MARX-MARXISMO
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A dir la verità contravvengo con questo scritto alla mia raccomandazione di dedicarsi principalmente alla teoria di fase. Tuttavia, che ci posso fare: sono anche un vecchio marxista e mi infastidisco quando leggo pesanti incomprensioni di Marx, quando si fanno dire a questo grande pensatore, e a molti suoi seguaci di rilievo, alcune sciocchezze o comunque tesi mai sostenute. Le riflessioni che seguono mi sono state sollecitate dal pezzo di Mauro (Tozzato) sulla nuova destra. Sia chiaro che non è Mauro a distorcere il pensiero marxista. In ogni caso, com’è mia abitudine, andrò pure a zonzo per i fatti miei. Anticipo subito che certi lettori di Marx, soprattutto filosofi, hanno un’impostazione culturalistica e non riescono proprio ad entrare in quel discorso di carattere principalmente strutturale.
D’accordo, io stesso non penso all’esistenza reale di strutture del mondo. Sono convinto che esse siano create dal nostro modo di pensare. Tuttavia, è sempre il solito problema. Inutile perseguire il fine, a mio avviso irraggiungibile, di cogliere e riprodurre la realtà che fluisce (e credo senza tanto ordine). Bisogna rassegnarsi: siamo dentro processi che ci trascinano, giochiamo un gioco che in effetti ci gioca. Tuttavia, non c’è gioco senza giocatori, non c’è processo oggettivo senza i suoi portatori soggettivi (ripeto quanto già scritto da poco). In quanto siamo questi portatori, questi giocatori, organizziamo i nostri movimenti, le nostre azioni, secondo determinati schemi d’ordine – che implicano la costruzione di strutture interpretative, base di previsioni e progetti – attribuendo ad essi determinate regole che debbono essere seguite. Poi gli eventi, come ben si sa, evolvono in modi imprevisti: ciò viene spesso denominato eterogenesi dei fini, espressione molto raffinata per significare la nostra scarsa comprensione di quanto accade e la sempre errata previsione dei risultati del nostro agire.
E’ in ogni caso molto meglio non muoversi a casaccio, bensì dotando il mondo di strutture (da non irrigidire credendole la vera realtà) e dunque di reti di percorsi orientati in certe direzioni, lungo i quali incamminarsi. Così hanno pensato Marx e i marxisti; dunque, quando si danno giudizi su personaggi simili, sarebbe bene tener conto di come hanno costruito le loro teorie. Un conto è accusare certi (falsi) marxisti di economicismo, un altro è ignorare che la società, per un marxista, è un sistema strutturato di rapporti sociali definiti in base a precise regole di pensiero. Colui che di una crisi non sa vedere altro che gli aspetti economico-finanziari, che predica crolli del capitalismo per caduta del saggio di profitto (il termine tendenziale non lo salva!), che è convinto dello strapotere di chi ha semplici ricchezze, ecc. è appunto un rozzo economicista, non un marxista. Chi considera la formazione capitalistica come rete di rapporti sociali, cui attribuisce una precisa struttura in base a determinati criteri onestamente e chiaramente esposti, è un serio pensatore di teorie della società.
Mi ha lasciato sorpreso leggere che alcuni accusano i marxisti di razzismo, di volontà di sopprimere le differenze, perché propugnano una società comunista pensata – e questa interpretazione è corretta – quale società senza classi. Intanto, diciamo subito che i comunisti marxisti, a partire dal fondatore, non hanno mai parlato di sopprimere le classi, mentre hanno in realtà sostenuto di essere portatori, quindi coadiutori, di un processo oggettivo indirizzato al comunismo, indicato (mi dispiace ripetermi per l’ennesima volta) quale “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E tale movimento passerebbe per due gradini o fasi: il socialismo (“a ciascuno secondo il suo lavoro”) e il comunismo vero e proprio (“a ciascuno secondo i suoi bisogni”).
In ogni caso, si sarebbe trattato di un processo per tappe, considerato inscritto nel movimento stesso della socializzazione dei processi produttivi quale dinamica specifica del capitalismo (del suo modo di produzione storicamente determinato), dove tali processi sono appunto strutturati dai rapporti tra (classi di) individui, rapporti specifici di detto modo di produzione. Quindi nessuna volontà di sopprimere le classi per semplice “odio” (di classe appunto), ma consapevolezza di essere in sostanza esecutori di un’oggettiva trasformazione dei rapporti sociali. L’adempimento di tale compito ha poi conosciuto la divaricazione – semplificando all’osso – tra le pratiche presunte riformiste del-
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la socialdemocrazia kautskiana, divenuta sempre più integrata alla riproduzione dei rapporti capitalistici, e la pratica rivoluzionaria di stampo leninista, anch’essa poi finita malamente (in entrambi i casi, il discorso diventerebbe lunghissimo, e ormai inessenziale).
Il problema cruciale non è però nemmeno questo. Sta invece nell’incomprensione totale, da parte di quelli che credono al razzismo dei marxisti, del concetto di classe, che non ha carattere meramente culturale (questo è semmai derivato) bensì strutturale. Altrimenti, non si capisce in che senso si parla nel marxismo di struttura (base) e di sovrastrutture (non a caso al plurale); si può considerare semplicistico (e deterministico) il rapporto base/sovrastrutture (e così pure l’elementare riferimento ad una possibile azione di ritorno delle seconde sulla prima), ma si tratta comunque di una critica del tutto diversa da quella relativa alla presunta volontà di soppressione delle classi. Ancor più incomprensibile diventa l’affermazione marxiana (e marxista) secondo cui il comunismo avrebbe realizzato nella sostanza quell’individualismo affermato solo nella forma dal liberalismo. L’enfasi posta sull’individualismo esclude qualsiasi idea di società senza classi in quanto forzato livellamento, massificazione, repressione delle differenze.
