CENTOCINQUANT’ANNI BASTANO. ADESSO ACQUISTABILE IN FORMATO CARTACEO
Centocinquant’anni bastano. Uscire da Marx con Marx. L’ultimo saggio di Gianfranco La Grassa (€ 14,99, Narcissus ed.) è una lettura scientifica del pensiero di Marx, dei suoi lasciti teorici ancora validi ma anche dei suoi errori previsionali i quali, dopo più di un secolo e mezzo, non possono essere riproposti per cieco fideismo e stolto conservatorismo, in nome di una fantasia sovversiva che nasconde beceri interessi di preservazione accademica o politica.
La Grassa non nega e non rinnega la sua formazione marxista, anzi quest’ultima è il porto di partenza, l’ancoraggio da conoscere ed esplorare in ogni angolo ed anfratto, per poter salpare verso altri lidi concettuali, muniti degli strumenti adeguati ad interpretare la realtà delle nostre storicamente specifiche formazioni capitalistiche, nonché la natura dei rapporti e delle strutture sociali che le informano.
Ma il libro di La Grassa è anche una nuova proposta teorica, un riorientamento categoriale per posizionarsi nel mondo tumultuoso della nostra epoca, per individuare gli aspetti principali del capitalismo odierno e delle sue dinamiche intrinseche, per comprendere i nessi comuni ed elaborare una proposta trasformativa delle relazioni collettive, la quale inizia sempre ed inevitabilmente dallo sceveramento, per via astrattiva, di siffatte questioni. Senza intelligenza del problema non può esserci alcun progetto, neppure transitorio.
Per Marx il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale. Non tutti lo hanno capito, nemmeno quanti si sono professati suoi convinti seguaci. Poiché, appunto, il capitale non è oggetto ma processo di “ri-produzione” di legami collettivi non egualitari, o egualitari solo in sembianza, è chiaro che esso non nasce strettamente nel luogo dove si combinano i fattori produttivi ma in un ambiente più ampio, qual è quello societario complessivo.
La grande scoperta di Marx, sta, pertanto, nell’aver smascherato i rapporti di subordinazione del sistema capitalistico, oltre la coltre superficiale del mercato, il regno della libertà e dell’anarchia, dove effettivamente individui svincolati da qualsiasi sottomissione diretta e, perciò, padroni di scegliere cosa offrire e cosa domandare, si ritrovano uno di fronte all’altro con le loro precipue proprietà e titoli monetari e giuridici.
Sul mercato ognuno si reca senza coazione ma sospinto dai rapporti sociali di cui è creatura. Qui ritroviamo, per effetto di processi storici già verificatisi (come l’accumulazione originaria, fenomeno primigenio e violentissimo), i detentori dei mezzi di produzione e i meri portatori di forza lavoro; i secondi, se vogliono sopravvivere, devono vendere la loro particolare merce ai primi che hanno gli strumenti per utilizzarla proficuamente. Nessuno li costringe con la forza a “vendersi” ma allorché si decidono in tal senso (e la scelta è preordinata, tanto da diventare questione di sopravvivenza o di perimento) scontano automaticamente le conseguenze di rapporti di forza oggettivi che li vedranno svantaggiati. Inseriti come maestranze nell’organizzazione produttiva erogheranno energie superiori al prezzo ricevuto. Questa è l’estrazione del pluslavoro, nella forma del plusvalore, che mette i gruppi proprietari dei mezzi di produzione in cima alla piramide sociale.
Così nelle parole di La Grassa: “La specificità del capitalismo è quindi appunto la costituzione storica di un rapporto ben preciso, costituzione che implica la liberazione da ogni servitù con contemporanea netta separazione tra possesso dei mezzi produttivi e possesso di semplice capacità di lavorare. Se il lavoratore è separato dai mezzi di estrinsecazione di tale capacità insita nella sua corporeità (mente, muscoli, mani, ecc.), e tuttavia è lasciato libero di scegliere che cosa meglio gli aggrada (morire di fame o “guadagnarsi da vivere”), non può svilupparsi altro che la libera – non subito, ma la grandezza di Marx è di aver individuato lo sfruttamento prescindendo dagli “attriti” ancora esistenti – contrattazione tra capitale e forza lavoro. Insomma, si è dovuta formare la massa del lavoro salariato: questo il movimento (storico) di instaurazione del rapporto sociale che è il capitale, secondo la definizione di Marx”.
