L’IRI: LA DISSOLUZIONE DI UN SISTEMA INDUSTRIALE
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Rileggendo un editoriale della storica rivista comunista “Critica Marxista” (n.1 del 1965) non si può non rimanere affascinati dalle dispute politiche del Pci nei confronti del piano di Programmazione economica dei governi di Centro-Sinistra, con motivazioni che oggi sembrerebbero da un altro pianeta; si contestava il ridotto incremento del Reddito Nazionale del 5%, di gran lunga inferiore a quello indicato dalla Confindustria (8%) per poter essere competitivi sui mercati internazionali ed essere in grado di svolgere una efficace redistribuzione sociale dei redditi. Intendiamoci, le sicumere di quel periodo dalla parte del Pci aveva motivazioni ben più robuste e profonde dello scatafascio ideologico e avventurista della sinistra dei giorni nostri.
La contestazione piciista nei confronti della Programmazione economica aveva un ordine di motivazioni storiche che messe in filigrana già richiamava un fase politica di là a venire e dagli sviluppi inusitati al seguito delle morti improvvise, di Togliatti e Mattei (’63-’64); l’inizio di una lenta e inesorabile limitazione di autonomia nazionale che andava fatalmente a concretizzarsi, nello scivolamento da quel crinale della storia che aveva fino allora accompagnato e tenuto in vita, in modo talvolta controverso, in una sostanziale equidistanza geopolitica (Usa-Urss), una industria nazionale in pieno sviluppo economico fin dagli anni ‘50. La data delle morti (’63-’64) non appare simbolica tanto è il segnale forte dell’inizio di quel mutamento, dapprima graduale nella sostituzione del Capitale Industriale con quello Finanziario, per il controllo ferreo di quest’ultimo facendo seguito al golpe giudiziario di “mani pulite” del 1992, che segnò uno spartiacque fondamentale, per l’apertura ad una seconda fase storica italiana ( ancora tutta da riscrivere) in derivazione di un predominio Usa su tutta l’area europea.
L’Iri (Istituto della Ricostruzione Industriale nato durante il regime fascista, nel 1932-33) rappresenta, in parallelo ai suindicati processi storici, il sistema industriale di quel grande sviluppo economico avvenuto nel primo periodo storico del secondo dopoguerra (1945-1964), ed a seguire un suo lento e graduale processo di estinzione, riflesso quest’ultimo, dei sommovimenti più profondi del capitalismo italiano, nella causa principale di una perdita di autonomia industriale; esattamente il contrario di tutto quello che poteva rappresentare, nelle ambizioni politiche dei suoi padri fondatori al momento della sua costituzione, nella nascita di una grande industria in grado di competere sui mercati internazionali.
Un linea di demarcazione storica ben precisa tende a suddividere un’IRI industriale da un’ IRI a prevalenza finanziaria, a partire grosso modo, dalla metà degli anni Sessanta come si può del resto evincere dalla lettura del libro di Carlo Troilo ,“1963-1982 – I Venti anni che sconvolsero l’Iri.” I padri fondatori dell’Iri, Beneduce, Menichella, Sinigaglia, Reiss Romoli, Mattioli, Rocca ( data di costituzione del ’32-33) avevano in comune, oltre la caratteristica del manager, quella del “patriota” ( quasi tutti ex-combattenti della prima guerra mondiale) che, oltre aver militato nei partiti popolari e socialisti, avevano acquisito un alto concetto dei ruoli istituzionali svolti all’interno dello Stato, come onore ad un servizio, che ricorda un po’ gli “Ordini dei Cavalieri” nei confronti dei proprietari feudali; tant’è che nei rapporti con Mussolini, non furono mai dei “baciapile,” a garanzia di una autonomia di gestione di sistema industriale, tanto funzionale al regime fascista, quanto necessaria al perseguimento degli obbiettivi strategici di una economia nazionale in crescita.
Prendo spunto dal testo suindicato, fitto di nomi ed avvenimenti, per contestualizzare quegli avvenimenti in una rilettura più estesa all’andamento strutturale del Capitalismo Italiano, non prima aver fatto, qualche breve cenno a quei “Grands Commis” unici ed iripetibili nella storia d’Italia. Per dare un’idea della caratura intellettuale di quei personaggi, basti pensare al significato diverso che assumevano le privatizzazioni degli anni ’30, con quelle più recenti dei primi anni Novanta, condotte dagli sbiaditi “agenti mandatari” di interessi d’oltre Atlantico, che rispondono ai nomi di Draghi e Prodi; negli anni ’30 gli smobilizzi delle aziende in crisi e controllate dall’Iri, venivano poste in vendita con l’intento di non vendere comunque, con la preoccupazione di scegliere i compratori in modo da assicurare il futuro delle aziende cedute e di non alterare così, gli equilibri esistenti a livello nazionale tra i vari gruppi industriali e finanziari. Ognuno di quei personaggi
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erano in grado di imprimere “un’aria nuova” sull’asfittica cultura economica di un paese agricolo, ed in totale controtendenza ai maggiori paesi industriali europei.
