L'ORDINE DELLE PRIORITA' di G. La Grassa
Nei processi, naturali come sociali, il tout se tient; ogni elemento è in rapporto con ogni altro, la causa è anche effetto e viceversa. L’immagine è quella del circolo, del circolo di altri circoli, ecc. Tutto sembra dunque richiudersi su se stesso. Molti pensatori si sforzano di pensare il complesso, di tenere sempre “presso di sé” ogni elemento del processo indagato; meglio addirittura l’intera Totalità degli eventi del Mondo. In particolare, ognuno si sforza – e crede spesso di avere, proprio lui, infine risolto il problema – di non separare il “soggetto” dall’“oggetto”, di trattarli nella loro “intima unità”. Il circolo è in effetti bello, è la figura che appare più perfetta e acquietante, ci infonde serenità e fiducia; è concluso in sé e ha un sapore di sicurezza, di protezione, quasi un grembo materno.
Il circolo, tuttavia, è anche la figura dell’indeciso e dell’opportunista, di chi non vuol scegliere “tra questo e quello”, desidera mantenere il “piede in due staffe”, intende tenersi aperte tutte le opportunità, del tutto contraddittorie ed in aperto contrasto. Basta però dichiararle “dialettiche” e la coscienza si tranquillizza, perché non si tratta allora più di opportunismo ma soltanto di un “giusto” sviscerare l’insieme della questione. Viene in testa il Brecht de La lode del dubbio, in cui egli critica però con durezza coloro che “non dubitano per giungere alla decisione, bensì / per schivare la decisione [……]. Dopo aver rilevato, mormorando, / che la questione non è ancora sviscerata, vanno a letto. / La loro attività consiste nell’oscillare….ecc.”.
E’ necessario recidere in un punto il circolo e distenderlo in una linea, indicando anche il verso dell’andamento dalla causa all’effetto. Certo, poi c’è l’azione di ritorno, la reazione, ma intanto si sceglie qual è il bandolo della matassa da tirare per sbrogliarla e decidere. Si commettono errori? Sempre sarà così; solo provando e riprovando si ottiene, di tanto in tanto e per un certo periodo di tempo, un qualche risultato. Ci si sbaglia a volte di grosso; e si perde l’innocenza, in date contingenze pure la vita. La si smette però di essere vili e di scappare sempre di fronte alla responsabilità di una decisione; perché anche l’ambito della sola teoria, della scelta di una data ipotesi piuttosto che di un’altra, è quello della decisione, della possibilità dell’errore, di previsioni rivelatesi successivamente solo pie illusioni.
L’unica azione ammessa è quella di non tirare una linea retta, arrogante e sicura di sé; è opportuno accettare le curve, i punti di svolta, le interruzioni tra segmenti di linea che, dopo l’interruzione, possono anche assumere una direzione diversa (non opposta per tornare a trincerarsi da dove si era “partiti”). Insomma, la prudenza, l’astuzia, l’aggiramento di un ostacolo, ecc. sono ammessi; altrimenti uno non mostra coraggio e coerenza, ma semplicemente di essere portato, nel pensiero, al puro credere per fede, di non avere alcuna duttilità e capacità di fare un “esame di realtà”; mentre, nella prassi, rivela la vocazione al martirio pur di essere dichiarato “eroe” (e anche questa è una forma di arroganza, di elitarismo, incurante degli effetti che il proprio agire ha anche su altri, magari danneggiandoli).