Tutto ciò dovrebbe, almeno si spera, sgombrare il campo dalle ubbie di chi ritiene che il “dominio” nasca nel processo lavorativo tout court. Non è così, al di fuori di quelle precondizioni sociali da noi descritte – e per questo abbiamo parlato di scelta preordinata che scaturisce da una “genetica relazionale” riproducente costantemente sé stessa, anche evolvendosi e metamorfosandosi, fase dopo fase – ci vorrebbe effettivamente la spada in pugno per incatenare gli uomini alle macchine. Ma, se così fosse, saremmo in tutt’altro tipo di sistema sociale, schiavistico o feudale, non in quello da noi preso in considerazione.
Seguendo questi tragitti, Marx pensa la divaricazione tra sfruttati e sfruttatori come quella fondamentale di tutte le vicende umane. La storia è storia delle classi in lotta, ma col capitalismo, con la formazione di due fronti ben definiti, capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e salariati possessori della sola forza lavoro, questo confronto giunge al suo ultimo stadio, poiché si realizzano, nel seno stesso del sistema, le condizioni oggettive di un rivolgimento rivoluzionario da rinvenirsi nel processo di socializzazione delle forze produttive, “sia dal lato dei mezzi di produzione, della tecnologia, ecc., sia da quello dell’organizzazione del processo in cui la forza lavoro viene erogata”.
Marx vede e descrive anche la presenza di “condizioni soggettive” della trasformazione derivanti dalla separazione della funzione proprietaria da quella direttiva del capitalista (unite nella fase concorrenziale), intreccio e coordinamento di quest’ultima con le funzioni lavorative operaie in senso stretto (esecutive, manuali, ecc.). L’esito finale del processo si sarebbe sostanziato nella formazione del “lavoratore collettivo cooperativo, vera base sociale – pensata in costante allargamento – della trasformazione rivoluzionaria”.
Giusto? Giusto ma sbagliato, ovvero corretto sotto il profilo logico-deduttivo della sua teoria ma errato nei fatti e negli sviluppi evenemenziali successivi. Il General Intellect non si è concretato, i manager erano e sono sì dei salariati ma di specie diversa e, comunque, non separati dalla proprietà e dai suoi piani, inoltre, per funzioni, corrispettivo e mission non sono assimilabili ai semplici lavoratori del braccio; anche i vertici societari, contrariamente al “vaticinio” non si sono ridotti ad un nugolo di staccatori di cedole disinteressati degli sviluppi materiali dell’impresa, dalla quale ricavano i profitti per attuare strategie aziendali e conflittuali ai livelli superiori (politici, per esempio).
La Grassa lo afferma esplicitamente e si distacca da tutti quei pensatori che ancora attendono l’avvento dell’ultima ora fatale del capitalismo per raggiungimento invalicabile dei suoi limiti interni. Ergo, se dalla dinamica di centralizzazione dei capitali non conseguono centralizzazione e coordinamento delle varie unità produttive, con formazione di un soggetto unitario collettivo-cooperativo che può fare a meno dei capitalisti, per di più convertitisi in parassiti finanziari, viene meno quel parto “ormai maturo nelle viscere del capitalismo” che avrebbe dovuto condurre prima al socialismo (a ciascuno secondo il suo lavoro) e poi al comunismo (ad ognuno secondo i suoi bisogni).
La Grassa opera, prendendo atto di questa “predizione” smentita, una rottura epistemologica e apre un altro continente storico-esplicativo, di cui diremo subito; piuttosto che mettersi a seguire la processione dei fedeli, il famigerato gregge dell’ortodossia, il quale pur di non ammettere il fallimento del proprio apparato categoriale permette che la scienza si tramuti in culto, egli salpa dalla costa e prende il mare aperto con le sue insidie e le sue possibilità.
Marx ha creduto che, tendenzialmente, con l’accentuarsi dello sviluppo capitalistico sarebbero stati due blocchi irrimediabilmente avversi a fronteggiarsi, capitalisti “rentierizzati” e General Intellect plasmato nella produzione, quest’ultimo considerato il soggetto intermodale del trapasso ad una nuova formazione sociale. Rebus sic stantibus.
