Lo statalismo a due facce

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(30 maggio)
Qualche settimana fa, Corriere (Rcs) e Bocconi hanno organizzato un convegno (di vera retroguardia) per inneggiare ancora una volta al liberismo e sostenere che però è di sinistra. Ovviamente, fra i maggiorenti che hanno partecipato alla “kermesse héroïque” si sono notati “in prima fila” personaggi alla Giavazzi e Monti. Lo squallore della riunione è stato colto persino da liberisti smaccati come quelli di “Liberomercato” (e non si dia la facile interpretazione che hanno emesso un simile giudizio solo perché sono di destra). Qualcuno sostiene persino che parlare di liberismo di sinistra è un ossimoro. Una considerazione di grande superficialità. La sinistra odierna non è nemmeno più la vecchia socialdemocrazia – già una congrega di arruffoni e ipocriti sostenitori del “pubblico interesse” – bensì, nella sua parte maggioritaria, un’accozzaglia di gente appartenente a un ceto medio semicolto, con buona (non ottima) preparazione specialistica e profondamente ignorante in fatto di storia, politica, studio della società condotto con l’apertura mentale dello scienziato e non dell’“ideologo della tecnica”, fra l’altro banalone e con in testa un’infinità di luoghi comuni.
La sinistra – dalla Bindi e Letta (Enrico) a D’Alema e Bersani, passando per Veltroni e Franceschini – è una forza politica legata a filo doppio alla GFeID (grande finanza e industria decotta), cioè all’establishment italiano che – non per semplice servilismo ma per interessi propri, legati al saccheggio del paese – si fa promotore della vera e sostanziale dipendenza dagli Usa (non meno di un Berlusconi e di quel tipo di destra). Tale sinistra è perciò liberista al 100%. Essa attacca, ad esempio, Tremonti perché sarebbe “colbertista”; il che significa, più terra terra, un tizio favorevole ad un interventismo statale ove ciò occorra (“quando ce vuo’, ce vuo’”). Questo liberismo è il peggiore che esista, è quello favorevole al “libero mercato globale”, dove gli Usa prevalgono; e non semplicemente perché sono attualmente più avanti in tutti i settori di punta (delle nuove ondate innovative), ma perché restano in vantaggio impiegando, con il pieno benestare di questi liberisti, la loro ancora nettamente superiore forza militare. Oltre, naturalmente, all’uso di quell’arma che è la “democrazia liberale”, da esportare con la forza, di cui parleremo in altra occasione. Il liberismo in questione è ancora ben lungi dall’essere battuto (lo potrà solo quando inizierà una più sostanziale fase policentrica), ma non è il solo a favorire la sudditanza agli Usa
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Ci interessano qui i cosiddetti statalisti; o, per usare un termine più “carezzevole”, i fautori del “pubblico” (sottinteso: al posto del “privato”, che si tenta di identificare con il liberismo). E’ su questo punto che esistono, soprattutto in Italia (ma anche in altri paesi europei), “ciurme” di piccola stazza, ma urlanti come colonie di bertucce, che si autodefiniscono sinistra “radicale”; e al cui interno sono ancora presenti melanconici residui che si pretendono comunisti. La degenerazione degli ultimi 20-30 anni (promossa da gruppetti che hanno giocato alla rivoluzione nel ’68 e ’77, guidati da una intellettualità torbida, in buona parte ambiziosa e smaniosa di sostituirsi ai suoi più solidi predecessori) ha talmente devastato il campo, che è andato ormai perso l’unico vero avanzamento che avesse compiuto il marxismo negli anni ’60 e ’70 con la corrente althusseriana. Dal punto di vista filosofico siamo tornati all’Uomo (che è come il Cavallo, il Cane, il Gatto, ecc.), ma di questo ce ne possiamo pure “sbattere”; si tratta di zanzare fastidiose, non di veri guastatori.