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Non pensiate che, dopo tutto questo “armeggiare” e vagolare, io voglia dirvi chissà che. Semplicemente, intendo trattare di alcune linee di scorrimento – dotate quindi della loro bella freccia direzionale – che stabiliscano l’ordine di priorità tra alcuni elementi dei processi sociali. Elementi, dico subito, pensati come decisivi. Perché ritengo necessario lasciar perdere la complessità (“la notte in cui tutte le vacche sono nere”, di cui si beano i chiacchieroni sbrodolando la loro “saggezza” sterile e vuota), stabilendo che solo alcuni elementi debbono essere presi in considerazione; e per di più in una loro definizione sintetica, certamente non adatta a “riprodurli” in quanto elementi di una realtà proprio reale. Chiunque pretenda di riprodurre una simile realtà – e qualcuno ha questa bizzarra idea, in specie fra i (pochi) “marxisti” sclerotici odierni – viaggia a mio avviso nel mondo dei sogni. La “riproduzione” è una semplice – anzi diciamolo senza mezzi termini: semplicistica – ipotesi di cui, lasciandole i giusti tempi di “maturazione”, si dovrà mostrare (non dimostrare, come si trattasse di un problema matematico o geometrico) l’efficacia nella (interpret)azione della “realtà”. Un’efficacia che può mancare fin da subito o invece durare; ma mai per sempre perché, come sostenne Max Weber in un bel passo del Lavoro intellettuale come professione, le teorie scientifiche esigono di essere superate (ma non dimenticate!); e se non lo sono, vuol dire che non sono servite pressoché a nulla, salvo che a macinare chiacchiere o a fare professione di fede.
Gli elementi dei processi sociali che è sufficiente prendere in esame, e nella loro sinteticità, li indicherò, secondo una lunga abitudine (non solo mia), quali sfere (nel senso di settori, “regioni”, ecc.) della società: l’economica (produttiva e finanziaria), la politica e l’ideologica (e culturale in senso lato). Pur nella diversità di varie correnti di pensiero, sempre compresenti, credo si possa sostenere che – sia nelle teorie dei pensatori (e ideologi) dei gruppi dominanti, sia in quelle di coloro che assumono posizione critica “antisistema” – vi è la tendenza a dare la priorità agli elementi economici nell’analisi dei processi sociali interessanti la società moderna (capitalistica). Del resto, anche coloro che mettono l’accento su fattori politici troppo spesso assumono il punto di vista dell’efficienza nel funzionamento di dati apparati; e l’efficienza è un carattere fondamentale dell’economicità. Quanto ai sostenitori della decisività dell’egemonia ideologica, la pongono in modo prettamente intellettualistico, prescindendo dal contesto dei rapporti di forza che sono invece decisivi per affermare una reale egemonia. La si smetta, per favore, con il luogo comune dei “romani” conquistati culturalmente dai “greci” che avevano sottomesso. In ogni caso, nel capitalismo (e imperialismo), le classi lavoratrici o le “masse diseredate” del fu terzo mondo non hanno certo conquistato culturalmente i dominanti.
Nel capitalismo, la sfera economica deve procurare – ed è in grado di procurare – i mezzi necessari al conflitto tra gruppi di dominanti per la supremazia. Tali mezzi, dato il carattere generale dell’interscambio mercantile, sono prettamente monetari, dunque finanziari. L’elemento finanziario è volatile e instabile e, autonomizzandosi, spesso e volentieri si dilata a dismisura, provocando gli sconquassi ben noti. Si crede sempre di metterlo sotto controllo, ma difficilmente ci si riesce senza assumere decisioni estremamente drastiche che sono tipiche di uno “stato d’eccezione”; con le “normali regole”, ci si deve rassegnare a convivere con gli alti e i bassi del sistema nel suo insieme. Quanto alla sfera economico-produttiva, essa è in effetti di rilevante importanza; anzi, è proprio l’alta produttività – in quanto trend pur tra oscillazioni congiunturali – del capitalismo a far si che questa società non conosca gli stessi stress delle società precedenti: quelli, ad esempio, che misero in ginocchio nazioni potenti come
Gli elementi economico-produttivi fondamentali, semplificando, sono principalmente le fonti di energia e le sempre nuove tecnologie, derivate da veri “sfondamenti” della conoscenza scientifica in campi prima impensati, spesso nemmeno supposti o sospettati. Anche su tali problemi, il marxismo ha mostrato la corda perché non è andato molto oltre il pensiero del perfezionamento meccanico (e dei sistemi di macchine) in settori produttivi tradizionali, quelli che hanno accompagnato tutta la storia dell’umanità (fino appunto ai grandi e più recenti sviluppi della scienza); da qui le tesi circa la crescita impetuosa del capitale costante (mezzi di produzione) e, di riflesso, della cosiddetta composizione organica del capitale (anche nel suo aspetto di valore), ecc. (chi non sa il marxismo, non si intestardisca a capire questa vetusta terminologia; la lasci ai cervelli di cemento dei pochi pseudomarxisti sopravvissuti).
