“Ma non cadiamo nella trappola” di Piero Pagliani
[Piccolo commento di G.P.]
Caro Piero, prima del tuo articolo mi permetto di fare un commento di precisazione, in quanto mi sono fatto portatore, nei miei interventi di questi giorni sulla guerra in Palestina, del concetto forte e diretto, per cui le vittime di ieri sono divenute i carnefici di oggi. Tu contesti, nella sua immediatezza, questa affermazione in quanto l’Olocausto e le radici dello Stato di Israele sono due questioni solo strumentalmente legate. So benissimo che le cose stanno così eppure, come del resto anche tu ammetti, l’attuale leadership israeliana giustifica la sua foia guerrafondaia e il suo istinto massacratore aggrappandosi costantemente e indebitamente a quei fatti (benché questi siano solo un pretesto per costringere la comunità internazionale a non muovere un dito e ad accettare l’arbitrio delle immani efferatezze commesse dai sionisti ai danni dei palestinesi).
Ritengo che nella storia ci siano momenti nei quali si deve andare dritti al problema senza sottigliezze intellettuali. Inutile negarlo, la giustificazione ultima utilizzata dai vertici israeliani resta lo sterminio avvenuto prima e durante la seconda guerra mondiale e se loro possono fare tale indebito collegamento, noi possiamo attaccarli sullo stesso terreno, rovesciando la loro mistificazione per depotenziare le loro stesse “armi” semantiche e ricattatorie.
Se capiscono solo questo linguaggio non possiamo fare altrimenti. E non ho certo l’esclusiva di questo pensiero e di questa corrispondenza che è condivisa anche da altri, come, solo per citare un nome su tutti, dal nostro Maestro Gianfranco
Ricordi il film “Nell’anno del signore” di Luigi Magni? Fosse stato per il popolo, i due carbonari Targhini e Montanari sarebbero saliti sul patibolo senza attendere nemmeno il pentimento richiesto con tanto trasporto cristiano dal frate-Sordi.
Naturalmente se vorrai inviarmi una tua replica sarò lieto di pubblicarla.
1. Di fronte alla evidente ingiustizia storica e ai continui massacri ai quali è sottoposta da decenni e decenni la popolazione palestinese da parte dei sionisti (prima di sinistra, poi di destra e infine riuniti) la sinistra ha reagito in modo sempre più confuso. Ad essere precisi, si può notare che questa confusione è aumentata di pari passo con l’indebolimento del fronte palestinese e con il declino delle capacità di comprensione della realtà da parte della sinistra.
Negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso era normale vedere l’ala moderata del cosiddetto “Movimento” avere come punto di riferimento Al Fatah e l’ala più estremista invece l’FPLP, il movimento marxista-leninista di George Habash, come era comune vedere entrambe le ali unite da slogan come “Palestina rossa, Palestina libera”. Sarà stata sicuramente una suddivisione schematica e certamente era frutto delle diverse interpretazioni marxiste di allora, ma questo passava il convento. All’epoca si teorizzava a volte persino una praticabile unità di azione tra i Palestinesi e i nuovi immigrati sefarditi in Israele perché (sentito con le mie orecchie da un dirigente palestinese marxista in un colloquio privato) “sia noi che loro siamo poveri” (e in più i sefarditi erano snobbati dall’establishment laburista askenazita). In altri termini, doveva per forza diventare operativa la tendenza all’internazionalismo proletario. Così si pensava all’epoca (e chi è senza peccato scagli la prima pietra). Ma così, come tutti sanno, non fu. I sefarditi divennero base di massa per l’ala revisionista del sionismo, “sdoganando” noti terroristi e stragisti, storici come Menachem Begin e un po’ più nuovi come Ariel Sharon. L’evolversi della situazione internazionale, di quella mediorientale e dei meccanismi politici-economici del capitalismo avrebbe però dovuto spingere verso revisioni e rielaborazioni “in avanti” di certi schemi dottrinari. E invece, lo sfilacciamento del pensiero politico di sinistra ha condotto a revisioni e rielaborazioni “all’indietro” che se da una parte creano diafani alibi opportunistici a chi ha deciso di transitare nella “parte opposta”, dall’altra creano spesso confusione in chi cerca di rivendicare posizioni anche solo di minima giustizia e dignità per il popolo palestinese e persino in chi tenta di dare una scossa salutare alle cellule grigie dei rimanenti anticapitalisti.
