MAFIA CARDINALE (di Roberto Di Giuseppe)

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Roma non è mai stata una Capitale nel senso nazionale della parola. E’ stata ed è in primo luogo Capitale di se stessa. Fino a Costantino è stata Capitale di un impero, poi, fino ai giorni nostri,  Capitale dell’universo cattolico.

Perfino nell’epopea poco gloriosa dello Stato pontificio, Roma ha svolto malamente e controvoglia la sua funzione di centro coerente di un’organizzazione statale. Corpo estraneo da sempre di tutto ciò che territorialmente la circonda, Roma non ha mai saputo essere altro che Potenza, dominante o decaduta; sfruttata più per il suo nome e la sua storia che non per la sua effettiva funzionalità.

Forse, l’unico momento in cui Roma avrebbe potuto, a tutti gli effetti, assurgere al ruolo di Prima Città di un contesto di unificazione nazionale, fu quello dell’esperienza della Repubblica Romana del 1849, coraggiosamente difesa da Garibaldi ed affossata non solo dagli zuavi francesi, ma non di meno, dalle beghe politichesche di Giuseppe Mazzini, noto tritacarne di Giovani Italiani, fanatico dell’ “Armiamoci e Partite” e fedele amico dell’imperialismo inglese nonché del suo scodinzolante cagnolino francese.

Morta precocemente quell’esperienza, l’obiettivo di Roma Capitale di uno Stato nazionale italiano, non fu altro che il tentativo di collegare la francofona dinastia savoiarda alle passate glorie imperiali dell’Urbe, allo scopo di legittimarne un’opera di effettiva conquista territoriale, più che di unificazione nazionale. Oltretutto saltando bellamente sul fatto che proprio la natura extra-nazionale dell’esperienza romana, in primo luogo col costante richiamo imperiale, riecheggiante lungo tutto il medioevo e quindi, specularmente, con il richiamo diretto “alla Città e al Mondo” (Urbi et Orbi) dell’universalismo cattolico, era stata uno degli ostacoli culturali più alti ed invalicabili del processo di unificazione nazionale italiano.

Se Capitale di uno Stato unitario in Italia doveva esserci, sicuramente avrebbe dovuto essere Firenze. L’unica città italiana da cui sia mai realmente emanato un serio anelito di coerente unità nazionale. Roma come detto fu scelta solo per legittimare una dinastia che conquistò, non unificò il territorio nazionale. Spesso sfruttando vittorie non sue, francesi, garibaldine o prussiane che fossero.

Non ci si lasci ingannare dal grido di “Roma o Morte” di taglio romantico-garibaldino, preso a cannonate nel 1862 sulle montagne dell’Aspromonte dai bersaglieri di La Marmora e sconfitto, sia pure gloriosamente a Mentana nel 1867. Dietro quello slogan un po’ slavato, stava uno scontro strategico-politico ben più ampio e dirimente tra chi disegnava un’unificazione ammantata di realismo, sotto la cappella francese e chi, poggiandosi ancora una volta invano sul carisma garibaldino, premeva per un processo più coerentemente nazionale, al di là delle pur pesanti compatibilità esterne. Un conflitto che da sempre vede perdente la seconda opzione e che tutt’ora ci attanaglia.

La presa di Roma, attraverso la famosa “Breccia di porta Pia”, fu dal punto di vista militare ed ancor più politico, poco più che una recita teatrale. Tra i 15 e i 20 morti su 13.000 effettivi per le truppe papaline, intorno ai 50 morti su 50.000 effettivi per le truppe italiane. Ordine preventivo emanato ai papalini, di alzare bandiera bianca non appena gli italiani avessero fatto breccia nelle mura. Cosa che puntualmente avvenne. In realtà, già parecchi mesi prima di questo “storico evento”, erano partite, ancora segretamente, le lottizzazioni per le future speculazioni edilizie che avrebbero portato all’urbanizzazione del futuro quartiere umbertino all’Esquilino, della zona di Prati, di via Nazionale, Via Cavour e adiacenze, con anche la scomparsa di alcuni dei più begli orti di Roma per fare spazio alla futura stazione Termini. Luoghi destinati ad ospitare la nuova burocrazia piemontese e la nuova borghesia italica. In altre parole una “resa ed una presa” su sfondo di carta pesta.