Il tandem, tra Beneduce Presidente dell’Iri e Menichella come Direttore Generale, guidò l’Iri durante l’intero periodo fascista, facendolo diventare in pochi anni (1937) un imponente complesso industriale, ed in proprietà dello Stato così grande (il più) in Europa, da paragonarlo per ampiezza, subito dopo l’Unione Sovietica. Beneduce si preoccupò di organizzare e gestire il privato con gli stessi criteri di efficienza adottati anche da parte del pubblico: il vanto dell’efficienza pubblica era rappresentato da una limitata dotazione di personale dell’Iri gestito in modo privatistico. Menichella divenne nel 1948 Governatore della Banca d’Italia fino al 1960, anno in cui la Lira ottenne l’oscar per la migliore valuta. Ebbe inoltre, il nomignolo di “governatore ombra” in quanto fu il principale protagonista della “Ricostruzione” industriale fino al boom degli anni Sessanta, e nella gestione dei fondi del “Piano Marshall” con il coraggio insolito, per gli incolti politici dei nostri giorni, di come potevano essere usati i finanziamenti per garantire e rafforzare una industria nazionale; a questo proposito, si ricorda un piccolo episodio del personaggio Menichella, sempre sottaciuto dalla nostra classe politica: “chiese ed ottenne che la sua pensione di Governatore, che riteneva troppo elevata, fosse ridotta del 50%; ” e così avvenne, in un silenzio politico tombale. Per non parlare di Raffaele Mattioli che da redattore della “Rivista bancaria“ sostituì ben presto, il “mitico” Toeplitz, amministratore delegato della prestigiosa Banca Commerciale Italiana (1933) e diresse per quasi quarant’anni assicurandone lo sviluppo sia in Italia che all’estero. La sua “creatura” principale per importanza, nei confronti dell’Iri ed in generale per tutto lo sviluppo industriale, fu la creazione del “salotto buono” di Mediobanca (1946) alla guida di Cuccia) specializzata in finanziamenti a breve termine, inizialmente posta sotto il controllo delle tre banche di interesse nazionale. Su questa impostazione, Mattioli può essere considerato il fondatore dell’Iri (assieme a Beneduce), con l’idea che un intervento dello Stato “ non debba avere ..una funzione ospedaliera..e che abbia lo scopo di pensare l’economia nel suo complesso, di fare i conti, di provvedere a quei servizi di base, tanto più estesi nel mondo moderno, che un privato non può normalmente accollarsi.”
Nei tortuosi corsi e ricorsi della storia ci si imbatte improvvisamente in “uomini di valore”, in grado di modificare il naturale corso (talvolta ineluttabile) della vita di ciascun paese; in specie, quegli uomini sopravvissuti alle guerre, forse perché dotati di una maggiore ‘ossatura morale’ e adusi perciò ad una più spiccata visione degli interessi nazionali, oltre a quella fondamentale di possedere grandi interessi culturali in un visione d’insieme dei problemi, non paragonabili certamente agli smidollati ed incolti politici nostrani. Nella storia italiana del secondo dopoguerra (del secolo scorso), si realizzò quel connubio, tra quei grandi personaggi, sopravvissuti a ben due guerre mondiali, e una classe politica democristiana della prima ora “a vocazione industriale,” che si (im)pose, sulla stessa lunghezza d’onda di intenti e di speranze dei padri fondatori; tant’è, che la “Ricostruzione” fu realizzata sotto il segno politico esclusivo e dominante dello “Scudo Crociato.”