Il concetto di classe è definito da Marx in base alla proprietà (potere di disporre) o meno delle condizioni oggettive della produzione, cioè della terra e dei mezzi di produzione: questi ultimi essendo sia gli oggetti di lavoro (grosso modo le materie prime) sia i mezzi o strumenti di lavoro (quelli che trasferiscono l’attività lavorativa umana sugli oggetti di lavoro, trasformandoli in prodotti utili al fabbisogno degli individui, stretti in forme storicamente determinate di rapporti in società). La struttura, forse troppo semplificata, di questi rapporti è dunque, nella peculiare forma capitalistica, quella della relazione tra proprietari privati dei mezzi produttivi (cioè individuali, dove individuo può essere anche un gruppo proprietario, e dove privato non ha lo stesso significato solo formale che ha in campo giuridico) e possessori di forza lavoro; possessori liberi da vincoli personali nei confronti dei suddetti proprietari, e che quindi vendono a questo o quello di loro (ma a qualcuno devono venderla se vogliono vivere) la propria capacità lavorativa in qualità di merce.
Sempre secondo Marx, nelle società precapitalistiche i produttori non avevano solitamente il potere di disporre dei mezzi di produzione, però nel senso di essere privi del potere politico e ideologico che controllava rigidamente l’intero corpo sociale, potere in mano a dati gruppi di dominanti. Il capitalismo (modo di produzione) si va formando nel corso di quel processo storico definito accumulazione originaria del capitale, che costituisce solo una sua (necessaria) premessa, conducendo alla dissoluzione, o comunque decisivo allentamento, dei vincoli feudali di dipendenza personale dei produttori rispetto ai dominanti, alla diffusione delle forme mercantili – e della competizione per loro tramite – e alle prime concentrazioni di mezzi di produzione in mano a gruppi proprietari, mentre si vanno accrescendo all’altro polo masse di produttori liberi, costretti a vivere tramite vendita della loro forza lavoro divenuta merce. Il vero salto rivoluzionario si ha però con l’industrializzazione, non considerata da Marx alla stessa stregua degli altri storici di questo processo: egli ne individua l’aspetto essenziale e fondante nel vasto e radicale movimento che conduce alla separazione delle potenze mentali della produzione, sussunte nel capitale (direzione dei processi produttivi), dal lavoro manuale o comunque soltanto esecutivo, ormai oggettivamente subordinato alla direzione capitalistica, anche indipendentemente da una pura costrizione coercitiva personale.
Una volta verificatasi tale separazione, se Marx avesse semplicemente pensato alla rivolta dei lavoratori subordinati al fine di sopprimere (per odio) la classe dei capitalisti (proprietari dei mezzi produttivi), si sarebbe trattato fin dall’inizio di un processo “rivoluzionario” destinato all’insuccesso perché esclusivamente distruttivo, mentre ogni marxista sa benissimo che una vera rivoluzione, dopo una transizione caotica, deve condurre a un nuovo ordine. Quest’ultimo non viene creato da chi sa solo eseguire i processi lavorativi, senza essere in grado di dirigerne le diverse fasi e il coordinamento d’insieme; così, si arriva invece al disordine, alla disorganizzazione con conseguente paralisi della produzione (non a caso, Lenin dopo la rivoluzione, da uomo concreto qual era, fece ampio appello agli specialisti borghesi, li considerò necessari per tutta una fase).
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Come venne invece in testa a Marx la possibilità dell’innesco di un movimento realmente rivoluzionario nei punti alti dello sviluppo capitalistico? Studiando i processi di centralizzazione capitalistica, che alcuni marxisti “della domenica” hanno interpretato quale mero passaggio da una forma di mercato (concorrenza) ad un’altra (monopolio). In realtà, il processo decisivo, che Marx credeva di aver individuato (e che era comunque realistico, nient’affatto una fantasia utopistica), era quello dell’estraneazione di una ristretta classe di capitalisti/rentier, divenuti semplici proprietari di capitali azionari e finanziari e percettori di quasi rendite (i dividendi e gli interessi), dalla produzione dove sarebbe invece avvenuta la riunione tra lavoro direttivo (capace di padroneggiare le potenze mentali produttive) e lavoro manuale, comunque esecutivo.
Non si trattava però più di piccoli produttori mercantili (artigiani, piccoli proprietari contadini) che in sé riunivano i due tipi di lavoro – come sostenuto dai “romantici” e reazionari “socialisti” alla Sismondi o Proudhon, ecc. – bensì di una nuova unione, non certo priva di contrasti, di questi due lavori nell’ambito del corpo produttivo nel suo insieme. Solo il riunirsi del lavoro esecutivo con quello direttivo garantiva il possesso collettivo (non individuale, in nessun senso del termine individuo, anche inteso come gruppo separato dagli altri dal diaframma mercantile) dei mezzi produttivi impiegati; garantiva quindi che i grandi processi di socializzazione della produzione, messi in opera dal capitalismo, giungessero al loro fine di una produzione veramente sociale e destinata ad essere “equamente” distribuita (in base ai bisogni da soddisfare da parte di ogni individuo) tra tutti i membri di questa nuova forma dei rapporti sociali.