Ma era davvero questo il conflitto dirimente? La Grassa non lo crede (e noi con lui) e mette davanti a tutto il conflitto strategico tra agenti dominanti, derubricando come secondaria la disputa capitale-lavoro. Certo, ci sono epoche storiche in cui gli schieramenti sono maggiormente polarizzati sulla base di questa dicotomia, ma essenzialmente predomina l’altro genere di antagonismo. Meglio ancora, quello che viene principalmente in evidenza è proprio il flusso conflittuale che scorre sotto la crosta sociale e che determina gli incessanti terremoti e deformazioni da cui essa è colpita, sbilanciamenti costanti non visibili ad una osservazione superficiale e diretta, coperti da uno spesso velo ideologico: “Le epoche (e fasi) storiche riguardano complessi raggruppamenti sociali (società, formazioni sociali), di cui isolare i gruppi che appaiono essere i decisori d’ultima istanza nel comportamento attivo di maggiore rilevanza, in quanto portatori del movimento dei raggruppamenti in questione, in genere di carattere evolutivo cioè trasformativo delle loro “strutture” relazionali interne (teoricamente fissate mediante i già ricordati “tagli della realtà” secondo particolari “fasci d’osservazione”). Diciamo che i gruppi decisori sono, in generale, i soggetti (agenti, ma appunto in quanto portatori). L’oggettoingenerale è costituito dai raggruppamenti sociali complessivi (e “strutturati” come detto), cioè dalle formazioni sociali in generale (non questa o quella in particolare). Sugli strumenti o mezzi, il discorso è più complesso, meno sicuro e stabile. Direi che il mezzo generale per l’azione del(dei) soggetto(i) sull’oggetto (formazione sociale) è la lotta per la supremazia. Tuttavia, questa indicazione può prestarsi a molti equivoci. Credo si debba evitare di farne una questione “genetica”, malgrado i possibili riferimenti a tale lotta in tutto il mondo animale (e anche vegetale, cioè in tutto il vivente). Ritengo si debba attribuire oggettività generale (in genere) all’estrema variabilità delle forme di questa lotta strategica. Una variabilità da non considerare quindi come successione storico-specifica di forme diverse di una generica e generale “lotta per la supremazia”, perché è invece proprio detta variabilità ad essere l’aspettogenerale della lotta condotta dagli individui della nostra specie”.
Allora, lo squilibrio del flusso della realtà, dal quale nasce la lotta imperitura degli attori sociali per l’affermazione, è l’elemento più generale mentre l’equilibrio è “solo l’apparenza sensibile che nasce da una miriade di squilibri che sembrano compensarsi”. Con la teoria, chi cerca di rendersi protagonista della scena collettiva, prova a stabilizzare artificialmente tale corrente inarrestabile perché non si può tenere lo sguardo fisso sul sole senza munirsi di filtri, non si imparerebbe nulla su di esso e si resterebbe accecati. Altro modo per “frenare” il flusso è quello dell’istituzionalizzazione, con la condensazione dei conflitti in apparati di stabilizzazione degli stessi, retti da regole di condotta per gli agenti funzionari che vi lavorano, e da gerarchie prestabilite all’interno di questi organismi. Poiché, come dicevano, il flusso del reale è inarrestabile, le sopraddette costruzioni umane durano dei cicli storici ma poi vengono superate dagli eventi e perciò devono adattarsi al mutevole ambiente, rinconfigurarsi palingeneticamente o, anche, soccombere. In ogni caso, diventano residui di un panorama in destrutturazione che non può resistere all’infinito sotto la pressione di nuove forze e visioni dell’esistenza associata. I drappelli che controllano quest’ordine diventato precario mettono in marcia delle contromisure per resistere all’ondata riformatrice o rivoluzionaria, dipende dal contesto e dall’elasticità (o rigidità) dell’architettura del potere costituito, attraverso “apparati di coercizione e repressione di ogni tentativo di modificazione, tentativo compiuto per adeguarli allo squilibrio incessante che ha condotto verso altri assetti dei rapporti sociali. D’altra parte, l’adeguamento toglierebbe il potere ai gruppi decisori della “realtà” precedente e lo assegnerebbe a nuovi gruppi. La teoria crea una cintura (o, forse meglio, nervatura) ideologica per obnubilare la coscienza dell’inevitabile corrosione cui è sottoposta la sua rappresentazione strutturale della “realtà” da parte del flusso di spinte squilibranti (lo ricordo: presupposto quale base della conoscenza); la teoria cerca così, testardamente, di attestarsi sui vecchi supposti equilibri teorizzati via ipotesi, non riconosciute però come tali bensì affermate in qualità di certezze definitive”.
