Marx non c’entra coi gulag e nemmeno coi centri sociali
Tutti parlano di Marx, pochi lo hanno letto e molti meno lo hanno veramente capito. Purtroppo, più che andare direttamente alle opere del barbuto di Treviri, la maggior parte dei critici (e non) di Marx ha attinto dai suoi interpreti, da quel marxismo divenuto scuola mentre egli, ancora vivente, smentiva l’“‘ismo” discendente dal suo nome.
Marx era, del resto, uno scienziato non un leader di partito. Fatta questa premessa è davvero spiacevole, se non disgustoso, sentire che tale studioso sia stato, con le sue teorie, l’iniziatore del gulag o il mandante di eccidi di massa.
Chi lo afferma sarebbe capace di simili nefandezze, non Marx, il quale ha faticato sui libri per interpretare la struttura del capitalismo dei suoi tempi.
Marx non allestiva ricette per le “osterie del futuro” (“Il metodo usato nel Capitale è stato poco compreso, a giudicare dalle interpretazioni contrastanti che se ne sono date. Così la ce Revue Positiviste» mi rimprovera, da una parte, di trattare l’economia in modo metafisico, dall’altra — immaginate un po’ — di limitarmi a un’analisi puramente critica dei fatti, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell’avvenire”) ma analizzava, ricorrendo all’astrazione concettuale, le caratteristiche del sistema sociale sotto i suoi occhi.
Non si interessava delle persone ma delle categorie sociali e delle loro funzioni:
“Una parola per evitare possibili malintesi. Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”.
Scienza allo stato puro rafforzata anche da quest’altra definizione: “La forma valore, di cui la forma denaro è la figura perfetta, è vuota di contenuto ed estremamente semplice. Eppure, da oltre due millenni la mente umana cerca invano di scandagliarla, mentre d’altra parte l’analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complesse è almeno approssimativamente riuscita. Perché? Perché è più facile studiare il corpo nella sua forma completa che la cellula del corpo. Inoltre, nell’analisi delle forme economiche non servono né il microscopio, né i reagenti chimici: la forza dell’astrazione deve sostituire l’uno e gli altri. Ma, per la società borghese, la forma merce del prodotto del lavoro, o la forma valore della merce, è la forma economica . cellulare elementare. Alla persona incolta, sembra che la sua analisi si smarrisca in mere sottigliezze; e di sottigliezze in realtà si tratta, ma solo come se ne ritrovano nell’anatomia microscopica… Il fisico osserva i processi naturali là dove appaiono nella forma più pregnante e meno velata da influssi perturbatori, ovvero, se possibile, compie esperimenti in condizioni che assicurino lo svolgersi del processo allo stato puro. Oggetto della mia ricerca in quest’opera sono il modo di produzione capitalistico e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. La loro sede classica è fino ad oggi l’Inghilterra, che quindi serve da principale illustrazione dei miei sviluppi teorici. Se poi il lettore tedesco scrollasse farisaicamente le spalle sulle condizioni dei lavoratori inglesi dell’industria e dell’agricoltura, o si cullasse nell’ottimistico pensiero che in Germania le cose sono ancora ben lungi dall’andar così male, io ho l’obbligo di gridargli: De te fabula narratur!”.
In questo importante passaggio vi è anche molto di più della scienza, c’è la delimitazione del campo storico-geografico della sua indagine, la “sede inglese” della sua epoca in cui egli si reca per comprendere più a fondo l’oggetto della sua ricerca. Un rigore epistemologico ormai sconosciuto dai nostri contemporanei abituati a mescolare ideologia e moralismo per l’affermazione delle loro teoresi al fin di soldi e successo.
Marx, dunque, non ha nessuna utopia nella testa, non crede nell’avvento di un mondo nuovo per afflato umanistico ma crede nella necessità del comunismo “rebus sic stantibus”. La nozione che segue è fondamentale nell’analisi marxiana perché in essa si definisce la forma produttiva che emergerà dalle stesse viscere del modo di produzione capitalistico (non dai sogni di qualche visionario umanitario):
“Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto fra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma.
Le fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Ma l’antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono capitalisti di se stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per la valorizzazione del proprio lavoro. Queste fabbriche cooperative dimostrano come, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme di produzione sociale ad esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione.Senza il sistema di fabbrica, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e così pure senza il sistema creditizio, che nasce dallo stesso modo di produzione, non si potrebbe sviluppare la fabbrica cooperativa. Il sistema creditizio, come forma la base principale per la graduale trasformazione delle imprese private capitalistiche in società per azioni capitalistiche, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale. Le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con la unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo”.
Dunque, il prodotto ultimo del capitalismo, come chiarisce Gianfranco la Grassa è appunto “la fabbrica cooperativa direttamente gestita dai produttori associati. Con lo sviluppo di tale forma produttiva viene posta la prima pietra del nuovo modo di produzione, il quale, sebbene ancora costretto nella vecchia forma, avrebbe superato il fatidico antagonismo tra capitale e lavoro”.
