Ma quale guerra mondiale! Datevi una calmata!

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Improvvide cassandre autoreferenziali, munite di una grande considerazione per se stesse, annunciano l’imminente approssimarsi di una Terza guerra mondiale per impressionare il loro sparuto pubblico di lettori adoranti e poco riflessivi. Addirittura, qualche filosofo la cui lingua corre più del pensiero e batte lì dove l’editoria vuole parla già di IV guerra mondiale, ma sono fantasie di cialtroni che offrono merce scadente per incrociare la domanda di rincoglionimento generale. Il Papa invece, esce fuori dalla grazia di Dio e si cimenta anch’egli con la geopolitica, dimenticando le impellenze improcrastinabili del suo santo ufficio che va letteralmente a ritrecine, sostenendo la tesi del conflitto globale a tappe o a pezzi, il quale rappresenta, quanto meno, una contraddizione in termini di non poco conto.
Basterebbe ricorrere alla saggezza di qualche autore antico che la guerra l’ha analizzata con dovizia di categorie astratte e particolari concreti per non incorrere in simili amenità. Von Clausewitz, sosteneva, per esempio, che non solo la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi ma, ancor più cogentemente, che la guerra è solo uno degli strumenti della politica al quale si ricorre quando tutte le altri “armi” risultano inadeguate allo scopo, date le circostanze epocali.
Analizzando seriamente il periodo storico in cui ci troviamo – alla porta d’ingresso di un multipolarismo appena accennato, in cui gli schieramenti mondiali sono estremamente fluidi e cangianti – risulta difficile trovare queste caratteristiche decisive che dovrebbero condurre alla belligeranza totale tra blocchi contrapposti. Oggi, nemmeno gli Usa che restano la superpotenza principale, seppur in via di ridimensionamento, hanno la minima intenzione (e la forza) di annientare il nemico scontrandosi frontalmente con esso. Piuttosto, intendono limitare l’iniziativa e controllare, con azioni di disturbo (lavoro d’intelligence, infiltrazioni dietro le linee, provocazioni, propaganda, conflitti a bassa intensità ecc. ecc.) le eventuali proiezioni dei competitori egemonici nelle aree strategiche e nei settori economici avanzati, di cui non intendono rinunciare al monopolio. Per fare questo non occorre passare dalle minacce ai fatti, se non in casi specifici e marginali, come atto di prevenzione di guai più grandi. Il prezzo del successo sarebbe troppo alto considerata la fase storica. Sempre Clausewitz dice che dominando lo scopo politico è il valore di questo che determina la misura dei sacrifici militari da mettere in conto, e se anche lo scopo politico dovesse generare una tensione troppo elevata risulterebbe più appropriato ricalibrarlo piuttosto che ricorrere alle maniere forti, senza le dovute valutazioni di costi e benefici. Insomma, anche nelle proprie pretese politiche uno Stato o un gruppo di Stati con comuni interessi deve metterci del realismo per non commettere errori gravi e rischiare di perdere tutto il piatto.
Nel nostro presente non siamo ancora giunti a quel punto culminante in cui una parte del campo è convinta di poter ottenere la vittoria sull’altra attraverso un conflitto diretto e decisivo. Persino gli schieramenti non sono così saldati da costituire vere e proprie alleanze stabili pronte a tutto per aggiudicarsi la vittoria.
Scrive in proposito la Grassa: “quando si arriva al punto culminante del conflitto, le alleanze si fanno più ampie e più strette al fine di ridurlo, nella sostanza, allo schema duale dell’individuazione del nemico per eccellenza. I nemici, in ultima analisi, diventano due, nel senso ovvio che ognuno è nemico per l’altro. E’ a questo punto che la politica si trasforma in vera guerra (la clausewitziana continuazione della politica con altri mezzi). Fin quando non si arriva al punto culminante, la politica continua con mezzi diversi (un cui aspetto visibile è la diplomazia; poi c’è l’attività di Intelligence e altre), proprio perché si tratta di un gioco conflittuale tra più giocatori (o più gruppi di giocatori, che costituiscono fra loro alleanze, spesso assai labili). Non si può entrare veramente in guerra se un giocatore (in genere un gruppo alleato di giocatori) non ha davanti a sé un altro giocatore che è il nemico, quello per eccellenza e unico nella congiuntura data. Altrimenti, si hanno scontri minori, con nemici di volta in volta mutevoli, in un gioco ambiguo di subdole alleanze estremamente fragili e aperte allo scioglimento, al passaggio di campo di vari giocatori, ecc. Nella vera e propria guerra, le alleanze sono più stabili (salvo alla fine, nella sconfitta di una delle due alleanze, quando qualcuno cerca di evitare la batosta definitiva). Tuttavia, anche all’interno di ogni alleanza si tramano mosse varie, per trovarsi a fine guerra in posizione di vantaggio. Nello stesso tempo, continuano pure i rapporti con il nemico, in genere con i vari membri dell’alleanza contrapposta presi separatamente l’uno dall’altro”.
Vi pare, onestamente, di essere arrivati a tale punto critico nei rapporti mondiali tra le potenze tanto da prevedere una deflagrazione imminente? Lasciate perdere certi cazzoni i quali sostengono che staremmo andando verso la guerra a passi di gigante, sono piuttosto loro che avanzano nell’analisi politica a passi di formica o addirittura di gambero, disegnando scenari improponibili frutto di una fin troppo fervida immaginazione. Se la loro non è paranoia è malafede.