Le fonti di energia vengono periodicamente “rivoluzionate”, se ne trovano di nuove, si modifica il mix del loro uso (le loro proporzioni relative in quest’ultimo). I cambiamenti non sono molto rapidi, ma comunque avvengono solitamente nel giro di poche, pochissime, generazioni. I mezzi di produzione di carattere tecnologico conoscono invece mutamenti velocissimi, e sempre più veloci. Il controllo di questi elementi economico-produttivi non può essere assicurato in modo tale da dare una stabile preminenza a certi gruppi dominanti per lunghi periodi di tempo. L’incertezza regna sovrana; si può, e si deve, approfittare di una congiuntura – talvolta di una fase storica di una certa durata – particolarmente favorevole (pensiamo a petrolio e gas per
Maggiori garanzie sembra dare l’elemento ideologico-culturale, nel cui ambito conquistare l’egemonia; in particolare affermando la propria lingua (oggi notoriamente l’inglese) per la conduzione degli affari, negli scambi di ogni genere e in ogni ambito. Per quanto sia certo rilevante, tale elemento poggia sempre sulla convenienza; tutti possono usare la stessa lingua per le comunicazioni essenziali, possono anche assumere alcuni aspetti in genere esteriori del comportamento culturale di dati gruppi dominanti, ma poi cambiare i propri rapporti preferenziali dirigendosi verso altri dominanti, che assicurano migliori condizioni di interscambio e maggiori vantaggi in termini di miglioramento dei propri standard di vita, pur essendo standard da dominati o, comunque, da subdominanti rispetto a chi è riconosciuto – per proprio interesse – quale predominante.
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Resta precisamente la sfera politica (e militare in senso lato). Si tratta della sfera dove si addensa il potere – e le strategie decisive della sua affermazione – in quanto elemento in grado di stabilire aree di influenza di dati gruppi dominanti. L’area di influenza ha un carattere prettamente territoriale, anche se su quel territorio in genere “insistono” popolazioni – costituite secondo determinati sistemi di rapporti; quindi si tratta di formazioni sociali, che definisco particolari per distinguerle dal loro insieme, anch’esso interrelato, che è la formazione sociale mondiale o globale – con le loro “strutture” di elementi afferenti alle sfera economica e ideologico-culturale oltre che alla politica. L’area di influenza si può realizzare mediante vera occupazione territoriale, mezzo sempre di moda malgrado tante chiacchiere di “autonomia” imperfetta e di controllo mediato, indiretto. Tuttavia, sussiste ampiamente pure quest’ultimo, anzi è senz’altro il metodo principale utilizzato. E il controllo conosce varie gradazioni, dalla subordinazione vera e propria alla blanda dipendenza con “compartecipazione agli utili”, e altre forme.
Non insisto sui vari mezzi utilizzati da certi gruppi dominanti per “costruire” le aree di influenza: dalla diplomazia all’uso della forza, dalla minaccia di tale uso alla corruzione di certi settori economici e soprattutto politici dell’area territoriale da controllare (con le formazioni sociali particolari che vi “insistono”), dalla suddetta “compartecipazione agli utili” (ma da disciplinati dipendenti) ad una più stretta complementarietà del sistema subordinato rispetto a quello predominante, complementarietà utile a fluidificare i canali di eventuale “trasferimento” di quote di pluslavoro/plusvalore dal primo al secondo, ecc.