Assistiamo perciò a gruppi che continuano imperterriti a gridare “Palestina rossa, Palestina libera”, del tutto indifferenti al passare degli anni e al drammatico evolversi della situazione, oppure assistiamo a tendenze a cadere dritti e filati nella trappola tesa dall’avversario, tendenze che sembrano essere dettate da una (del tutto legittima) indignazione, unita però a una specie di senso di impotenza.
2. Sottolineare con disgusto moralistico durante il Ventennio che la stragrande maggioranza degli Italiani era a favore del Fascismo non avrebbe fatto fare un passo avanti nella lotta antifascista. Infatti il problema era come minare quell’unanimismo, come far mollare la presa ideologico-politica del Fascismo sugli Italiani. Ci pensò la guerra? D’accordo, ma ciò non toglie che dire “Italiani popolo di assassini” non passò mai per la testa a nessun antifascista e men che meno a nessun comunista.
Perché per un comunista dovrebbe essere ben chiara la differenza tra dominanti (che prendono le decisioni e le impongo, tramite imperio o per egemonia) e i dominati (che quelle decisioni o le subiscono o sono costretti a metabolizzarle).
Io non mi rammento di aver mai sentito dire (in discorsi politici, non in quelli uditi al bar) “Americani popolo di assassini” durante la guerra del Vietnam. Con tutto che anche in quel caso la stragrande maggioranza sosteneva patriotticamente ed ecumenicamente le varie amministrazioni (prima di sinistra e poi di destra) guerrafondaie, a partire dal proletariato (ve li ricordate gli operai edili che andavano a picchiare i manifestanti pacifisti – sempre relativamente pochi rispetto alla popolazione, come adesso in Israele? o, per chi ama il cinema, ve lo ricordate “Il cacciatore” di Cimino?).
Ma per quanto riguarda gli Ebrei, si cade nella trappola millenaristica del “popolo eletto”, ritenendolo – in questo caso nel male – come differente da tutti gli altri popoli.
Certo, mia madre dopo i lutti portati nella mia famiglia dal Nazismo, per almeno vent’anni visse di pregiudizi nei confronti dei Tedeschi e li smise solo dopo che, riluttante, l’avevamo convinta a visitare
Il pensiero politico non dovrebbe mai concedere a un popolo in sé, né una differenza in positivo né in negativo. Altrimenti si esce dalla razionalità e si entra nel mito.
Che è poi lo stesso mito di Shylock, del mercante-banchiere ebreo. Ora, in realtà, in Europa operavano varie “nazioni”, cioè reti di mercanti-banchieri aventi la stessa origine: la “nazione tedesca”, “la nazione genovese”, “la nazione lombarda” (non a caso la storica via delle banche a Londra si chiama Lombard Street). Quasi tutte erano più influenti e potenti della “nazione ebraica”. Eppure fu questa ad accendere più di tutte miti nefasti e animi intolleranti (senza contare che era uno dei pochi mestieri permessi agli Ebrei).
Quindi, alla larga dai miti e si tenga conto di un principio: i popoli sono innocenti sempre e i loro governanti non lo sono mai.
3. La seconda trappola in cui si rischia di cadere è quella che parte da una constatazione lampante: “Israele si trincera dietro l’Olocausto, Israele usa l’Olocausto come ricatto”. E’ vero, lo vedrebbe anche un cieco (ma non i nostri media che tuttavia sono considerati dal funereo Capezzone, portavoce di FI, “anti-israeliani). E questo è stato più volte denunciato anche da esponenti della cultura ebraica. Ma da qui a tollerare discorsi negazionisti c’è di mezzo un mare smisurato.
Dirò subito due cose:
1) Considero una barbarie giuridica la proibizione di professare opinioni negazioniste, pena il carcere (d’altronde tale la considera anche Noam Chomsky).
2) Io col negazionismo non ho proprio nulla da spartire. E anche se è evidente che “sei milioni” è un numero ideologico, il mio anti-negazionismo non ne risente. Ricordo un episodio di cui fu protagonista il fondatore dell’Opus Dei. Un giorno monsignor Josemaria Escrivà de Balaguer y Albás, a pranzo a Villa Tevere, sede romana dell’Opera, disse a padre Vladimir Felzmann, dirigente dell’organizzazione: “Hitler non era così malvagio: secondo me non ha ucciso più di tre o quattro milioni di Ebrei, non sei.” Così diceva il santo Escrivà, canonizzato da papa Woitiła alla presenza dell’onorevole D’Alema.