I primi governi, del dopoguerra, furono “Centristi” con una netta maggioranza democristiana (in alleanza con qualche partito minore) e si assunsero l’immane compito storico della ricostruzione industriale, partendo dalle enormi strutture industriali sopravvissute al fascismo, insieme ad un personale burocratico dotato di una indubbia efficienza maturata dentro le consolidate e perfezionate organizzazioni, messe in opera durante il “Ventennio.” E su questa “Ricostruzione”, rimangono parecchi vuoti storici non ancora riempiti dalla storiografia ufficiale, aspetti politici scomodi che possono allungarsi come un’ombra su quei fatti ed avvenimenti, in forma di oblio storico durato fino ai giorni nostri, così da far risultare sconveniente ogni sua riesumazione; su questa lunga ombra si staglia la complessa e poliedrica la figura di Togliatti. Una non recente biografia su Enrico Mattei, scritta da Marcello Colitti (già consulente dell’Eni), ci descrive un avvenimento di quel periodo, definito “scandaloso;” parallelamente alla discussione sulla “Legge Truffa”(1953) (ed alle sue conseguenze in rivolte di piazza), Mattei coronava un suo successo personale: la legge istitutiva del 21/01/1953, che riuniva tutti i settori del petrolifero e dell’idrocarburo (Agip, Anic, Snam,..) in un unico Ente Nazionale dell’Eni (poi inglobato entro il Sistema delle Partecipazioni Statali dell’Iri), con l’approvazione e collaborazione tra la
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maggioranza democristiana e l’opposizione comunista guidata dall’allora segretario di partito, Togliatti. Mattei, con la nascita dell’Eni, riuscì così ad imprimere in essa la sua vocazione più profonda della difesa degli interessi nazionali, grazie e soltanto alla caparbia capacità personale, nell’essere ad uno tempo manager e politico, ed in grado perciò di mettere insieme, la disponibilità democristiana con quella comunista, per il tramite di Togliatti, avendo ben chiaro per entrambi, che una collocazione dell’Italia, entro una competizione internazionale, era possibile soltanto se si fosse realizzata una autonomia industriale.
Il primo periodo industriale dell’Iri fu rappresentato da un corposo piano di investimenti per i primi sette anni (1948-55) di 18 mila miliardi di lire; nel decennio successivo (1955-65) si raddoppiavano gli investimenti (39 mila miliardi) sulla base di una programmazione economica (“Nota Vanoni”) che aveva come obbiettivi la crescita dell’occupazione (4 milioni di posti di lavoro) e del reddito su uno schema di riferimento di crescita annuale del PIL del 5%, in pieno svolgimento a partire dalla ricostruzione; un piano che puntò sui settori più propulsivi per lo sviluppo (Siderugia, Autostrade, Meccanica, Telefonia, Finmare, Alitalia, Rai, … e Gruppi Bancari) ed in grado di garantire nel tempo una continuità alta dello sviluppo, non solo dalla quantità di investimenti immessi fin dal suo inizio, quanto e soprattutto, dalla capacità (politiche) decisionale in scelte selettive di investimenti in settori prioritari per lo sviluppo.
Come sopra indicato, il 1964 è stato l’inizio lento ma decisivo di un lungo e lento sommovimento di una inversione di tendenza del capitalismo italiano, durato l’intero dopoguerra (20 anni), con il primo segno del cambiamento nella morte del Presidente dell’Iri Senise: l’ultimo uomo simbolo dell’Iri industriale della scuola dei padri fondatori che aveva ancora nel suo orizzonte ideale, una industria italiana in grado di espandersi in piena autonomia. Quest’ultimo, venne sostituito da Petrilli ( con Silvio Golzio a Direttore generale), con il patrocinio dello stesso gruppo di potere interno alla Dc che aveva fin allora guidato lo sviluppo e con il tacito assenso dell’opposizione del Pci, fin ad allora abbastanza attento a tutto quello che si muoveva all’interno dell’Iri. Comincia così, con la morte di Senise l’inizio dell’emarginazione dei managers(tecnici)più validi perchè legati alla produzione, che fin ad allora avevano guidato con successo l’insieme dell’organizzazione. Molti “dirigenti storici,” caddero in “disgrazia” e vennero sostituiti dai manager presi dalle varie finanziarie dei vari settori. In questo ricambio, troviamo gli “abbandoni,” del grande economista di Pasquale Saraceno, di Fedele Cova (padre dell’Autostrada del Sole), di Carandini (Alitalia), Di Glisenti e di Mattioli (1970)… L’abbassamento complessivo della qualità del livello manageriale del gruppo Iri, che ne conseguì, fu notevole, non solo per la perdita dei capi storici (di quelli che hanno fatto l’Iri), quanto per la loro sostituzione con uomini che rappresentavano la politica nel senso più stretto e deteriore della spartizione partitica. Del resto, la classe politica democristiana aveva ormai esaurito il suo slancio vitale e pertanto si doveva rinnovare, superando, in modo più convinto il Centro-Sinistra, con l’obbiettivo finale di medio periodo, nel coinvolgimento del Pci. Si andava così già delineando il “Compromesso Storico” del Pci, in compartecipazione (partitica) ad una dilapidazione della Spesa Pubblica a sostegno di una struttura industriale in continua dissoluzione, dando luogo ad cambiamento profondo del Capitalismo italiano, riflesso quest’ultimo dell’insieme della nuova formazione economica sociale che si andava costituendo.