Il grave sta invece nel lato economico e sociale della questione. Prima della svolta althusseriana, esisteva il marxismo degradato in fondamentale lassallismo, il marxismo che pensava il socialismo quale proprietà statale dei mezzi di produzione e pianificazione centrale. Nel PCI (a differenza ad esempio che in Francia), proprio l’influsso degli ipocriti “umanisti”, piagnoni e con in bocca continui “afflati sociali”, aveva già provocato un ammorbidimento “socialriformista” (per dirla come allora) delle posizioni stataliste e pianificatrici hard, andando così incontro alle tesi di quelli che, con termine “alla buona”, indicherò quali “keynesiani sociali”. La pianificazione centrale diventava
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“programmazione democratica” e, successivamente, semplice “Stato sociale”: di fatto sistema pensionistico e sanitario per tutti (anche per i ricconi sfondati).
Dopo il crollo del “socialismo reale”, quelli che erano stati piciisti (non invece comunisti come pretendevano) si riciclarono con rapido opportunismo e si limitarono soltanto alla difesa (minima) di questo Stato sociale, accettando però la “privatizzazione” di quasi tutto l’apparato economico (in particolare industriale) in mano allo Stato. I “duri e puri” – qualcuno si pensava perfino leninista, mentre erano tutti togliattiani, berlingueriani, o ancor peggio – si intestardirono nell’identificare il “pubblico” con il “socialismo” (o almeno nel considerare il primo quale premessa del secondo). Per dare un’anima “demo-popolare” a questo “pubblico” – poiché qualcuno si è magari ricordato della rigida e inefficiente centralizzazione statale sussistente nel “socialismo reale”, che non ha certo elevato il tenore di vita della popolazione – ci si è rivolti a quei detriti e macerie sociali che, sia pure in misura piuttosto marginale, si formano in ogni paese a buon livello di sviluppo; questi detriti sono stati chiamati Movimento (magari dei Movimenti). Così, con grande eclettismo e disinvoltura, si è passati dalla Classe (operaia) a questo nuovo presunto soggetto rivoluzionario.
Si è creato insomma un grande guazzabuglio di mistificazioni ideologiche, propalate da ingrigiti sessantottardi e settantasettini, che hanno sepolto la realtà sotto pure e semplici invenzioni, accettate però da chi in esse trova un minimo di alimento per sistemarsi in piccole e servili posizioni dotate di qualche confort. Il “comunismo” si è quindi trasformato in una battaglia di retroguardia a favore di tutto ciò che è “pubblico”, pur quando rappresenti solo un’enorme emorragia di soldi spesi dallo Stato dopo averli intascati dai “cittadini”; il “pubblico”, difeso strenuamente dagli assalti liberisti, è infatti semplicemente quello che serve a mantenere piccole schiere di privilegiati (rispetto ai lavoratori veri e propri). La democrazia “popolare” si è trasformata in una miserevole esaltazione dei detriti sociali di cui sopra, il moderno lumpenproletariat; tutt’altro che miserabile, oggi, ma egualmente anarcoide, dissestato, disgregatore di ogni organizzazione della società, giacché qualsiasi forma organizzativa è considerata comunque autoritaria e oppressiva da questi devastatori (dei cervelli non meno che dei luoghi materiali).
Lo statalismo dei vecchi piciisti, via via trasformato in superiorità di tutto ciò che è “pubblico”, è così divenuto altra cosa rispetto a quello propugnato dal marxismo ortodosso e applicato nei paesi del “socialismo”. Si tratta ormai di semplice e miserabile assistenzialismo, di difesa di un apparato che sia in grado di alimentare clientele e “compagni di merenda” di ogni genere. Tuttavia, per ogni euro che va a questo personale politico della sinistra (anche a quella “radicale”), ve ne sono mille che affluiscono verso i settori della GFeID. Qualcuno continua a ritenere che tale sinistra abbia commesso un errore nel suo accanito appoggio al Governo Prodi. No, per nulla affatto, non è stato un errore. Quel Governo era il più strutturalmente legato alla finanza dell’Intesa e dell’Unicredit (e via dicendo); era il più consono alla Fiat e alle imprese industriali “mangiasoldi”, anche se, dopo la disfatta elettorale del centrosinistra, la Confindustria ha effettuato una svolt(in)a per il momento solo tattica. Quel Governo era quindi quello che consentiva pure, tramite mille corruttele complicate e spesso tortuose, l’afflusso di qualche mancia della GFeID alla sinistra “radicale”.