Nessuna soppressione, dunque, di una classe da parte di un’altra, per puro odio e/o vendetta, ma fine, anzi progressiva estinzione, della divisione in classi sancita dalla proprietà privata (quindi particolare) dei mezzi produttivi. Senza più questa forma privata della proprietà non ha alcun senso parlare ancora di classi. Lo ha invece parlare dell’individuo che – liberato dalla costrizione al lavoro dovuta alla scarsità dei valori d’uso (non bastanti, in epoca capitalistica, a soddisfare i bisogni di tutti, secondo la richiesta di ognuno d’essi) – sarebbe stato, nei limiti dell’ordine sociale, libero di sviluppare la sua personalità, le sue inclinazioni, la sua specifica originalità e creatività.
Chi vuol criticare Marx lo critichi su questa base. Lo critichi, come faccio io, perché le sue previsioni relative alla dinamica dei rapporti capitalistici non sono state rispettate dalla realtà del processo storico nel secolo e mezzo successivo alla sua teorizzazione; perché l’elemento della proprietà (sia pure non giuridico-formale, ma come reale potere di disporre) non è così fondante come si poteva realisticamente supporre a quel tempo, pur se non va nemmeno oggi trascurato; ecc. Non ci si lanci invece in superficiali e totalmente errate contestazioni, facendo passare Marx per sciocco e solo utopista. Non si è capito alcunché di questo pensatore né della sua polemica contro i socialisti reazionari prima citati. Se non lo si conosce, lo si lasci stare, altrimenti si fa la figura dei perfetti ignoranti. Non si vogliono assegnare strutture al mondo? Padronissimi di farlo, nessun medico ha ordinato una diversa condotta. Si lasci però perdere un pensiero che sulle strutture (proprietarie) delle varie formazioni sociali, e dunque del capitalismo (modo di produzione) in particolare, è impostato. Quando non si è in grado di comprendere l’abc di un pensiero, lo s’ignora e si segue quello verso cui ci si sente portati. Un simile comportamento è perfettamente onesto e conseguente; altrimenti, mi dispiace, si è veramente disonesti e anche peggio. Basta con i pasticcioni e gli incompetenti!
I maggiori filosofi marxisti – da Lukàcs ad Althusser, che pure furono piuttosto antitetici; e lo stesso discorso vale per quelli italiani: da Labriola ai più recenti Della Volpe e Colletti, Luporini e Badaloni, e via dicendo – avevano, bene o male, dedicato gran parte della loro attenzione alla critica dell’economia politica. I filosofi attuali, anche pretesi marxisti, non la conoscono, non se ne curano minimamente. Allora, lo ripeto, lascino stare Marx, non capiranno mai nulla di tale autore, inanelleranno una fesseria dietro l’altra. Perché fare la figura degli imbecilli quando si può essere più che dignitosi filosofi non marxisti, in certi casi addirittura antimarxisti? Non ci si scandalizza per un simile atteggiamento; sono pochi, oggi, i “sacerdoti” del “credo marxista”. Lo scandalo vero è la pretesa “tuttologia”, l’improvvisazione, il chiacchiericcio superficiale dopo avere letto qualche “Bi-
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gnami” di una corrente teorica. Questi sono i vergognosi intellettuali odierni, che fanno gli eruditi e i colti perché hanno letto tanto (a spizzico) e possiedono buona memoria; non però l’onestà di ammettere i limiti della propria reale conoscenza, che è qualcosa di ben diverso.
3. La stessa mancanza di “sensibilità” strutturale è all’origine delle sciocchezze che certi studiosi, smaniosi di civettare con Marx e il marxismo, affermano intorno alla concezione marxista dello Stato. Comincio con il chiarire che il sottoscritto non è più convinto di tale concezione; ho una serie di idee che mi ribolliscono dentro, ma per il momento non trovano quella decantazione necessaria alla loro ordinata esposizione. Per cui rinvio il problema a quando – e se – sarò riuscito a creare un minimo di amalgama. Non essere più d’accordo con Marx e il marxismo non significa però ignorare la concezione marxista dello Stato, attribuire a tale corrente di pensiero idee sballate per poi imbastirci sopra un proprio discorso. Intendiamoci: è lecito fare il proprio discorso, ma lasciando stare un autore come Marx che evidentemente non si conosce. Se si agisce diversamente, se si finge – aiutati da editoria e stampa dedite alla più totale falsificazione di fatti e pensieri – di essere esperti in materie di cui non si è compresa nemmeno una virgola, allora una qualsiasi persona seria ha il diritto di accusare di disonestà intellettuale questi imbonitori e colossali pasticcioni.