Nossignori: io non riesco a mandar giù l’Olocausto terrestre e nemmeno quelli celesti di Hiroshima e Nagasaki – e aggiungo Dresda, cosciente atto di stragismo terroristico. Anche se c’è chi si diletta in ricalcoli sul numero di morti. Il numero degli assassinati nei campi di concentramento non cambia una virgola né nella mia disgustata condanna dello sterminio nazista, né nel mio appoggio alla lotta dei Palestinesi (è addirittura elementare: forse che se gli ebrei sterminati dal nazismo fossero un milione avrebbero ragione i Palestinesi e se invece fossero dieci milioni avrebbero ragione i sionisti?).
E in più, questo terreno è una pura trappola di sabbie mobili.
Perché lo sterminio nazista degli Ebrei (che solo per brevità indicherò col termine ideologico di “Olocausto”) deve essere lasciato fuori da questa storia.
L’Olocausto non c’entra un bel niente col Sionismo e con Israele. Il Sionismo (politico) è stato fondato dal giornalista austro-ungarico Theodor Herzl negli ultimissimi anni dell’Ottocento, sull’onda del risorgimentalismo e in reazione all’antisemitismo europei, in particolare dopo l’affare Dreyfus (come al solito, la delusione delle promesse di progresso ed emancipazione porta a ritorni a fedeltà premoderne e identitarie; succede anche adesso, quindi non c’è da scandalizzarsi più di tanto). Fu poi il cosiddetto “sionismo pratico” che perseguì nella prima metà del Novecento con sforzo titanico e cinica determinazione la costruzione di uno stato ebraico nella Palestina già occupata da una stragrande maggioranza di Palestinesi musulmani, da una minoranza di Palestinesi cristiani e infine da minoranze di Armeni ed Ebrei. Non c’è qui lo spazio per fare lezioni di Storia, basti ricordare che questo “focolare nazionale ebraico” era l’ennesimo tragico strascico della politica imperialistica britannica, simile a quello forse ancora più tragico, che portò alla “Partition” tra India e Pakistan. Il cinismo dei dirigenti del “sionismo pratico” aveva i lati raccapriccianti di una ragion di stato in assenza di uno stato, anche ai danni – e che danni! – degli stessi Ebrei. Basti pensare che nel bel mezzo delle persecuzioni naziste Ben Gurion faceva di tutto per non far emigrare gli ebrei tedeschi in Palestina, finendo persino per chiamarli, in dibattiti in seno al Sionismo, “merce scadente” (perché erano commercianti e professionisti e non contadini adatti a colonizzare il paese come voleva lui – si veda “Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele”, Mondadori 2001, dello storico e giornalista israeliano Tom Segev).
I sionisti di sinistra alla Ben Gurion (cioè i “padri della patria”) si sono sempre disinteressati all’Olocausto, se non in alcuni casi in termini di un suo uso cinico come “incentivo” all’emigrazione in Palestina (a patto, si è visto, che non si trattasse di “merce scadente”; anzi, su questo punto c’è da dire che il sionismo revisionista di destra di Vladimir Jabotinsky era più “onesto” e contrario alle selezioni del sionismo laburista e socialisteggiante, che di fatto aveva la stessa matrice culturale (ripeto “culturale”, non ci si lanci in indebite generalizzazioni) del nazionalsocialismo – e questo non lo dico io, ma Zeev Sternhell uno dei massimi studiosi israeliani, specialista mondiale di storia del Fascismo, cfr. “Sionismo e nazionalismo” in G. Paciello, “La conquista della Palestina”, CRT 2004; per la cronaca Sternhell è stato recentemente ferito da una bomba di estremisti sionisti).
Come racconta Tom Segev, verso la fine della guerra i capi sionisti di sinistra furono presi dal panico. Erano convinti che se non avessero fatto per lo meno “a muina” gli ebrei superstiti non gli avrebbero perdonato la loro ignavia e la loro inerzia durante l’Olocausto. Così formarono i famosi reparti resistenziali ebraici, che spesso inviarono a farsi immolare per salvare in extremis l’onore del sionismo di sinistra (ma l’onore qui va solo a quelle eroiche donne e a quegli eroici uomini caduti sotto il fuoco e le torture dei nazisti).
L’imbarazzo era tale che anche dopo la proclamazione dello Stato d’Israele i sionisti ci misero almeno un lustro ad affrontare il tema “Olocausto”.