Rimane qualche vuoto storico da riempire su quella improvvisa inversione di tendenza del capitalismo italiano; quelle morti, comunque importanti, non garantiscono un’indagine più approfondita, sul lato oscuro dell’equidistanza comunista italiana (“La via nazionale al Socialismo”) posta tra le due potenze dominanti Usa e Urss, che avevano fino ad allora garantito la sopravvivenza, in una sorte di “equivoco storico,” l’ingombrante Pci; anche se la morte di Togliatti, rappresentò la fine di quell’equivoco, tenuto in vita surrettiziamente nell’essere alla guida del più grande partito comunista occidentale. La preoccupazione maggiore per le classi dominanti italiane era perciò di superare quella fase storica, il più velocemente possibile, per lasciare indenne una intera classe politica uscita dalla resistenza e che perciò soltanto la comunanza ideologica dell’antifascismo era in grado di garantire una “rinnovata” fase storica.
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L’altra morte, di Mattei, fu l’occasione ‘aggiuntiva’, sempre cercata (e riuscita) dalle frazioni dominanti Usa (vedi le Multinazionali del petrolio: “Le sette Sorelle), in accordo ai sub-dominanti nostrani, per una loro più incidente penetrazione. Si concretizzò così il processo del cambiamento del Capitalismo italiano: da sub-dominante decisamente autonomo, ad un malinconico e declinante asservimento dell’Iri che cominciò a diventare il “recettore finanziario”, per un cambio di pelle a tutto il sistema industriale. L’inizio di quel passaggio storico fece seguito ad un fuoco ideologico, che si protrasse per tutto il periodo successivo e che aveva come oggetto del contendere, se l’Iri dovesse essere continuare uno sviluppo, come “Gruppo Polisettoriale Integrato” (Polivalente) oppure, come “Monovalente;” una contesa dietro cui si nascondeva un cambiamento di tutto un sistema industriale, con una volontà politica per un suo smembramento; e su quest’ultimo, la monovalenza doveva rappresentare una continuità industriale, sotto un maggior controllo finanziario (una capogruppo finanziaria che tenesse sotto controllo ciascun settore industriale). In pratica da un efficiente sistema industriale volto ad una produzione competitiva, ad un suo smembramento per settori, senza che quest’ultimi, singolarmente, fossero garantiti da alcun retroterra strategico organizzato a sistema produttivo.
Ma dietro a tutto questo, c’è dell’altro. La penetrazione del Capitale Finanziario Usa doveva avere un terreno industriale italiano sgombro, per una competizione più libera ad un predominio, reso possibile dalla dissoluzione dell’Iri, ultima componente industriale organizzato a sistema e con ciò far allignare su un simulacro (industriale), l’alibi ideologico della compartecipazione partitica della Impresa Pubblica. Non si contano gli scandali (Crociani, Sindona..) sempre ricomposti dalla Dc insieme agli interessi compartecipativi del Pci, per la “tendenza del sindacato a diventare interlocutore primario delle aziende pubbliche nella scelta e nella localizzazione degli investimenti”( fin dall’autunno caldo del ’69). E su quest’ultimo aspetto si poté approfondire sempre di più il divario, tra i dipendenti pubblici (garantiti) e i dipendenti privati insieme al “Popolo delle Partite Iva” (dagli anni’ 80 in poi), attraverso cui si andò delineando la GrandeFinanza-Industria-Decotta-Assistita in grado di gestire, interloquendo con un sindacato, ormai parte integrante della struttura statalista, e una parte di essa (Cgil) ancora in osservanza berlingueriana, nell’idea che con la Spesa Pubblica si potessero costruire “Isole di Socialismo.” In pratica si prolungò l’agonia dell’Iri, spolpata via, via, dai famelici partiti e sindacati fino a “mani pulite” (’92), dove si decretò la sua fine, in un convegno economico su un panfilo in crociera (“Il Britannia”), tra il Direttore del Tesoro, Draghi e l’ultimo Presidente dell’Iri, Prodi, con la vendita a prezzi stracciati di intere strutture industriali e bancarie.
G.D. dicembre ‘08
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