Cominciamo con una tesi per poi passare a quella opposta (talvolta sostenute dagli stessi studiosi che dimostrano così di non avere proprio una qualsiasi idea di ciò di cui stanno parlando). Marx non avrebbe mai formulato la tesi dell’estinzione dello Stato in una società comunista (parlo del secondo gradino, quello superiore e non meramente socialista, quello insomma del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”). Marx, Engels, Kautsky, Lenin e quant’altri hanno ossessivamente esplicitato che la differenza sostanziale tra marxisti e anarchici consisteva nell’intenzione di questi ultimi di abolire lo Stato dall’oggi al domani, una volta che i “rivoluzionari” avessero preso il potere contro la borghesia; mentre i marxisti si rendevano conto della necessità di un periodo di transizione tra primo e secondo gradino, durante il quale si sarebbero progressivamente esaurite le funzioni dello Stato, per il semplice motivo che progressivamente sarebbe venuta meno la divisione in classi (proprietà dei mezzi produttivi antagonistica rispetto a quella relativa alla sola forza lavoro, da cui la prima estrae il pluslavoro/plusvalore necessario al suo mantenimento).
Gli anarchici, che mi sembra derivino tutti la loro ideologia dall’Uno di Stirner, non hanno appunto la concezione della società in quanto struttura di relazioni tra gruppi (classi) sociali, struttura che evolve secondo certe dinamiche; e quelle previste da Marx, come abbiamo sopra considerato, sarebbero state orientate al progressivo distacco della funzione direttiva della produzione dalla proprietà capitalistica (che sarebbe diventata così solo azionaria e finanziaria, in ultima analisi speculativa) e al suo tendenziale riunirsi con il lavoro esecutivo, cioè con la classe operaia in senso stretto che, dopo la riunificazione, sarebbe così divenuta l’operaio combinato “dall’ingegnere all’ultimo manovale”. La previsione non si è avverata, anzi non si è mai nemmeno andati in quella direzione – da qui la teorizzazione leniniana della classe in sé e per sé e del partito come avanguardia che avrebbe rappresentato appunto il per sé, cioè la coscienza di classe proletaria: tutti problemi che tralascio – per cui la problematica marxista relativa allo Stato va dunque radicalmente rivista; resta il fatto che Marx l’ha elaborata in base a quella previsione, ed è quindi una solenne sciocchezza sostenere che egli non parlò di estinzione (non abolizione in senso anarchico) dello Stato.
Marx ebbe però pressoché esclusiva attenzione al modo capitalistico di produzione, dunque alla forma capitalistica dei rapporti sociali considerata in generale, ed estendentesi sul piano mondiale (il ben noto de te fabula narratur); egli trattò dunque dell’estinzione dello Stato con riferimento alla transizione dal primo (socialismo) al secondo (comunismo) gradino dell’evoluzione sociale dopo la presa del potere proletaria (della classe operaia in quanto operaio combinato). In realtà, il processo evolutivo non andò affatto verso l’acutizzarsi antagonistico della lotta tra queste due classi decisive del modo di produzione in questione (anzi, nell’occidente massimamente sviluppato capitalisticamente, vinse alla fine il tradunionismo, l’opportunismo socialdemocratico con appoggio alle proprie borghesie imperialistiche macellaie); si entrò quindi nell’epoca (policentrica) detta appunto
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dell’imperialismo, in cui divenne causa di più profonde turbolenze e rotture rivoluzionarie (in zone a prevalenza contadina) la lotta tra potenze capitalistiche.
Qui s’inserì Lenin con le sue tesi, genialmente tradotte in azione rivoluzionaria, circa l’alleanza operai/contadini (e solo presunta direzione da parte della prima, direzione assunta in realtà da gruppi di rivoluzionari di professione armati del “socialismo scientifico”, cioè in definitiva dell’efficace analisi strutturale, senza la quale si fanno solo chiacchiere filosofico-culturali), sull’anello debole, ecc. Venne ripresa in grande la concezione dello Stato di Marx, ma un ulteriore motivo di solo graduale (e più lunga) transizione verso la sua estinzione fu visto nel fatto che la rivoluzione proletaria (con scarsa presenza della presunta classe, operaia, capace di emancipare dallo sfruttamento l’intera umanità oltre che se stessa) avrebbe vinto in alcuni punti soltanto, cioè in alcuni paesi; da qui la necessità di impedire che le borghesie capitalistiche ancora al potere altrove aiutassero quella (o quelle) dei paesi in mano al proletariato per soffocare la transizione verso la nuova società (forma comunista dei rapporti sociali). Tesi ben sviluppata e praticata poi da Stalin – e non penso affatto in mala fede – che servì comunque alla repressione interna e a mirare di fatto al solo obiettivo che si potesse realmente conseguire: lo sviluppo di una grande potenza che avrebbe comunque mutato i “connotati” (strutturali, ma in senso geopolitico e non “di classe”) del mondo contemporaneo; chi ancora non ha capito questa nuova affermazione dell’eterogenesi dei fini, è meglio si ritiri dall’attività del pensare.
4. Ma veniamo al clou delle sciocchezze propalate da pretesi conoscitori di Marx e del marxismo. Certuni sostengono una tesi contraria alla precedente: Marx ha in effetti affermato l’estinzione dello Stato, ma in questo è caduto in pieno utopismo. Dobbiamo dire subito che costoro non hanno capito proprio nulla, tanto da far pensare che abbiano letto pochissime pagine di Marx (e non certo de Il Capitale e delle sue maggiori opere). Lo ripeto: avrei pure io l’ambizione di mutare (“ristrutturare”) la concezione marxista dello Stato, senza cadere in quella liberale o anarchica o lassalliana, ecc. Tuttavia, sembra incredibile non si sappia che per Marx, in ciò seguito da tutti i marxisti, lo Stato è strumento di dominio di una classe su altre; cioè della classe dominante su quelle dominate. Lo Stato non è trattato quale elemento fondante il predominio (con annesso sfruttamento) di una classe sulle altre; tanto è vero che Dúhring – con la sua idea del profitto estorto dai capitalisti “con la spada in pugno” – fu assai maltrattato (e non solo da Engels, ma da Marx in persona).