Certamente adesso, dopo la dèbacle elettorale, tale sinistra tenta di recuperare qualcosa della vecchia Classe, che almeno per la metà (o forse più) le ha girato le spalle, comprendendo di essere stata presa in giro per decenni. La Classe si è stufata di vedere ridotti i suoi salari reali in nome delle “quote rosa”, del “gay pride”, dell’immigrazione senza limiti e senza un programma di inserimento lavorativo e sociale degli immigrati. “Riusciranno i nostri eroi” (della sinistra radicale) a riprendere quota? Tutto dipenderà dalla stupidità maggiore o minore della destra, perché tale sinistra non è in grado di produrre nulla che non sia già stato prodotto da tanti anni in casa “radicale”. La sinistra “radicale”, insomma, lo è proprio nel senso che imita i radicali di un tempo. Noi non crediamo alla Classe, ma crediamo nella serietà dei lavoratori (e non solo di quelli dipendenti); quindi siamo per aumenti salariali, per certe detassazioni, ma non per l’assistenzialismo “pubblico” che è solo foraggiamento di clientele, di “mafie”, di gente corrotta e del tutto infingarda infilata in tutti i gangli dello Stato e parastato (e non proprio nei ruoli effettivamente lavorativi).
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Nessun appoggio quindi a quello statalismo che è solo assistenzialismo a favore di parassiti sociali. Non si tratta di intaccare pensioni e sanità, come invece si tende a fare (e a predicare) da destra. Si tratta di scremare sia i “mille euro” dati alla GFeID sia il misero “euro” dato alla sinistra – ivi compresa quella che recita da “radicale” – per eliminare quello che è ormai un vero cancro della società. La mafia della “sinistra” aggrappata al “pubblico” dovrebbe essere ripulita radicalmente, gettata in “foibe virtuali”, togliendo così anche la migliore rappresentanza politica ai finanzieri e industriali che ci rendono dipendenti dal complesso politico-finanziario statunitense.
Naturalmente, noi non confondiamo più il “pubblico” con l’interesse generale, tanto meno con il “socialismo”. Sappiamo però anche che è oggi puerile porsi, nei tempi brevi o anche medi, la prospettiva di una rivincita dell’istanza sociale che fu, malgrado errori e confusioni (e, alla fine, tanti opportunismi), rivendicata dal comunismo novecentesco. In ogni caso, lo statalismo non ha nulla a che vedere con la sedicente “costruzione del socialismo”. Per noi, quella che fu la svolta maoista nella prassi comunista, e la “rottura” althusseriana sul piano del marxismo, restano punti di non ritorno. Hanno fallito l’obiettivo – effettivamente rifondativo e non soltanto proclamato da parolai opportunisti – per ragioni profonde, che non possono essere certamente qui indagate. Ma non si torna indietro; quel fallimento non implica l’accettazione che nuovi parolai opportunisti riprendano a stonarci la testa con le virtù del “pubblico”. Quest’ultimo non rappresenta per nulla l’interesse generale, tanto meno quello delle “grandi masse popolari”; esso, lo ripeto, fa gli interessi di pochi corrotti che si accontentano del famoso “piatto di lenticchie”, nel mentre i parassiti finanziario-industriali si ingrassano a spese della collettività.
