L'Italia e l'euro plus ultra (di Giuseppe G.)

 La vicenda della Libia, tra i tanti aspetti emblematici, ha rivelato che il motivo di tanta fibrillazione tra gli stati europei consiste, con la parziale eccezione della Germania, sostanzialmente nella irrefrenabile aspirazione di conseguire il ruolo di primo stato ancillare della potenza anglo-americana, anzi americano-britannica, giusto per dare priorità alle gerarchie piuttosto che alle cacofonie; un obbiettivo da realizzare a costo e mediante il sacrificio di una sia pur minima politica autonoma e rispettosa del principio basilare del rispetto della sovranità degli stati; un raptus distruttivo.

Sta anche rivelando che alle evidenti divisioni presenti nell'amministrazione americana corrisponde esattamente l'implosione della Comunità Europea, anche nelle sue apparenze istituzionali.

Un'ulteriore indizio della natura prevalentemente tropistica di questo assembramento.

Vedremo l'evolversi della situazione e, en passant, il tipo di ricatti e di “moral suasion” che i nostri “migliori alleati” sapranno fare con la gestione delle informazioni offerte dal capo dei servizi libici, recentemente assoldato.

In un apparato statale e istituzionale sbrindellato e feudalizzato come quello italiano, l'azione potrebbe essere particolarmente efficace, visto che tra gli attori politici ormai navigano stabilmente anche gli arbitri giudicanti e sentenzianti.

L'Italia dovrebbe essere il terreno di osservazione privilegiato delle conseguenze di un altro atto politico meno appariscente ma ancora più decisivo nel determinare le future gerarchie nella Comunità Europea e la composizione dei blocchi sociali all'interno delle formazioni: il patto “euro plus” varato dal Consiglio Europeo del 25 marzo il quale, non ostante le rassicurazioni, ha accolto minimamente i parametri aggiuntivi, proposti da Tremonti, da utilizzare per la valutazione del debito pubblico. A corollario dell'argomento principale tre notizie, per altro, non inedite e esclusive:

Dal blog di Marcello Foa, la costante e massiccia erosione del livello del risparmio delle famiglie italiane, ancora attivo ma ormai inferiore a quello francese. Una fonte fondamentale di risorse del sistema bancario e di finanziamento del debito pubblico, anche se, ormai, una quota importante va a finire in prodotti destinati a finanziare capitali esteri; comunque, una garanzia di relativa autonomia del debito pubblico dalle turbolenze esterne e di possibilità di finanziamento delle attività produttive

 Dal sussidiario.net, apprendiamo che sarebbe in procinto una declassazione, da parte delle agenzie di rating americane, di alcune grandi aziende, di una banca, immaginiamo quali e del debito pubblico italiani. Su quest'ultimo influirebbe la situazione politica interna e il comportamento ondivago del Governo Italiano nella vicenda libica che destabilizzerebbe la posizione del paese all'estero. Pare evidente l'assimilazione dichiarata della collocazione mondiale a quella atlantica. La maschera della globalizzazione cooperativa sta cedendo il passo, impercettibilmente, alla realpolitik delle zone di influenza da estendere, possibilmente all'intero globo così come quella della neutralità delle leggi economiche all'uso politico dell'arma economica e finanziaria.

 Dai vari giornali apprendiamo della campagna acquisti, più o meno riuscita ad opera di aziende estere, di famose griffes, di Parmalat, Edison e, udite!udite!, Generali. Truppe fedeli allo straniero, con pochi soldi e blasone nazionale , disposte a coprire l'avanzata non mancano. Tanto clamore nasconde, in realtà, un processo avviato negli anni '90 con la liquidazione della grande industria, proseguito con la cessione di importanti aziende private per convertire capitale da investire in rendite (vedi società autostrade e Telecom) sino alla compartecipazione di società straniere nella gestione di servizi pubblici locali e nazionali, logistica e energia.

Sino ad ora, una parte di questi ingressi è consistito nel controllo parziale teso a spremere i più alti profitti possibili a scapito anche degli investimenti (vedi ancora Telecom, aziende locali di servizio, in parte ENI), una sorta di compromesso, proprio di una formazione debole ma con un minimo di sovranità, teso a mantenere l'opzione del controllo in cambio della concessione di lauti profitti agli investitori esteri; adesso si corre il rischio di una cessione integrale del controllo, scatenando la reazione, vedremo se demagogica e fuorviante, di tutela della aziende nazionali di Tremonti nel pressoché totale silenzio del PD, le cui posizioni meriteranno una attenzione a parte.