L’importante è capire che queste aree di influenza, proprio per il loro essere comunque anche territoriali, hanno generalmente un carattere più stabile e duraturo rispetto a quanto avviene per gli elementi della sfera economica; d’altra parte, poiché l’area è territoriale ma generalmente occupata da formazioni particolari, ovviamente l’influenza si estende pure alle “risorse” (in tutti i sensi, non solo economiche) di queste ultime. Tuttavia, l’evidenziare il controllo di tali aree di influenza evita di cadere nel tranello di totale incomprensione del perché spesso la formazione predominante – o le formazioni in lotta per la supremazia – si accanisce in “imprese” (operazioni politico-militari) che sembrano avere costi decisamente superiori ai benefici. Vi sono “aree di mezzo”, che non possono essere lasciate sguarnite, altrimenti il “vuoto” viene occupato da altri e l’area che interessa maggiormente (il reale obiettivo) diventa di fatto “più lontana” e “meno controllabile”; anzi viene a quel punto magari controllata dai “concorrenti”.
E’ ovvio che lo stabilire l’influenza su date aree, e l’assiduo controllo delle stesse, hanno un alto costo che in fasi storiche di una certa lunghezza possono indebolire la formazione predominante; lo stesso fenomeno ha buone probabilità di verificarsi qualora una formazione in lotta per il predominio allunghi eccessivamente quelle che definisco genericamente linee logistico-strategiche di controllo; come esempio, potremmo citare l’impresa degli Usa in Afghanistan, che comunque sono riusciti a coinvolgere i “dipendenti” europei, alleggerendo così i loro costi (in mezzi e personale). Tuttavia, tali costi sono eccessivi o meno anche in relazione alla presenza di “concorrenti” più o meno forti, in ascesa o in calo di potenza. Ad esempio, dopo l’11 settembre 2001, il calcolo statunitense relativo all’Afghanistan non era forse destituito di fondamento, tenuto conto dell’atteggiamento della Russia favorevole (sincera o meno che fosse) alla “lotta al terrorismo”. Oggi sembra evidente che la situazione è mutata proprio rispetto al comportamento (in generale) russo, e i calcoli debbono essere rifatti (il che non implicherà certo l’immediato ritiro degli Usa da quella zona).
In ogni caso, il fattore politico – quello più specificamente interessato dall’attuazione di operazioni strategiche; le strategie delle imprese o quelle per affermare la propria influenza ideologico-culturale sono così definite per pura analogia con quelle specificamente politiche e militari – è il più importante per la durata e la stabilizzazione della predominanza di certi gruppi su altri. Se le cose stanno così, si capisce allora subito un altro fatto. La lotta tra gruppi dominanti per la supremazia – avendo come obiettivo una preminenza territoriale, la cui durata e stabilità ha migliori probabilità di superare quella del controllo di fonti di energia, o dell’apprestamento di nuove tecnologie, ecc. (gli elementi della sfera economica) – si sviluppa lungo l’asse delle varie formazioni particolari (ancora paesi e nazioni!) nel mondo. Tale lotta condiziona fortemente anche il conflitto tra i vari gruppi all’interno di ogni formazione particolare; e il conflitto in questione assume caratteristiche assai differenti a seconda che le formazioni particolari accettino la predominanza di una di loro (ad esempio, i paesi europei odierni nei confronti degli Usa) o aspirino invece a competere per una completa indipendenza o addirittura per l’assunzione in proprio di una nuova supremazia.