Il “pubblico” è solo il paravento dietro cui si nasconde la laida faccia del corrotto di sinistra, quello radicale in specie. Basta con questo “pubblico”. Statalismo non significa propendere per un certo assetto giuridico della proprietà dei mezzi produttivi; ancor meno deve significare dare un euro di elemosina agli strati inferiori della società e mille a finanzieri e industriali, che meritano invece pedate in “quel posto”. In questa fase storica – di 20-30 anni o appena un po’ di più – il problema è quello di ridurre la potenza a senso unico degli Stati Uniti, riproponendo la transizione ad una nuova fase meno squilibrata dei rapporti di forza internazionali, in cui anche il nostro paese – poiché noi viviamo e agiamo qui – acquisti una autonomia, viepiù ristrettasi dal 1945 ad oggi. Chi finge invece di battersi affinché ci si riavvii verso il socialismo e comunismo è ignobile. E’ ormai di un’evidenza solare che non c’è nulla da riavviare perché non si era avviato proprio un bel nulla. Basta con la finzione ideologica che in Urss prima, e poi in altri paesi, si fosse innescata una transizione al socialismo e comunismo. Si è trattato comunque di un grandioso processo, che non va rinnegato e buttato a mare, ma rendendosi ben conto che non si trattava di socialismo, bensì dell’inizio di una nuova fase storica della formazione sociale globale (che per il momento denominiamo, all’ingrosso, capitalistica), una fase interessata da un brusco arresto – con gli avvenimenti traumatici del 1989-91 – mentre oggi sta riprendendo il cammino seguendo altre vie forse più efficaci.
In questa fase – senza lasciarsi più ingannare dalle vecchie ideologie, ormai sgretolate e di cui si tengono vergognosamente in piedi alcuni patetici simboli privi di qualsiasi significato sostanziale – dobbiamo appoggiare una certa centralizzazione del potere, che non è, in senso proprio, lo statalismo nelle sue forme, appunto, giuridiche. Si tratta di una politica forte tesa ad invertire la direzione di eventi che hanno condotto alla sempre più carente autonomia di determinate formazioni particolari (e l’Italia è una di questa) nei confronti della potenza centrale. Tra questi eventi, c’è la sussistenza della GFeID in posizione ancora preminente, ci sono i suoi legami di dipendenza rispetto agli Usa, è tuttora in essere l’azione dei suoi rappresentanti politici di destra e di sinistra che, con modalità diverse, si adoperano per accrescere questa carenza di autonomia. Anche la sinistra radicale, con tutte le sue “fuffigne” sulla decrescita, sulle energie alternative, sul pacifismo privo di qualificazio-
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ni, con il suo “amore” per i sedicenti diseredati, i “poveri”, gli “umiliati e offesi”, lavora in favore della nostra dipendenza.
Non m’interessa nemmeno per un secondo indagare sulla buona o mala fede di questo o di quello; si tratta in ogni caso di individui che predicano politiche di indebolimento del paese e vanno combattuti e smascherati. Sono infidi e pericolosi; che lo siano “oggettivamente” o “soggettivamente” può interessare a chi ha voglia di perdere tempo. Io so soltanto che stanno dalla “parte opposta” e che tutto il loro parlare di interesse per il popolo, anzi per l’Uomo in generale, per il benessere spirituale (insidiato da quello solo materiale, così volgare e “disumano”), ecc. tende a favorire i nostri gruppi subdominanti, i cui reali interessi coincidono con quelli della dipendenza dal sistema socio-economico (e dunque politico) statunitense.
Oggi, statalismo non deve più significare assistenzialismo “pubblico”, questa fonte di corruzione e di sostanziale subordinazione agli interessi preminenti di altri. Statalismo deve invece significare politica, centralizzata, tesa a potenziare i settori di punta dei paesi in crescita concorrenziale rispetto agli Usa; tesa ad accrescere le capacità d’intervento in situazioni varie (intervento non militare in senso stretto; anzi deve essere assai più “subdolo” e sottile in questa fase). In un contesto simile, che ne è del “colbertismo” attaccato dai liberisti, ivi compresi quelli, più pericolosi, di sinistra? Qui si apre un nuovo discorso, e non certo di poche parole. Quindi, ancora una volta, per le esigenze “assassine” del blog, chiudiamo bruscamente il discorso.
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