettamente attenerci al principio del minimo sforzo o del massimo risultato. Non è certo il conseguimento della massima felicità, ma la ragione disvelerebbe come veramente “funziona il mondo” e dunque come anche noi dobbiamo agire per facilitarci il conseguimento di dati obiettivi. Qualcuno ha obiettato che non si può arrivare a scoprire perfettamente questo “funzionamento del mondo” tramite la ragione, perché molte delle “variabili” in gioco non possono essere conosciute; o comunque lo sono a giochi fatti, non quando si imposta l’azione razionale per conseguire il principio del minimo sforzo o massimo risultato. In definitiva, le leggi invece che deterministiche debbono diventare probabilistiche; sempre comunque seguendo il principio del minimo sforzo. La ragione non è certo sconfitta (smentita), ha solo delle “limitazioni”. Mi riferisco soprattutto a Herbert Simon (scuola cognitivista), che introdusse appunto il principio della “razionalità limitata”. Il principio guida è comunque sempre quello del “massimo risultato con un dato sforzo” o di un “dato risultato con il minimo sforzo” (nella produzione si tratta di quello definito costo).
Pensiamo allora al solito monito di coloro che, nell’agire umano secondo razionalità, parlano spesso della “Vittoria di Pirro”, che è divenuta appunto sinonimo di futura sconfitta se si eccede nell’impiego di mezzi per ottenere una momentanea vittoria. E’ una autentica sciocchezza. In certi casi, la conquista, tramite enorme dispendio di mezzi e vite umane, di una posizione sovrastante il campo di battaglia dove si affrontano eserciti nemici, può diventare decisiva per la vittoria (proprio quella definitiva) del proprio esercito. Nella lotta “contro” la natura (i suoi “segreti” da “scoprire”) o contro altri umani, è sovente necessario non seguire proprio per nulla il principio del minimo mezzo al fine di vincere. Occorre flessibilità, “ragionevolezza” (più che apodittica razionalità). Occorre la tattica e strategia delle mosse da compiere, che sono molte (un numero indefinito, non precisabile con nessun criterio “razionale a priori””) e prevedono pure, in certi casi, il perdere certe battaglie proprio per (tentare di) vincere la guerra; che magari viene persa egualmente, ma non certo per sola mancanza di applicazione dei canoni della ragione, quella che si suppone segua sempre il principio, appena sopra definito, del minimo mezzo o del massimo risultato.
Insomma, la ragione va ritenuta importante, ma lo è tanto più quanto più è consapevole di non illuminare una qualche presunta verità “contenuta indefettibilmente” nel mondo in cui svolgiamo le nostre azioni vitali. Non esiste questa verità. E basta che allora non venga fuori adesso un altro a dire: appunto, bisogna essere relativisti. Per carità! Non c’è alcuna verità né assoluta né relativa! Qualche volta, un generale vince una battaglia perché “intuisce” la situazione in cui si trova e coglie, quasi istintivamente, la mossa “giusta” (cioè vincente) da compiere. Benissimo, bravo, bis! Questo non va tuttavia confuso con la tattica e la strategia, sequenza di mosse da compiere in base ad una serie di ragionamenti, in grado di cogliere che…… non stiamo cogliendo una verità, solo una possibile configurazione del campo di battaglia, delle forze in campo, del mutevole andamento del corso degli eventi in svolgimento durante la lotta.
In definitiva, la ragione è importante, non è una “nobile decaduta”; ma non va assolutizzata. E’ la ragione e basta. Poi, certamente, nella nostra attività umana, ci sta anche l’intuizione, ci sta il sentimento, ci sta la fede, ecc. E ci sono quelli che mettono al primo posto quest’ultima o invece uno degli altri caratteri dell’essere umano. Nel secolo XVIII – con l’“Illuminismo”, fondamentale per la lotta della nuova classe dei (prima) mercanti, e poi soprattutto manifattori e industriali che premevano per il “nuovo mondo capitalistico” – si è portata alle stelle la Ragione anche perché dall’altra parte chi si opponeva a questo trapasso storico-sociale (nobiltà e clero) stava con la Fede. Nel XIX secolo, una parte importante dei pensatori (“borghesi”, diciamo così) ha anche peggiorato questa assolutizzazione della Ragione con il “positivismo”. Adesso però basta: questo nuovo mondo ha vinto, si è ampiamente trasformato in ulteriori “nuovi mondi” fino a quest’ultimo che un po’ di disprezzo e disgusto magari li induce.
Di conseguenza, la ragione torni ad occupare il posto che le spetta. E usiamo pure il termine di razionalità, ma magari dentro di noi traduciamolo spesso in semplice “ragionevolezza”. E ricordiamoci che il vero agire – per vincere le battaglie, comprese quelle relative alla conoscenza di fenomeni naturali o sociali – non si limita al minimo mezzo o massimo risultato. E’ più fondamentale: è la via “strategica”, la mutevolezza delle mosse e la valutazione, volta per volta, del risultato del proprio agire, che in tal caso non cerca affatto di minimizzare lo sforzo. Nemmeno pretende di ottenere il migliore risultato possibile (si pensi, come esempio, alla sciocchezza del “massimo profitto” come supremo fine del capitalista imprenditore). Bisogna invece prevalere nell’ambito di una lotta tra gruppi sociali nell’ambito di un determinato sistema di rapporti, che si trasforma nel corso di quella che definiamo “storia”. E nel rapporto tra noi e la cosiddetta “natura”, dobbiamo arrivare a capire quanto è possibile ottenere sulla base del nostro vivere (e trasformarci) in essa. E credo poco alla nostra pretesa di ripristinarla nel suo vero “essere”.
Ammetto di essere più favorevole al “divenire”, che dipende certo da com’è fatto il mondo in cui viviamo, ma che noi conosciamo con una ragione (o ragionevolezza?) “socialmente determinata”, cioè pur sempre dipendente dalle trasformazione dei rapporti tra individui e gruppi nel loro vivere in un rapporto reciproco (mai esente dal conflitto), che conduce a mutamenti di prospettive di indagine anche relativamente al mondo (Universo) in cui esistiamo. Questo Universo è senz’altro a noi esterno, ma è a mio avviso di una complessità insondabile nel suo assoluto “in sé”. Lo conosciamo sempre in base a quelle che ci appaiono le necessità più urgenti della nostra esistenza in quella determinata epoca dei rapporti sociali in “storica” trasformazione; e in trasformazione determinata dalla lotta (e dunque dalle strategie della stessa) tra gruppi diversi per prevalere. Certamente, l’Universo ha una sua “storia” sulla quale non possiamo incidere. E ci sforziamo di conoscere pure questa. Dubito che ci riusciremo in modo accettabile. E un giorno l’Umanità sarà abbastanza sorpresa dalle modalità della sua fine.
Termino qui perché non sono un filosofo; e mi dispiace tutto sommato di non esserlo. Però sono stato “determinato socialmente” in un certo modo; inutile pretendere qualcosa di diverso.