 In questo quadro, per altro non esaustivo, si inserisce la decisione europea di rimpolpare il fondo di salvataggio per la concessione di prestiti agevolati agli stati. Non si parla di alcuna misura tesa a limitare la mobilità dei capitali speculativi; la BCE, tra i vari parametri, utilizza gli indici delle agenzie di rating americane per decidere oneri ed entità dei prestiti agli stati.

A questo, soprattutto, si aggiunge il piano di rientro drastico del deficit e dello stock di debito.

Due misure che contribuiranno a salvare i sistemi bancari tedesco e francese i quali, soprattutto il francese, si ostinano a negare il peso dei titoli spazzatura nel loro portafogli e sono particolarmente esposti verso altri stati europei.

 Dall'altra creerà una rigida e consolidata gerarchia tra i paesi sempre che il sistema non imploda con l'euro, come da tempo ventilato da Jacques Sapir.

Ormai le possibilità di fuga sono inesistenti e già, da parte di Tremonti, si traccia la strada dei tagli, delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Apparentemente il contrario di quanto dichiarato e citato in precedenza dal nostro.

Sino ad ora si è proceduto, tranne parzialmente per la scuola e per i servizi decentrati ai comuni, a salomonici tagli lineari che hanno mantenuto inalterati i criteri di spesa.

Non basterà più; si dovrà scegliere il dosaggio dei tagli imponenti tra la struttura amministrativa, i servizi e gli investimenti; una ripartizione approssimativa giacché anche nelle ultime due allignano logiche di ipertrofia burocratica piuttosto che di erogazione nonché, nell'ultima, una politica di erogazione di incentivi dispersiva e, spesso, demenziale come quella sulle energie alternative. Un tipico esempio di questo ibrido è la struttura amministrativa delle ASL cresciuta con l'introduzione dei ticket.

La struttura amministrativa dovrà necessariamente essere intaccata; l'entità dipenderà dalla mole degli interventi negli altri due ambiti. Si esclude, comunque, la possibilità di agire su una riorganizzazione, i cosiddetti piani industriali, dell'operatività, visti i tempi lunghi necessari; se ne accenna, per altro, da oltre vent'anni. In mancanza, si arriverà a tagliare i servizi e gli incentivi. Se poi si dovesse arrivare alla necessità di un in
tervento diretto dello stato nel salvataggio e nella ricostituzione di una impresa pubblica, specie se l'attacco al sistema bancario dovesse riuscire, allora la situazione sarebbe drammatica. Si tratterebbe della condizione di milioni di cittadini e dipendenti, nonché del futuro di tutte quelle categorie che vivono e lucrano con le collaborazioni e le concessioni.

Le dichiarazioni apparentemente contraddittorie di Tremonti lasciano presagire un incancrenimento della situazione dal lato della spesa con una sorta di scambio tra una liberalizzazione e privatizzazione di servizi fondamentali, di fatto a società soprattutto estere, in cambio di una tutela di aziende glamour, ma meno importanti dal punto di vista strategico.

Una realtà così drammatica e potenzialmente conflittuale richiederebbe un blocco sociale e un ceto politico compatti che colgano l'occasione per colpire e scompaginare gli strati parassitari e riorganizzare la spesa orientandone una parte significativa nell'investimento diretto in settori strategici; richiederebbe, altresì, un sindacato capace di gestire le conseguenze della riorganizzazione, attenuare e redistribuire tra gli strati soggetti agli interventi gli oneri per non creare ulteriori sacche di emarginazione cronica e salvaguardare il futuro dei settori produttivi.

Né l'una, né l'altra delle condizioni appaiono attualmente possibili, a meno di qualche sussulto che l'atteggiamento dell'opinione sulla Libia e qualche altro indizio lasciano intravedere.

Il risultato sarà, altrimenti, la conflittualità caotica e un inasprimento del carico fiscale ineguale sui ceti produttivi che costringerà all'estensione del sommerso, all'ulteriore declino e al degrado senza speranza.

Sarebbe l'occasione per la formazione di un nuovo blocco sociale entro cui vasti strati di dipendenti potrebbero assumere un ruolo dignitoso ed il restante mantenere una speranza di riconversione. Ma anche da parte sindacale, specie la più radicale, quella che ha compreso la posta in gioco, la reazione e i proclami riconducono ancora a un riflesso condizionato teso a comprendere tutti nel calderone degli sfruttati per tentare di lasciare tutto immutato. Un buon viatico alla strumentalizzazione delle lotte e alla sterilità di iniziative rituali nobilitate dal radicalismo parolaio.

Ormai conservare non sarà più possibile e nemmeno auspicabile.