Il meccanismo del dominio e dello sfruttamento sono legati alla struttura sociale della produzione, alla forma dei rapporti che in questa si affermano storicamente. Nel capitalismo, la realtà dello sfruttamento è “abilmente” nascosta (un’abilità di sistema basata sull’equivalenza regnante nello scambio di merci) ed è dunque ancor più difficile da smascherare e combattere. In ogni caso, i processi dell’accumulazione originaria devono pure molto allo Stato come strumento della borghesia in ascesa nel predominio sociale. La formazione del lavoro salariato deve molto alla “recinzione delle terre” (con espulsione dei contadini dalle campagne, soppressione di diritti “comuni”, ecc.), ma altrettanto alle leggi tipo quella sui poveri, ecc. che irreggimentarono il proletariato punendo severamente il vagabondaggio. Simili leggi, per essere attuate, esigevano la presenza di un forte potere coercitivo statale. Una volta affermatasi la società capitalistica – quella del modo di produzione specificamente capitalistico fondato sulla sottomissione (sussunzione) reale del lavoro al (nel) capitale – la funzione dello Stato si fa più “subdola”; esso appare quale semplice guardiano che farebbe rispettare le “regole del gioco” cui tutti i membri della società, considerati eguali, debbono sottostare (i “Dulcamara” che oggi inneggiano alla meravigliosa nostra Costituzione appartengono alla schiera di questi occultatori della realtà rappresentata dal predominio capitalistico).
Abbiamo però visto che, secondo Marx, la dinamica capitalistica doveva necessariamente portare allo scontro tra classe operaia (lavoro direttivo ed esecutivo in progressiva riunificazione, non negli individui ma nel corpo lavorativo sociale, collettivo) e i rentier ormai avulsi dai processi produttivi rispetto ai quali si comportavano da semplici sanguisughe. Per Lenin, nello scontro interimperialistico che coinvolgeva le più grandi masse (tutt’altro che operaie) nel mondo, sarebbero crol-
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late le strutture del potere e dello sfruttamento in determinati paesi. In simili situazioni, la classe capitalistica dominante non avrebbe avuto altra difesa che l’intervento dello Stato. Questo non agisce però, in simili circostanze, con il convincimento e le “buone maniere”; esso reprime, soffoca, schiaccia e basta. Lo Stato deve essere quindi dotato degli apparati a ciò necessari: i cosiddetti corpi speciali di uomini in armi (eserciti verso l’esterno e polizia ecc. all’interno).
Quando Marx, nei suoi scritti politici, indicava il Governo quale “comitato d’affari della borghesia”, era perfettamente consapevole che il Governo manovra gli apparati dello Stato. Il comitato addetto agli affari generali della classe dominante – divisa in gruppi che competono aspramente fra loro nella sfera economica – cerca una sintesi utile a tale classe nel suo complesso; in condizioni normali, la sintesi appare quale controllo, attuato con “discrezione”, dei meccanismi riproduttivi di quei determinati rapporti sociali (di predominio di una classe sulle altre). In speciali ed eccezionali contingenze storiche, invece, un dato gruppo di dominanti si incarica di imporre con la forza nuove autoritarie regole, pena lo sfascio dell’intera società fondata sullo sfruttamento capitalistico. In tutto questo gioco, lo Stato (la capacità di manovra dei suoi apparati) è determinante; in certi casi, esso non si può più nascondere dietro l’apparente funzione di semplice e neutrale regolatore del gioco, ma deve porsi in primo piano come il Banco; e quest’ultimo, com’è ben noto, deve sempre vincere a quel dato gioco in cui tiene banco, altrimenti esso salta mettendo termine a quel gioco mentre un altro incombe.
Tutto questo, però, presuppone la divisione in classi: quella già spiegata, basata sullo sfruttamento dei possessori di sola forza lavoro da parte dei controllori dei mezzi produttivi. In una società siffatta, lo Stato non è neutrale, non stabilisce né fa solo rispettare a tutti gli eguali le regole del gioco. Certamente esso fa anche rispettare certe regole, senz’altro gestisce una serie di affari generali che riguardano l’intera specifica formazione sociale di cui è Stato. Solo che in questa formazione sociale non esistono gli eguali; esistono i proprietari dei mezzi produttivi e coloro che, non possedendo nulla all’infuori della propria individuale forza lavoro, forniscono il pluslavoro (plusvalore) di cui vivono (e prosperano) i primi. Si può non essere d’accordo con questa concezione, ma questo è ciò che afferma Marx e con lui i marxisti. Dunque, lo Stato non gestisce soltanto gli affari generali dell’intero insieme di individui costituenti una particolare formazione sociale; lo farebbe se fossero tutti veramente eguali, ma essi non lo sono perché non si tratta di semplici individui, di tanti Uno, e nemmeno rappresentano solo l’Uomo. Esiste una storicamente specifica struttura di rapporti sociali, nel cui ambito non sussiste, in senso reale e non meramente formale (“davanti alla Legge”, questa grande presa in giro ideologica), una qualsiasi eguaglianza tra gli individui concretamente esistenti.
