L’OGGETTIVITA’ DELLE DIVERSE SOGGETTIVITA’AGENTI  

LAGRA21

1. Inizio, d’emblée, accennando ai motivi che spingono alla costituzione dei gruppi di azione strategica per la trasformazionesociale. Sono convinto che la causa, in un certo senso originaria epiù profonda, di detta costituzione è quella che non so indicare altrimenti se non facendo ricorso all’espressione tensione ideale” (che è nel contempo “ideologica”): contro il dominio di certi strati sociali su altri, contro le modalità del suo esercizio, per la liberazione dalla servitù e l’affermazione di una eguaglianza, che si traduce poi sempre (non si conoscono eccezioni nell’intera storia dell’umanità) in nuove forme di supremazia, magari mascherata, negli ultimi secoli di storia, da “elevate” quanto ipocrite dichiarazioni circa i “diritti dell’uomo”.

In ogni caso, l’esistenza sociale è caratterizzata da conflitti più o meno acuti, più o meno trasformativi di quel determinato “ordine costituito”; conflitti i cui mezzi fondamentali (ma mai dichiarati ovviamente) sono la sopraffazione, prevaricazione, inganno, menzogna, raggiro, ecc. ecc. Le continue tensionicoinvolgono l’intero corpo sociale, ma con diversa forza nelle varie parti dello stesso e in differenti periodi storici. In particolari congiunture di accentuata crisi, le cosiddette masse” (popolari)possono esercitare una forte pressione contro l’esistente sistema dei rapporti sociali, ponendosi in urto con gli apparati di dominio di quel periodo. Se tutto si limita a tale situazione, gli strati socialiin agitazione (scomposta) non sono nemmeno in grado di porsirealmente l’obiettivo dell’effettivo rivolgimento del sistema in questione; tanto è vero che, fin troppo spesso, essi (le “plebi”) servono da trampolino di lancio per gruppi di agenti strategici tutt’altro che rivoluzionari malgrado i roboanti proclami e qualche spettacolare azione.

Questo è un nodo essenziale. Intanto, nelle congiunture di crisi, le masse in movimento sono pur sempre strutturate in raggruppamenti e ceti diversi – quanto a posizioni occupate nella gerarchia sociale, a condizioni materiali di vita, a gradini culturali,a ideologie seguite, ecc. – che manifestano molteplici esigenze e interessi in relazione alla crisi stessa e alle modalità del suo superamento. E’ ovvio che occorre l’operazione di sintesi di queste differenti aspirazioni al cambiamento. Ma vi è di più. I dominanti in quel periodo storico non sono affatto un blocco unico, non lo sono nemmeno nella crisi e nelle sue fasi immediatamente precedenti; il “governo” della società è in genere esercitato da alcune frazioni dei ceti posti al suo vertice. Vi è quindi sempre lotta per la preminenza con sua conquista provvisoria di fase in fase da parte di gruppi diversi di tali ceti;gruppi variamente configurati in merito al reciproco peso che in essi hanno – in periodi storici e in forme di società differenti – gli agenti strategici delle fondamentali sfere sociali: l’economica, la politica e l’ideologico-culturale. Nelle situazioni che precedono, e aprono, la crisi esiste un dato insieme di frazioni dominanti in possesso della preminenza, contro cui si vanno coalizzandodifferenti gruppi d’azione strategica (politica) che agiscono per portare al potere più alto altre parti dei dominanti.

E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da una omogenea massa di dominati in movimento contro la minoranza, pur essa omogenea, dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo strategico intenzionato alla effettiva trasformazione radicale (“rivoluzione”) dei rapporti sociali. La tensione ideal-ideologica, di cui ho già detto, è condizione assai utile ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di accurata analisi delle condizioni di possibilità che la crisi – con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per mutare (moderatamente) le forme del loro predominio e far emergere al loro interno nuovi gruppi in grado di assumersene il compito apre ad un ben più accentuato rivolgimento dell’assetto sociale fino a quel momento in auge.

Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni che i gruppi mossi da intenti fortementetrasformativi (“rivoluzionari”) della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere il successo; mai immancabile perché il tentativo spesso fallisce. Nel momento più acuto della crisi, più accentuato e complesso diviene lo scontro tra gli appena nominati gruppi strategici tesi al rivolgimento sociale e quelli che intendono soltanto rovesciare i precedenti rapporti di supremazia tra le differenti frazioni dominanti. L’influenza sulle masse – mai un insieme omogeneo e indistinto di individui, ma sempre connotate da strutture, pur fluidificate dalla crisi, di rapporti tra diversi raggruppamenti di cui si deve tenere il massimo conto – èsenza dubbio uno degli obiettivi rilevanti di questo scontro tra i due gruppi di agenti strategici: quelli radicalmente trasformatividel sistema sociale (appunto i “rivoluzionari”) e quelli interessati al semplice mutamento delle frazioni dei ceti dominanti situate al vertice del potere.  

Non sussiste tuttavia solo questo obiettivo di conquista delle masse. Fondamentale è l’attenzione da prestare alle specifiche contraddizioni interne ai due differenti tipi di gruppi strategici con intenti decisamente diversi in merito alla conservazione o al rovesciamento di quel dato sistema dei rapporti sociali. Quelliinteressati al mutamento dei rapporti forza, pur sempre peròall’interno del vecchio sistema sociale, puntano a conquistare il favore delle frazioni più attive e decise fra i ceti dominanti in quella specifica fase storica; mentre i gruppi strategici, che intendono radicalmente rovesciare il potere di tali ceti dominanti,analizzano attentamente le loro contraddizioni interne per inserirvisi con azioni che disgreghino la loro forza complessiva, facendo infine crollare l’intera impalcatura del loro predominio.  

In questo complesso, e tortuoso, processo che si svolge nella crisi, assume particolare valore l’indicazione leniniana relativa all’analisi concreta della situazione concreta. In questo contesto, si comprende l’importanza dell’indagine sociale di tipo scientifico in quanto supporto decisivo della tensione ideal-ideologica” che, da sola, rischia di condurre all’anarchia, alla disorganizzazione, alla sconclusionatezza delle azioni sedicenti rivoluzionarie. Qui si comprende l’opportunismo – mascherato da radicalità (oggi l’esempio preclaro è fornito dai “grillini”) – della bersteiniana parola d’ordine: “il movimento è tutto, il fine è niente”. Si comprende insomma come ogni movimentismo sollecitato esclusivamente dalla falsa “buona volontà”, dagli ipocriti “intenti generosi”, non sia un semplice errore di rivoluzionari pasticcioni ma onesti; no, è un preciso appoggio dato ai gruppi strategici tesi ad una necessaria modificazione degli esistenti rapporti di supremazia tra differenti frazioni dominanti, mantenendo pur sempre la vecchia struttura dei rapporti di predominio sociale.

2. Nella fase storica attuale – di transizione ad altra ancora non ben compresa – mancano ormai del tutto capaci gruppi strategici tesi alla trasformazione anticapitalistica. Nell’attuale situazione di crescente multipolarismo sul piano dei rapporti internazionali – in cui vanno rendendosi assai complicate e spesso instabili le strutture verticali dei rapporti sociali nelle sfere economica, politica e ideologico-culturale si formano, disfano, riformano, coaguli di alleanze e di unità di intenti in base a interessi che non seguono precise, e ormai codificate (e cristallizzate) da tempo, linee di demarcazione tra i vari raggruppamenti di ruoli e funzioni. I gruppi strategici in effettiva lotta di rivolgimento del sistema sociale dovrebbero tendere ad una sempre maggiore consapevolezza: innanzitutto delle motivazioni (“ideal-ideologiche”) che li orientano e delle finalità perseguite; e ancor più delle condizioni (politiche e sociali) di possibilità per la realizzazione di tali finalità. La comprensione delle condizioni in oggetto esige la corretta valutazione dei molteplici interessi in gioco e delle alleanze che si fanno e disfano nel tumulto della crisi. La visione del campo di battaglia e l’individuazione delle forze in campo deve essere ad ampio spettro, secondo differenti piani e angolazioni, in grado di individuare le faglie aperte dalla crisi stessa, le contraddizioni tra i vari raggruppamenti sociali, che non si limitano a quelle tra dominati e dominanti; contraddizioni che debbono essere distinte in principali e secondarie, in nucleo decisivo (l’occhio) del ciclone e in collaterali e perifericheturbolenze rispetto a quest’ultimo.

Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse – i gruppi strategici trasformativi (quelli che pretendono la “rivoluzione”) scelgono preferibilmente la guerra di movimento e puntano piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale. Che piaccia o meno, è pur sempre essenziale la lotta per tale controllo su base nazionale, in riferimento cioè alle varie sezioni particolari (insomma, i vari paesi) della formazione sociale mondiale. Chiunque blateri intorno all’esaurimento delle funzioni degli Stati, chiunque indichi, come compiti primari o addirittura esclusivi, linfluenza da esercitare sulle masse lavoratrici, il controllo della produzione, la lotta all’oppressione (o allo “sfruttamento”), ecc. mina alla base ogni possibile trasformazione radicale della società esistente, si pone di fatto al servizio della riproduzione dei rapporti inerenti ad essa. Consapevolmente o meno, chi agisce in tal senso condurrà infine al prevalere della dinamica di scomposizione e frammentazione – e dunque diindebolimento – dei ceti dominati. Al massimo potrà favorire il ricambio al potere tra le varie frazioni in cui sono suddivisi i cetidominanti.

Lenin – e gli altri che ne seguirono l’esempio – comprese a fondo la necessità dei gruppi intenzionati a trasformare in senso rivoluzionario la società di attuare una strategia (e una tattica), che non tenesse conto nei fatti della dottrinale asserzione secondo cui nella rivoluzione vi è un soggetto centrale, ad es. la classe operaia, forgiata dallo stesso sviluppo sociale precedente, ad es. quello capitalistico. E già ho sostenuto più volte che sarebbe comunquevano sostituire tale classe con l’“associazione dei produttori” (“dal primo dirigente…., ecc.”), con l’intelletto generale, ecc. La dinamica capitalistica non porta oggettivamente alla formazione di alcun soggetto collettivo dotato della unitarietà e compattezza necessarie ad attuare la radicale trasformazione. E’ dunque evidente che il successo di dati gruppi nel compiere una verarivoluzione – guidando in questo processo “grandi masse” di dominati – andrà infine consolidandosi con il progressivo enuclearsi di nuovi ceti dominanti, di cui si dovrà provare l’effettiva attitudine a ridare forte vitalità a sistemi sociali del tutto trasformati e non più riconducibili a quelli annientati.

E’ precisamente quanto non è riuscito ai movimenti frettolosamente definiti (e autodefinitisi) comunisti pur dopo una prima fase di vero rivolgimento con l’ascesa di autentici nuovi poteri dominanti. Per profonde ragioni anche ideologiche (non solo queste, evidentemente) i comunisti non hanno compreso l’effettivo mutamento delle strutture sociali con il successivo loroirrigidirsi e la conseguente ostilità di vasti ceti sociali in rapida formazione e crescita. Non si deve però “buttare il bambino con l’acqua sporca”; è necessario ripensare quell’esperienza, che potrebbe darci spunti di rinnovamento se non restiamo ancorati ad una impostazione politica, di cui non si è minimamente afferrata la derivazione da una teoria di carattere eminentemente scientifico (e dunque necessariamente ripensabile nel tempo), ridotta invece abanale credenza ideologica di aiuto ai “diseredati”, agli “oppressi”e “sfruttati”, ai “sofferenti”. Basta pietismo, ripresa in grande stile di una “analisi concreta della situazione concreta”; analisi che esige una linea direttiva cioè, in definitiva, una nuova teorizzazione. Senza “grammatica” non esiste altro che un linguaggio sconclusionato, ingannevole, confusionario. E ripetiamolo pure: l’“orchestra” emette solo suoni disarmonici, stridenti e massimamente fastidiosi se non esiste il “direttore” con la sua bacchetta; nient’affatto magica bensì mossa da chi ben conosce la “musica da suonare”.