In ogni caso, in ambito sociale, e tenendo conto dello scorrimento incessante del flusso squilibrante del reale di cui abbiamo detto, l’equilibrio (apparente e transeunte) rinviene dall’emersione vittoriosa di un nucleo di decisori su altri nuclei in conseguenza di una precedente fase di convulsioni sociali, periodo che La Grassa indica come policentrico, “quale fu ad esempio l’epoca detta dell’imperialismo (in quanto conflitto tra quegli agenti definiti potenze)”. Con l’affermazione di un raggruppamento di decisori nella lotta per la supremazia viene stabilito un “bilanciamento”, in quanto le spinte opposte si integrano e, momentaneamente, si consolidano, tenendo sempre di vista però che il carico dei pesi viene orientato dai conglomerati (si pensi alle nazioni o aree di nazioni sullo scacchiere planetario) che esercitano una potenza maggiore sui loro correlativi.
Adottando l’impianto teorico di La Grassa e ponendo al centro della nostra visuale scientifica, ideologica, politica ed anche economica, il conflitto strategico e il fascio di pressioni squilibranti che lo forgia sottotraccia, possiamo ribaltare alcuni ordini di problemi (l’economicismo, per citarne uno) che i sacerdoti del sistema buttano volutamente in metafisica (la mano invisibile o l’ordine monetario irreversibile) unicamente per sottrarli ad una pericolosa critica, non perimetrabile a priori, in materia di mercato, produzione, società ecc. ecc.(i loro totem indiscutibili):
“Pur accettando, per semplicità, di suddividere (teoricamente) la formazione sociale nelle tre “sfere” dell’economia, della politica (in quanto apparati vari dell’attività “pubblica”) e dell’ideologico-culturale, è necessario rifarsi in ognuna d’esse allo svolgersi dello scontro per la supremazia – cui, come già rilevato, segue anche l’attività di cooperazione, alleanza, ecc. tra individui e gruppi di individui per meglio sostenerlo – che segue i principi delle strategie, delle mosse inerenti alla politica nel suo senso più proprio, non semplicemente intesa quale sfera formata dal complesso di apparati in cui il conflitto si condensa, precipita. Le strategie in quanto politica – anche quelle seguite dai “capitalisti”, cioè dai gruppi imprenditoriali in concorrenza fra loro – sono prevalentemente ispirate a principi altri rispetto a quello del minimo mezzo, pur utilizzando pure quest’ultimo in via sussidiaria.
La conflittualità (in base a strategie della lotta) deve sostituire il mercato quale “superficie” di quel “reale” che possiede un altro aspetto (“più profondo”), celato alla vista. La produzione – quella considerata in generale, con cui abbiamo iniziato questo scritto – è da considerarsi produzione disocietà, nel senso di articolazione (nella teoria) delle tre sfere sociali di cui sopra. Il soggetto di tale produzione si presenta quale agente nell’esplicazione delle strategie della lotta, che rappresentano i mezzi o strumenti applicati all’oggetto, pensato come insieme ancora informe di individui riuniti in un determinato “spazio”. Tale insieme è la materia prima, trasformata dai mezzi (strategie) di lotta utilizzati dagli agenti (soggetti) in un più articolato e “strutturato” conglomerato che è una formazione sociale, cioè in breve la società.”
Esistono, in un certo senso, due livelli di realtà, sostiene La Grassa, il livello più profondo dello squilibrio del reale “dovuto ad un flusso continuo di impulsi contraddittori che producono continue alterazioni dei rapporti di forza tra individui e gruppi con nascita di reciproci conflitti” e quello più superficiale dove primeggia il senso della compensazione e della quiete sociale relativa. Sovrano è però lo squilibrio del quale bisogna avere coscienza anche se non possiamo averne conoscenza, pena l’impazzimento o l’ingresso nella riflessione mistico-spirituale. Per questa ragione le pratiche sociali sono tutte improntate dal conflitto, sordo o più esplicito, ed è in quest’ultimo che i soggetti sono agenti (ed agiti da) di ruoli di conservazione o trasformazione che non escludono “volatili” alleanze o più durature “fedeltà”. Le teorie servono proprio a “costruire campi di stabilità” per confliggere nel mondo attraverso strategie variabili, in cui da meri agiti dalle funzioni sociali si diventa attori e creatori delle stesse. Come si può capire è la stessa razionalità dominante (quella del minimo mezzo per raggiungere determinati obiettivi, allegramente, armoniosamente e tutti insieme appassionatamente) che qui viene rimessa in discussione a vantaggio di una razionalità più ampia (e realistica) detta appunto strategica.
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Autori: Gianfranco La Grassa
Editore: Narcissus Self Publishing
ISBN: 9788867554447
Data Pubblicazione: 14/02/2013
Linguaggio: Italiano
“Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare attestati alla fonda dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi del viaggio, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale rotta effettiva si sta seguendo. Si può consultare la bussola quanto si vuole; se gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito.”