Ecco allora che lo Stato, quello di cui parlano Marx e i marxisti, oltre alla gestione degli affari generali, “comuni”, deve garantire anche, in congiunture di eccezionalità, la riproduzione di quella struttura di reale diseguaglianza che assicura il pluslavoro (in forma di plusvalore, di cui è figura il profitto) ai dominanti capitalistici (per il marxismo: i proprietari delle condizioni oggettive della produzione). Questa garanzia si ha solo con gli apparati degli “uomini in armi”: gli apparati addetti alla coercizione, repressione, ecc.
Mi fa specie che si possa ad esempio parlare di un “gramscismo di destra”1. Gramsci non era né di destra né di sinistra; era un leninista e dunque un marxista. Oggi è in uso svirilizzarlo e trattarlo come avesse semplicemente svolto colte ed erudite analisi degli apparati egemonici in senso solo culturale. No, cari “pensatori” che di Gramsci, poiché marxista, capite assai poco. Gramsci parla di
1 Di uno dei “raffinati” intellettuali (De Benoist), che hanno svisato il pensiero (marxista) di Gramsci, leggo oggi (7 aprile) questo brano su Il Giornale: “Il marchese de Custine, Hegel, Marx e soprattutto Engels, che nel razzismo antirusso precorreva Hitler [corsivo mio], l’hanno [la Russia ovviamente] costantemente rappresentata come paese ‘barbaro’ e ‘prigione di popoli’”. Alla faccia della “raffinatezza”! La solita rozza equiparazione tra comunismo e nazismo. Alcuni sostengono l’equivalenza tra Stalin e Hitler. Altri che Marx è l’anticipatore del gulag. Qui un’ulteriore variante del più volgare anticomunismo: Engels precorre Hitler. Un ex “destro estremo” potrebbe risparmiarsi simili prodezze. Per quanto apparentemente opposto, ricorda l’ex fascista Fini che, per accreditarsi presso l’establishment, diventa accanito filosionista.
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egemonia corazzata di coercizione. Chi dimentica la corazza ha tutti i diritti di farlo, se sta formulando tesi proprie. Insisto: nessun dottore ha ordinato che sia decisivo nella vita conoscere il marxismo. Se però si parla di un marxista come Gramsci, e se quest’ultimo – da vero marxista – ha scritto sugli apparati egemonici aggiungendovi la corazza coercitiva (i corpi speciali in armi per l’appunto), chiunque salti questo decisivo punto o mente o non conosce ciò di cui tratta. Non sarebbe meglio tacesse? Per meglio dire; non farebbe più bella figura se parlasse in proprio? Certe tesi hanno la loro dignità, che non ho alcuna intenzione di ledere e di sminuire; anzi sono spesso assai stimolanti. Solo mi sento offeso quando constato che si sta pasticciando in modo inverecondo; ed è chiaro che, a quel punto, certo rischiando di “buttare il bambino con l’acqua sporca”, non ho più voglia di leggere chi si permette simili falsificazioni, con una leggerezza che non può non irritare chi si è invece “fatto il culo” una vita su certi autori.
5. A questo punto, credo che certe conclusioni debbano essere ovvie per un lettore attento ai vari passaggi fin qui compiuti; un lettore che, in particolare, abbia compreso quanto scritto sulle classi in senso marxista e sullo Stato formato da due sezioni, pur fortemente intrecciate tra loro: un insieme di apparati per la gestione generale degli affari sociali e un altro insieme per la repressione e coercizione. In realtà, ve n’è un terzo, che assicura la riproduzione dei rapporti di predominio di classe, ma tramite prevalente egemonia culturale. Solo che, per il marxismo, l’ultima istanza, quella che protegge il tutto (la corazza appunto), è il secondo gruppo indicato. Si può essere d’accordo o meno, ma questa è la concezione marxista dello Stato. Ripeto per l’ultima volta: mi frulla per il cervello una modificazione (sempre però strutturale e non meramente politico-culturalistica) di tale concezione. Inoltre, ammetto che si possa tranquillamente non essere marxisti; non però far finta di esserlo, o comunque di conoscere Marx e altri marxisti (come ad esempio Gramsci), per poi attribuire ad essi affermazioni del tutto contrarie alla loro specifica concezione. Solo gli ignoranti o i confusionari si comportano in questo modo; o devo pensare che siano consapevoli imbroglioni per conto dei dominanti più reazionari?
Dato quello che è lo Stato per Marx e il marxismo, lascio giudicare al lettore quale senso della logica abbia chi definisce utopista Marx poiché sosteneva che, in una società giunta al comunismo (si parla del gradino superiore, quello senza classi), lo Stato non può permanere. Il comunismo è definito quale forma dei rapporti sociali, in cui non esiste più lo sfruttamento di una classe (maggioritaria) ai fini del mantenimento di quella dominante (una minoranza dei membri della società); ciononostante, dovrebbe restare l’organo dell’egemonia corazzata di coercizione, della difesa d’ultima istanza dei dominanti tramite l’impiego aperto della repressione da parte dei corpi speciali di uomini in armi. Un’assurdità simile a quella di chi si dedicasse all’“utile” lavoro di “raddrizzare le banane”.