Per Marx il comunismo è figlio del capitalismo e la rivoluzione, che scaccia i parassiti dallo Stato ridotto a “ultima thule” dei rentier, è mera “ostetrica” di un parto ormai maturo all’interno della vecchia società.
Esplicitato a sommi capi tutto ciò, cosa diavolo c’entra Marx con i gulag, l’Unione sovietica, i centri sociali, i socialisti del XXI secolo, i compagni che sbagliano, il terrorismo, l’Arcadia umanitaria, le guerre mondiali ecc. ecc.? Niente, assolutamente niente ma gli idioti continuano a vedere fils rouges che da Marx conducono a tutti gli stermini commessi in nome del comunismo.
L’ipotesi di Marx si è rivelata senz’altro errata poiché dalla pancia del capitalismo non è uscito il comunismo ma ben altro (quella che La Grassa chiama la società dei funzionari privati del capitale di matrice statunitense). Una scienza che sbaglia alcune delle sue previsioni, fino a prova contraria, non è un abominio ma uno stimolo a proseguire sul cammino della conoscenza e di ulteriori interpretazioni più vicine alla realtà (sempre cangiante). Se ogni scienziato che non c’entra il bersaglio (o che non prevede le ricadute delle sue scoperte) diventa un lestofante allora qui non si salva più nessuno. Chi accuserebbe Einstein per Hiroshima? Esclusivamente degli ignoranti, gli stessi che si sbizzarriscono a stigmatizzare Marx. A loro va tutto il nostro disprezzo.
Spiace constatare che anche persone intelligenti inciampino su Marx come dilettanti. Nell’ultimo numero di Limes, dedicato alla caduta del Muro di Berlino, G. Friedman ci tiene a farci sapere che “La passione del giovane Karl Marx, che scriveva tra i clamori del 1848, portò direttamente a Lenin e poi a Stalin…Tale dottrina è stata il culmine dell’illuminismo: non solo perché predicava la forma più estrema di eguaglianza, ma anche perché era spietatamente logico, conseguenziale e onnicomprensivo. La sua visione non abbracciava solo politica ed economia, ma anche l’arte, il modo di crescere i figli, l’agricoltura e lo sport. Aveva teorie su tutto e, con il potere dello Stato a disposizione, niente era fuori dalla sua portata. Da ultimo, il marxismo ha screditato l’illuminismo: era la reductio ad absurdum del pensiero razionale. Il marxismo ha frantumato l’illuminismo in una miriade di prismi, ognu- no libero di incarnare le contraddizioni che il marxismo stesso non tollerava. Siamo gli eredi dell’incoerenza che ha lasciato.
Ma il marxismo non solo ha fallito nel creare la società che predicava, è stato anche incapace di motivare la Nuova sinistra. Esso non è mai riuscito ad affrancarsi dalla realtà primordiale della condizione umana. Non parlo dell’egoismo e della corruzione, bensì della comunità come fondamento dell’esistenza umana, più importante dell’individuo e di certo più importante della classe”.
Sono tutte sciocchezze scritte da uno che non ha mai letto Marx ma lo ha assorbito dai suoi falsi epigoni. Le poche citazioni di Marx che ho riportato bastano a smentire Friedman e gli altri che sostengono tesi della stessa portata. Eppure, un punto corretto Friedman lo coglie:
“Marx sosteneva che la rivoluzione sarebbe avvenuta in un paese industrialmente avanzato [proprio perché il comunismo risolveva le insormontabili contraddizioni di un capitalismo sviluppato fino ai suoi limiti estremi in cui le forze produttive risultavano ostacolate dagli esistenti rapporti di produzione] come la Germania. Invece giunse in un luogo e in condizioni che smentivano la teoria e dove costruire il comunismo era impossibile: l’entroterra euroasiatico, non la penisola europea; un paese impoverito, senza sbocchi ai mari caldi, con un sistema dei trasporti disastroso e una popolazione dispersa”.
Costruire il comunismo era impossibile ovunque, anche nei paesi ipercapitalistci perchè la classe intermodale di transizione dal capitalismo al comunismo (il General Intellect) non si veniva formando, contrariamente al vaticinio di Marx. A fortiori Friedman risulta allora inconseguente o arbitrariamente conseguente a premesse errate da lui stesso poste. Se Marx pensava all’Inghilterra e alla Germania (in quanto lì lo conduceva la sua teoria) perché accusarlo di questioni anche logisticamente illogiche?
Che c’entra la teoria di Marx col socialismo (ir)realizzato dell’Urss? Perché Marx deve essere ritenuto responsabile delle prove di forza di Stalin orientate alla costruzione di una politica di potenza in Russia e nei paesi orbitanti intorno ad essa? Secondo noi Stalin, in quel contesto, ha fatto ciò che doveva, tuttavia, Marx è incolpevole per faccende che proprio non lo riguardavano, né teoricamente e nemmeno storicamente. Chi vuole tirare in ballo il grande intellettuale tedesco si prenda almeno la briga di approfondirlo adeguatamente, dai suoi lavori, per piacere, e non dai riassunti, per carità!, dei suoi Improvvisati sostenitori o convinti detrattori.