L’ITALIA CHE AFFONDA
L’Italia, povera ancella di giorni meno servili, perde peso mondiale, appeal geopolitico, capacità industriale e finanziaria perché, da qualche decennio, non ha più un Governo degno di essere nominato. Prodi o Berlusconi, Berlusconi o Prodi, compresi i caroselli tecnici per distrarre la pubblica opinione dalla miserabile ed artificiosa riottosità dei partiti, il risultato è sempre lo stesso: decadenza politica, depauperamento economico, privazione d’identità, scollamento territoriale ed indebolimento progressivo di uno Stato che ha smarrito indipendenza e forza propulsiva dei suoi apparati, giunti ad un grado estremo di senescenza. La disfunzionalità della cosa pubblica, a tutti i livelli, è la conseguenza della evanescenza della politica e del decadimento sociale, non delle ruberie e delle malversazioni di cui parlano ossessivamente i giornali. Lasciando stare qualche breve sussulto delle giornate d’oro di B., allorché sull’asse Roma-Mosca si sviluppavano intese ed accordi sui gasdotti e nasceva un comune modo di intendere le relazioni internazionali ad Est e nel Mediterraneo, con il coinvolgimento di altre capitali non allineate alla Nato, da quando è sorta l’UE ed è stato introdotto l’euro il nostro futuro delegato all’estero si è sbriciolato. Pressati dalle velleità monocentriche statunitensi, ormai insostenibili storicamente eppure ancora persuadenti militarmente, e irretiti dalle irrealistiche visioni egocentriche di Germania e Francia, noi italiani ci abbiamo rimesso tutto: affari, investimenti e libertà di movimento. Non siamo più i partner privilegiati di Washinton, sebbene la nostra posizione strategica continentale ci lascerebbe ancora margini di contrattazione autonoma (ma, del resto, perché coinvolgerci in un processo deliberativo che agisce sui nostri assetti dispositivi con automatismi istantanei?) e siamo trattati dai membri fondatori dell’Unione come un Paese di secondo piano, nonostante circuizioni e discorsi accattivanti su integrazione e condivisione delle decisioni. I nostri problemi hanno soprattutto natura esterna, in una fase in cui la politica estera è la politica tout court. L’unica maniera per fissare gli equilibri interni è, pertanto, quella di ridare alle nostre istituzioni una proiezione globale e regionale, fondando nuove alleanze per inaugurare opportunità di profitto e di crescita, battendo strade non ancora percorse alla ricerca di una migliore collocazione sul palcoscenico mondiale, capitalizzando penetrazione geopolitica per contrastare tendenze disgregative e svendite di sovranità. Purtroppo però anziché concentrarci sulle cause di tale alterazione epocale trasferiamo competenze e prerogative, di cui dovremmo essere gelosi, ai nostri nemici e concorrenti, affidiamo il nostro destino in outsourcing alle borse che ci restituiscono temporali e cataclismi e ci inquietiamo per le valutazioni delle agenzie di rating, dietro le quali opera il pugno di ferro della potenza statunitense. Ci deprimiamo o ci consoliamo per i giudizi parziali degli organismi sovranazionali, ci imbuchiamo ai loro banchetti, li allisciamo per essere invitati ai loro meeting dove restiamo in disparte e solitari nell’indifferenza generale, dimostrando così di non aver alcuna personalità e convinzione nei propri mezzi. Smarriamo status e obiettivi sulla scacchiera planetaria e scivoliamo verso un penoso stato d’impotenza. Se la cornice degli interventi “salvaitalia” resta quella di un’ acritica adesione alle prescrizioni del mercato, sulla quale i professori sono gli unici autorizzati a dare voti, chiedendo voti d’austerità alla popolazione per pareggiare i conti di bilancio spareggiando quelli con la Storia, allora il quadro avrà sempre tinte fosche. Politicamente muti, storicamente inabili ed economicamente depressi siamo costretti a vegetare in un periodo in cui gli eventi ribollono e tutti accorrono al capezzale dei tempi conclusi per reinterpretarne l’eredità alla luce dei propri bisogni correnti. Spauriti ed immobili, noialtri invece diventiamo anticaglia, passiamo di moda all’istante ma pretendiamo ugualmente di dire la nostra perché una volta era così. Gli indiani, tanto per dirne una, lo sanno benissimo e ci ridicolizzano quanto più alziamo la voce dopo i fatti di qualche settimana fa che hanno coinvolto nostri militari imbarcati a protezione di un mercantile ed accusati di aver sparato a pescatori inermi. A prescindere dall’accaduto in sè, ancora poco chiaro e difficilmente accoglibile nella versione ufficiale del “turbante”, l’evoluzione della vicenda, compreso il teatrino dei rimbrotti tardivi della nostra diplomazia, ci dimostra quanto valiamo. D’altro canto perché l’India, definita da Marx nell’ottocento un’Italia di dimensioni asiatiche e diventata nel frattempo una grande potenza emergente, dovrebbe cedere ad uno Stato di dimensioni ridotte in immersione geopolitica permanente? Aspettano che siano i nostri padroni a mediare per noi e a portarci ancora più in basso nella classifica dei Paesi importanti. Si può avere l’orgoglio ferito per due marò (ingiustamente arrestati) ed essere al contempo immuni alle continue umiliazioni di secoli di storia patria?