Che lo Stato non si abolisca dall’oggi al domani, ma sussista in fase di progressivo esaurimento durante il periodo della necessaria transizione attraverso il suo primo gradino (socialistico), in cui va esaurendosi pure la differenziazione di classe (non ogni differenziazione sociale, o finti conoscitori di Marx, ma solo quella, antagonistica, tra classe proprietaria dei mezzi produttivi e classe con il solo possesso della forza lavoro, da cui la prima estrae il pluslavoro/plusvalore); che alla fine del processo, venuta meno la divisione in classi, non sparisca affatto l’insieme di apparati addetti alla gestione generale degli affari sociali, all’organizzazione e ordinamento dei rapporti tra i diversi individui (e raggruppamenti degli stessi, che mantengono una struttura di funzioni diversificate indispensabili all’evoluzione della società); questo è ampiamente ammesso da qualsiasi marxista, dato che i marxisti sono logici e coerenti.
Si legga, alla fine del secondo capitolo del Manifesto del ’48, l’ovviamente generica elencazione dei primi provvedimenti da compiere subito dopo l’eventuale presa del potere da parte del proletariato, quando ancora le classi non sono certo sparite e lo Stato inizia appena allora a rappresentare la maggioranza degli “espropriati” (dei mezzi produttivi) e non la minoranza dei proprietari precedentemente al potere. Si avrà l’idea dell’assoluto non utopismo di Marx, della sua visione molto con-
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creta. E mi piace riportare l’intera chiusa di Marx dopo questa elencazione dei provvedimenti iniziali di un potere proletario:
“Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell’evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico [corsivo mio]. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzata per opprimerne un’altra [idem]. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia [qui vi è anche espressa la rilevante idea, valorizzata da Althusser, che la lotta è tramite necessario per la costituzione in classe; nota mia], facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione [mio corsivo], ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce assieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”.
Non so se la traduzione è sempre esatta; comunque chiunque capisce che il termine abolire non è usato in senso proprio, dato che si parla di evoluzione nel corso della quale scompaiono le differenze di classe, quelle differenze legate ai rapporti antagonistici tra proprietà dei mezzi produttivi da parte di una classe e possesso della mera forza lavorativa da parte dell’altra classe. Bando quindi alle scemenze circa la sussistenza dello Stato quando tale evoluzione si fosse completata e si fosse quindi passati allo stadio superiore del comunismo! Residua solo un “organo”, un insieme di apparati, che gestiscono gli affari e l’organizzazione di una società senza più classi. Le classi comportano necessariamente l’antagonismo di classe, dunque la presenza dello Stato in quanto anche apparato di egemonia – trasmissione di ideologie e culture confacenti alla riproduzione dei rapporti di predominio e di sfruttamento con estrazione di pluslavoro; tipo l’ideologia dell’eguaglianza tra i possessori di merci, sia che si tratti di mezzi produttivi o di semplice forza lavoro salariata, ideologia che sta alla base di mille altre forme di inganno e mascheramento del predominio di classe – e di repressione e coercizione di ultima istanza.
Lo Stato senza egemonia e senza la sua corazza coercitiva non è più lo Stato in senso marxista (e marxiano); quest’ultimo si sarebbe appunto estinto e al suo posto resterebbe il solo apparato di gestione e organizzazione generale. Bisogna però anche sapervi aggiungere tutto il resto dell’analisi marxiana del modo di produzione capitalistico. Le classi si definiscono soltanto in base al loro antagonismo proprietario. Le classi non si aboliscono, una non ne sopprime l’altra; la violenza rivoluzionaria si abbatte sull’organo di repressione (lo Stato), lo toglie all’uso che ne fa la borghesia per mantenere il suo predominio. Tuttavia, già all’interno della produzione condotta secondo le modalità capitalistiche, si è verificato un grandioso processo di socializzazione, di progressiva riunificazione delle potenze mentali produttive (direttive) con il lavoro manuale/esecutivo; già i capitalisti – nella visione di Marx – sono estraniati dai processi produttivi, divengono meri parassiti percettori di rendite finanziarie (che comprendono i dividendi azionari). La rivoluzione ha il solo scopo di togliere ai dominanti la loro difesa d’ultima istanza, lo Stato dell’egemonia (ideologica) e dei corpi speciali in armi.
Non potrebbe esserci autentica rivoluzione senza questa nuova base sociale nella produzione (sto sempre parlando della concezione di Marx). Quando la rivoluzione vinse invece in paesi capitalisticamente arretrati, fu cura dei dirigenti rivoluzionari ricordare che le condizioni sociali della costruzione socialistica e comunistica erano immature. Alcuni addirittura esitarono, espressero l’intenzione di attendere il “completamento della rivoluzione borghese”. Lenin ruppe gli indugi – largamente opportunistici nella situazione di entrata nel pieno policentrismo con la lotta tra “macellai” (borghesie imperialistiche) che conducevano al massacro i popoli – ma non s’illuse affatto (e
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non illuse) circa l’immaturità dei processi di socializzazione produttiva, base della supposta progressiva estinzione delle classi e dunque dello Stato in quanto strumento di predominio di classe.