Il punto quindi non è che “i massacrati di ieri sono i massacratori di oggi”, perché il filo che lega Olocausto e Israele è men che frammentario, tardivo e pieno di reticenze. Anzi, bisognerebbe dire una volta per tutte che Sionismo e Israele storicamente non hanno pressoché nulla a che vedere con l’Olocausto (il che non vuol negare che Israele possa essere considerata una “patria” – reale o ideale – da scampati dai campi di concentramento, perché le cose anche in questo caso sono complesse).
Se non si fa così, tra l’altro, si rischia o di sentirsi in dovere di negare l’Olocausto (facendo il gioco di Israele e della masnada dei servi filosionisti nostrani) o di finire in quei discorsi demenzial-psicanalitici, fatti con cipiglio serio ad esempio sul “Manifesto” o su “Repubblica” all’epoca della prima invasione del Libano, per cui ci si incarta a cercar di capire per quali psicopatologie i torturati torturano così come i violentati violentano. Insomma deliri prepolitici.
Qui siamo di fronte a uno Stato la cui legittimità internazionale non è ancora compiutamente stabilita (checché ne dicano quelli che si rifanno alla famosa risoluzione ONU del 1947, perché quella risoluzione “consigliava” la creazione di due Stati in Palestina, ma non aveva il potere di imporla agli abitanti della Palestina), uno Stato sorto grazie a un movimento che quasi fin da subito si è suggerito come testa di ponte coloniale dell’Occidente, uno Stato infatti che appena formato si è subito alleato con le due fatiscenti potenze coloniali europee (Francia e Inghilterra nella guerra di Suez) e che dopo un attimo di sbandamento ha capito che doveva cambiare cavallo e offrire i propri servigi agli USA. Cosa che fa tuttora.
Dunque, niente “popolo di assassini”, nemmeno con “se” e con “ma”. Sono ferocemente contrario all’idea di “colpa collettiva”: per me la responsabilità è sempre personale e in primis pertiene ai dominanti.
E poi niente ex massacrati che massacrano, niente psicanalisi.
Puro, semplice e banale do ut des a fini imperialistici – in funzione subordinata, altro che Israele e lobby ebraica al comando sugli Stati Uniti (solita ossessione antimondialista).
4. Israele sente che il vento sta cambiando. Probabilmente non ha chiaro se gli USA avranno la possibilità economica e militare, né magari la convenienza, di sostenerli come hanno fatto fino ad ora. E’ da un po’ che è in preda a convulsioni politiche interne e si muove come un peso massimo suonato, potente ma senza strategia. E con ciò diventa ancor più pericoloso, basti pensare a tutte le sue testate atomiche.
Aveva ragione Chomsky a dire che le atomiche israeliane sono politicamente puntate contro l’America e l’Occidente in modo ricattatorio: “Sostenetemi in tutto o io posso agire in modo sconsiderato contro i miei nemici”. E ricordo che non è un atteggiamento nuovo, ma una costante: negli anni Cinquanta il premier israeliano Moshe Sharett era preoccupato perché il proprio ministro della difesa Pinhas Lavon “predicava costantemente atti di follia” o “la furia cieca” nel caso in cui Israele fosse stato offeso.
Insomma, Israele rischia di diventare una bomba atomica vagante. Che altro significa la dichiarazione di Martin Van Creveld, professore di storia militare presso l’Università Ebraica di Gerusalemme: “Possediamo centinaia di testate atomiche e di missili e possiamo lanciarli in ogni direzione, ad esempio persino a Roma. La maggior parte delle capitali europee sono obiettivi delle nostre forze aeree […]. Abbiamo la possibilità di trascinare giù il mondo insieme a noi. E posso assicurarvi che questo accadrà prima che Israele affondi.” (Elsevier, 2002, (17), p. 52-53, 27 aprile 2002).
Io, da padre di famiglia, sono spaventato ad avere un vicino del genere. Questa è la reazione prepolitica, precordiale. La ragione mi dice che per disinnescare questa bomba atomica vagante bisogna intanto disinnescare la sua ideologia: Israele deve diventare uno stato post-sionista. Ciò sarà possibile solo se quel vento finalmente inizierà a girare con decisione da un’altra parte. Non si otterrà con disquisizioni filosofiche sul Bene e sul Male, anche utili ma collaterali o forse solo ancillari ai sommovimenti politici e geopolitici. Poi si potrà seriamente pensare all’unica soluzione possibile: uno stato unico, eventualmente federale, aconfessionale e democratico in Palestina.
Utopia? Già! E quella dei “due popoli-due stati” come la si può descrivere? Solo un’utopia e per giunta tragica. Un’utopia al servizio delle aggressioni imperialistiche.
Piero Pagliani