Roma, esperienza del 1849 a parte, non ebbe nessun ruolo di rilievo nel processo di unificazione nazionale. Non lo ebbe perchè, a torto o a ragione, non lo sentì mai suo. Non è un caso che da allora in poi, la città si dibatta costantemente tra due poteri, quello governativo, con tutte le sue sotto-diramazioni e quello dello Stato vaticano, con logico scadimento dell’autorevolezza e del prestigio del primo nei confronti del secondo, assai più antico e “scafato”. Nè è un caso che anche il più pidocchioso e sperduto paesotto della più scalcinata provincia italiana, pensi di poter vantare gloria e passato almeno pari a quelli di Roma, proprio perchè nessun italiano sente davvero Roma come la sua Capitale, nè sente quella storia come sua, se non forse per brevi tratti.

Roma, finta Capitale di uno Stato debole, debolmente costituito e come tutti i deboli, servile con chi sta sopra e feroce con chi si trova sotto, ha fin da subito vissuto questa dicotomia nella forma di freno burocratico, lassismo e corruzione. Non è il “ponentino”, ormai del tutto scomparso, il vero motivo dell’accidia romana, ma la permanente sovrapposizione di provenienze disparate e diverse, incapaci di sintesi perchè prive di un comune terreno unificante, destinate ad una reciproca, ineluttabile paralisi. A Roma c’è ormai di tutto tranne che, nel bene come nel male, qualcosa di autenticamente romano. Capitale corrotta di una Nazione infetta, o piuttosto Capitale disanimata di uno Stato privo di Nazione.

Finché ha tenuto luogo il capitalismo di stile ottocentesco, di matrice franco-britannica, sia pure solcata da una mai cancellata vena di speculazione edilizia, l’amministrazione romana ha mantenuto uno standard accettabile, con punte positive quale quella della “giunta Nathan” che governò Roma, modernizzandola non poco, tra il 1907 ed il 1913 ed aspetti più controversi, come i muraglioni sul Tevere, capaci si di porre fine alle periodiche inondazioni fluviali, ma anche di interrompere il millenario rapporto tra la città ed il suo fiume.

A partire però dalla fine degli anni cinquanta del ventesimo secolo e più ancora negli anni sessanta, con l’avvento del capitalismo di stampo statunitense, l’amministrazione capitolina ha assunto sempre più l’aspetto di un crocevia di affari privo di altro scopo se non quello della creazione e dell’allargamento di spazi corruttivi a cui subordinare ogni aspetto della vita della città.

L’esperienza delle primissime giunte di sinistra nella metà degli anni settanta, in particolare quella del sindaco Petroselli, hanno avuto le caratteristiche di un fuoco effimero come le sue famose “Estati Romane”, spentosi assai presto.

A partire dai primi anni settanta poi, l’intreccio affaristico-corruttivo già largamente presente, ha mostrato un profondo salto di qualità con l’inserimento di rapporti e pratiche di stampo nettamente mafioso. Delinquenza comune, delinquenza politica, Servizi dello Stato più o meno deviati, interessi corporativi e potentati locali si sono cementati in un groviglio inestricabile, nel quale il potere vaticano ha giocato e gioca tutt’ora una sua grande parte.

La città ne è risultata soffocata e distrutta. Nient’altro che un nucleo di bagliori antichi solcato da un mare compatto di lamiere e cinto di periferie degradate. A Roma si vive benissimo, basta non essere romani, basta non avere a cuore la città, basta non voler vedere lo scempio che se che fa quotidianamente o più semplicemente, basta avere i soldi per comprare un pezzo della sua Grande Bellezza.

Ora le ultime elezioni amministrative, hanno portato al vertice capitolino un nuovo nucleo di politicanti. Forze nuove per sempre nuove illusioni. Uno schema già visto ma sempre funzionante. Nessuno, né i vincitori, né i vinti della recente competizione elettorale, ha parlato del vero cancro di Roma; questa dicotomia tra potere statale e potere vaticano che indebolisce e sclerotizza il tessuto connettivo ed amministrativo della città. Mafia Capitale è assai più Mafia Cardinale di quanto non si pensi. Ma nessuno pensa, neanche lontanamente, ad anche solo tentare l’attacco a questa fortezza maligna. Tutti tengono famiglia, o magari pure più di una. E’ per questo che questa volta più che mai, di votare non valeva proprio la pena.

Il vero simbolo di Roma oggi non è più la Lupa gloriosa, ma il Gabbiano fetente che ha invaso ogni angolo della città e la domina dall’altro, nutrendosi di topi, carogne e spazzatura. Esempio naturale per chi sa vivere davvero questa città, mangiando e digerendo di tutto senza andare poi troppo per il sottile.

 

Roma 7 luglio 2016