Stalin si trovò “sulla gobba” la necessità di proseguire la via al socialismo con il completo fallimento delle rivoluzioni nell’occidente capitalistico. Non si comprese che tale fallimento – con addirittura una serie di imponenti rivoluzioni dentro il capitale (Italia, Germania e subito dopo Spagna e altre ancora) – era la dimostrazione che non esistevano quei processi, di formazione dell’operaio combinato e di mera riduzione dei capitalisti a rentier, previsti da Marx. Si fu convinti di un semplice fallimento temporaneo – ma quanti arretratissimi “comunisti” odierni, in un modo o nell’altro, continuano nel fondo dei loro retropensieri a crederlo? – e alla necessità di continuare intanto la rivoluzione, portando al massimo sviluppo dell’industrializzazione nell’unico “lembo socialista” esistente (ma “accerchiato”), processo che avrebbe dato corso – per di più sotto il vigile occhio dello Stato (vero Stato con i suoi apparati di coercizione e ideologici) di supposta dittatura proletaria – alla maturazione dei processi di socializzazione in quanto base di una successiva (e sempre rinviata) estinzione dello Stato con la pura sussistenza degli organismi di gestione generale di una collettività non più divisa in classi (antagonistiche). Potrei proseguire, riferendomi al disastro successivo all’epoca staliniana (da Krusciov a Gorbaciov), ma in altra sede e altro tempo.
6. La conclusione è ormai obbligata, almeno per cervelli sani e raziocinanti. Chi è solo filosofo della cultura e mero ideologo non cerchi nemmeno di capire un pensiero come quello di Marx e del marxismo, dedito all’analisi strutturale. Il pasticcione di turno confonde questo pensiero con l’economicismo, magari usa anche il “parolone”: scientismo. Tali termini semplicemente bollano lui come cervello sconclusionato. Il vero economicismo è quello di chi pensa esclusivamente il capitale quale insieme di cose gestite nella sfera economica: tipico esempio ne è l’interpretazione dell’attuale crisi da parte sia degli esperti e tecnici del capitale sia dei fintomarxisti che predicano ancora “crolli” del capitalismo o processi similari.
Marx ripeté mille volte che il capitale non è cosa ma rapporto sociale; appunto quello tra le classi antagoniste, caratterizzato dal regime proprietario dei mezzi produttivi. Si può certo non essere d’accordo – e io ho dimostrato da anni di non esserlo – con l’eccessiva enfasi posta su questi rapporti sociali nella sfera produttiva (e finanziaria che, nel capitalismo, duplica la precedente); ma questo non è comunque economicismo, o pensatori solo culturali. Non tentate di emettere giudizi su Marx e i marxisti senza la minima considerazione per il loro modo di procedere in base alle strutture dei rapporti sociali. Così non rispettate Marx, e dunque non meritate alcun rispetto perché vi comportate da perfetti ignoranti; e con tutta l’arroganza di coloro che non conoscono un argomento e tuttavia vi “sbrodolano” sopra fiumi di parole insensate.
Secondo me, il passaggio alla considerazione dei capitalisti – anzi degli agenti del capitale, dei suoi funzionari, abbiano o meno la proprietà dei mezzi produttivi – quali strateghi consente dei passi in avanti nonché un migliore intreccio tra l’azione di questi ultimi nelle varie sfere sociali. Si tratta però di un’altra impostazione che, come spero sia noto a quasi tutti i lettori, porto avanti da tempo (dando in ogni caso centralità alle strutture e non alla cultura e all’ideologia). Qui però ho voluto solo parlare di Marx e dei marxisti in senso “classico”. Essi non sono economicisti, salvo alcuni dei peggiori e soprattutto i poveri residui odierni. I marxisti hanno dato semmai importanza prevalente ai rapporti sociali della sfera economico-produttiva. Nessuno vorrà però negare che nel capitalismo quest’ultima è di importanza estrema, un’importanza mai rivestita in società antecedenti; proprio ai fini del predominio di dati gruppi (minoritari) su altri (nettamente maggioritari). In ogni caso, però, l’effettivo marxismo non si è limitato alle sedicenti “leggi” dell’economia; esso ha sempre puntato i fari sui rapporti tra classi e raggruppamenti sociali, sia pure sui rapporti specificamente di produzione, considerati struttura base del modo di produzione e della formazione sociale capitalistici.
Ho voluto prendermi una breve vacanza marxologica. Non si è tuttavia trattato di puro divertissement poiché mi irrita profondamente dedicare il massimo degli sforzi ad una riformulazione radicale del marxismo, in un certo senso uscendo da esso (ma comunque uscendo da quella porta e non
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da altre), per poi trovarmi degli arruffoni che, o per criticarlo o per proclamarsene eredi, lo trattano con superficialità e senza alcuna cognizione in merito. Non mi si dica che debbo essere tranquillo con individui simili. Lo sono con coloro che pensano in proprio, anche abbandonando il marxismo o criticandolo proprio perché la loro impostazione è differente o addirittura opposta ad esso. Simili prese di posizione sono del tutto rispettabili e non me ne sento minimamente toccato; sono anzi a volte stimolato a pensare nuove idee. Non si falsifichi però il pensiero di un autore (che sia Marx o un altro, poco importa), non gli si faccia sostenere castronerie e illogicità; perché allora mi adiro sul serio sia che i confusionari si dichiarino critici del marxismo o invece “fedeli” marxisti. Non m’interessa di quale teoria si è seguaci; desidero solo che si sia seri e non si concioni su argomenti che in tutta evidenza non si conoscono.
Adesso, comunque, la breve vacanza è finita. Aprile 2009
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