MARPIONNE E LA FIAT di G.P.
L’accordo di Mirafiori rappresenta un terremoto nelle relazioni industriali in Italia perchè inaugura la stagione dell’unilateralismo degli obblighi contrattuali imposti dalle aziende alle maestranze ed ai sindacati. Sotto quest’ultimo aspetto, il depotenziamento degli organi confederali, chiamati ad approvare ex-post quanto stabilito dalla direzione d’impresa senza poter dettare ulteriori condizioni, costituisce un elemento non del tutto negativo poichè toglie potere di negoziazione a burocrazie rappresentative solo di sé stesse ed assolutamente non adatte a tutelare gli interessi dei lavoratori.
D’altro canto tale metamorfosi dei rapporti di forza viene gestita da spezzoni di classe manageriale e da vertici proprietari che incarnano la parte più retriva del sistema produttivo italiano, quelli che si orientano verso i fattori puramente finanziari, sulle operazioni di scorporamento societario, sulle razionalizzazioni di processo e la compressione salariale per far salire il valore delle azioni in borsa e staccare cedole a proprio vantaggio. Non vi è, pertanto, in queste elite che raschiano il truogolo e non disdegnano di allungare le mani nelle casse statali nessun interesse ad operare su ciò che davvero può rilanciare i profitti, ovvero sull’innovazione di prodotto, la ricerca tecnologica, il desing, ecc. ecc.. Ma sono questi elementi, soprattutto in un settore ultramaturo come quello dell’automobile, che permettono di aggredire il mercato e di far fronte alla concorrenza spietata dei competitors internazionali. Di queste novità non c’è nemmeno l’ombra nella testa di Marchionne ed i suoi fantomatici investimenti non sembrano essere avviati alle sopradette necessità industriali. C’è un trucco grande come una casa dietro le dichiarazioni futuristiche dell’Ad italo – canadese il quale predica ai dipendenti un cambio palingenetico di mentalità ed un rovesciamento di quelle logiche obsolete che hanno frenato la produttività del sistema (è vero che per un’ora lavorata rendiamo meno degli altri paesi cardine di Eurolandia) ma esclusivamente per coprire con una patina verbosa il suo prosaico conservatorismo da padrone delle ferriere e le sue preferenze per i giochetti borsistici. L’unico che ha detto queste cose in faccia al manager abruzzese, pur non lesinando sui complimenti (ma ormai è una moda inchinarsi di fronte a questo genio dei risanamenti invisibili) è stato l’ex democristiano Cirino Pomicino dalle pagine di Libero. Ed è stato costui a far notare all’uomo del miracolo Fiat-Chrysler (questo è il periodo degli uomini premiati ed incensati per la mera manifestazione di buone intenzioni, come insegna il conferimento del nobel ad Obama) che non basta ritoccare i ritmi di lavoro per ottenere il successo economico. Le auto si vendono se incontrano i gusti dei consumatori, ovvero se rappresentano un prodotto migliore rispetto a quanto disponibile sulla piazza. Al momento Fiat è in grave ritardo sugli standard di qualità garantiti da marchi come Volkswagen, BMW, Audi e persino Renault. E sembra difficile che tale gap possa essere colmato con chiacchiere e proiezioni profetiche di cui al Lingotto si fa uso smodato. Marchionne frequentando l'America avrà pure acquisito un certo pragmatismo tipico di quell'area ma al momento prevale in lui un meno nobile “marpionismo” italico. Sarà anche per questo che il sito Dagospia lo ha ribattezzato Marpionne. Per finire direi che non resta che osservare le prossime mosse di Fiat e giudicare secondo i risultati, tuttavia poiché sono diffidente rilancio anch’io la provocazione di Pomicino: come mai in Italia siamo circondati da managers che tutto il mondo ci invidia eppure siamo ridotti con le pezze al culo?