E i dominati? Nel corso dello sviluppo dei sistemi capitalistici – che conoscono crisi congiunturali, alcune assai gravi, ma per nulla affatto l’interruzione del trend ascendente (malgrado certi perfetti imbecilli si illudano che l’attuale crisi sia l’inizio della decrescita quale fenomeno irreversibile, “secolare”) – essi vengono progressivamente integrati e assorbiti nei meccanismi riproduttivi dei rapporti capitalistici, in periodica trasformazione; talmente radicale anzi da far pensare a capitalismi piuttosto che ad un unico “modo di produzione capitalistico”. Solo quando si accentua la lotta tra dominanti – soprattutto utilizzando la sfera politica (e militare), quella delle strategie nel loro senso più proprio, tendente a stabilire zone di influenza; una lotta, dunque, che si svolge lungo direttrici di tendenziale estensione all’intero ambito mondiale – si manifestano periodi di crescente “sofferenza”, che possono condurre i dominati a ribellioni e ripulsa di ciò che si era accettato nei periodi favorevoli. Nulla garantisce che le ribellioni siano rivoluzioni; e non lo saranno mai senza l’indebolimento e sgretolamento, in determinati punti dell’area mondiale capitalistica (gli “anelli deboli”, che sono formazioni particolari), degli apparati politici e militari – quelli che assicurano l’egemonia corazzata di coercizione di gramsciana memoria – dei dominanti; e non lo saranno mai senza una direzione e organizzazione, che sappia saldare certi fronti di alleanze tra gruppi dominati assai differenziati tra loro e non tendenti agli stessi obiettivi, per cui la sintesi delle diverse ribellioni in una rivoluzione è quanto di più difficile si possa immaginare.
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Comunque, in questo scritto, mi premeva mettere in risalto un punto decisivo. Il fattore politico è quell’elemento del tout se tient che occorre afferrare per dipanare l’altrimenti complicato gomitolo della struttura sociale capitalistica. Il circolo va rotto nel punto cruciale che riguarda tale fattore; da qui esso va disteso in una linea che comprende – semplificando “all’osso” la catena – la sfera economica e quella ideologico-culturale. Di ognuna va capita la funzione. Però, prima di tutto si deve cogliere la preminenza della sfera ove si realizzano le vere e proprie azioni strategiche; azioni non rette dall’efficienza, carattere dell’economicità, ma dall’efficacia. Quest’ultima è perseguita anche dalla sfera ideologico-culturale, ma con formazione di un campo d’attrazione (e di diffusione di influenza) a volte vasto e tuttavia debole. Il campo d’attrazione forte, e più difficile da sbrecciare, è quello creato dalla sfera politica con le sue strategie che qui assumono il loro significato più specifico e preciso.
Sia chiaro che quanto detto non significa in alcun modo diminuire l’importanza dei fenomeni in sviluppo – contraddittorio – nella sfera economica (sia finanziaria che produttiva) e in quella ideologico-culturale. E nemmeno si vuol sostenere che, dominando nella sfera politica, sia possibile aggiustare i vari guasti che si producono nella società per i vari contrasti e conflitti – più o meno latenti o palesi – di cui essa è sempre gravida in ogni sua sfera, e tra le diverse sfere. Si tratta solo di graduare l’importanza di queste ultime nella loro pur congiunta azione nella società. Soprattutto è indispensabile prendere atto che mai – a differenza di quanto erroneamente previsto proprio dai “marxisti” e “comunisti” – si ha il crollo o l’affossamento del capitalismo a partire dall’economico o dall’ideologico-culturale. E’ dunque necessario sottoporre a critica costante e radicale le varie concezioni economicistiche e culturalistiche della trasformazione sociale (non da capitalismo a capitalismo, ma in un presunto e finora solo agognato e predicato “al di là” e “al di fuori” di questa formazione sociale), che coadiuvano di fatto le teorie dei dominanti, in genere abbastanza gelose – raramente con consapevolezza, più che altro perché schiave della loro stessa ideologia – nel mascherare la centralità del (pre)potere politico e delle sue decisive azioni strategiche, le più rilevanti nella linea (direzionata) ottenuta spezzando il “magico circolo”, dalla forma così perfetta ed esteticamente piacevole.