Marxisti reazionari. Lukács, Adorno e la cultura di massa di G. Scala
The pains of a failed generation
Anathema
Chiarisco subito che nell'occuparmi di autori oggi forse giustamente dimenticati (credo sarebbe meglio dire rimossi e quindi non superati nell'accezione hegeliana del termine) e che ormai dicono poco a chi non si occupa di storia della filosofia o della sociologia, ma fino a qualche decennio fa molto noti e discussi anche al di fuori degli “addetti ai lavori”, non è mia intenzione dedicarmi a disquisizioni accademiche, quanto aggiungere un tassello alla ricostruzione delle cause del degrado sociale, politico e intellettuale attuale, avendo in mente principalmente la società italiana, ma con risvolti che penso vadano oltre la stessa. Anticipando il discorso, ad es. il disgusto allo stesso tempo estetico e morale di Adorno verso l'“incultura” dei tempi, la denuncia della manipolazione dei mass-media lo ritroviamo in forma caricaturale nell'antiberlusconismo. Così come un certo valore salvifico attribuito alla “cultura”, ma divenuta parola alquanto vacua, visto che a differenza dei sinistri che si atteggiano a colti, Adorno fu sul serio un uomo di cultura, fu, abbastanza consapevolmente, uno dei tardi rappresentati della grande cultura borghese.
György Lukács fu un classico mentre era ancora in vita. Di solito, soltanto i trapassati appartengono ai classici, in quanto soltanto con lo sguardo retrospettivo di un epoca successiva è possibile stabilire chi nell'epoca precedente ha rappresentato, sul piano intellettuale o artistico, al meglio il suo tempo. Lukács riuscì ad esserlo per i suoi contemporanei, i quali avrebbero potuto leggerlo con lo stesso spirito con cui leggevano Hegel, perché egli non appartenne al XX secolo, ma al XIX. In questo senso Lukács fu un grande studioso, sia della cultura borghese che del marxismo, ma fu allo stesso tempo, un anacronismo, un reazionario. Per Lukács il top era la “cultura classica” borghese ottocentesca dopo la quale non vi era quasi più stata cultura. Chi avesse intenzione di avvicinarsi ad essa, e quella sua particolare diramazione che fu la cultura russa a cavallo del XIX e XX secolo, non vi è di meglio che Lukács, in particolare, consiglio un eccellente saggio su Dostoevskij, scrittore da lui considerato il massimo della modernità. Bisognerebbe conoscere la cultura borghese classica, come bisognerebbe conoscere la cultura greca classica, o la cultura rinascimentale, e non trascurerei nemmeno le culture extraeuropee, conformemente agli interessi culturali e al tempo che ognuno ha da dedicare alla propria formazione, tuttavia la cultura deve essere legata al presente, alla vita del proprio tempo se non vuole essere morta erudizione e dal presente volgersi al passato. Per il suo presente Lukács non ebbe nulla da dire.
Quando parlo di marxismo reazionario non è un per un certo gusto degli “ossimori”, ma intendo proprio un utilizzo reazionario dell'ideologia marxista. Marx era consapevole che di ogni teoria è possibile un uso reazionario trasformandola in ideologia cristallizzata e che il suo metodo di analisi della realtà sociale non faceva eccezione, per questo sottolineò decisamente il carattere “critico” della sua teoria, cioè la necessità di ritornare continuamente sulla teoria sulla base della verifica dei fatti e dei cambiamenti intervenuti nella realtà sociale. Disse pure: “je ne suis pas marxiste”, e voleva appunto intendere che non condivideva la sua teoria ridotta ad ideologia cristallizzata. La sua analisi del “Capitalismo” (è significativo che non usò mai questo termine) cristallizzata nel marxismo in un modello schematico unico del “Capitalismo”, concepito come possesso dei mezzi produzione e mercificazione del lavoro, sintesi dell'insieme dei capitalismi, impedì di comprendere le profonde trasformazioni intervenute con il passaggio dal capitalismo borghese classico egemonizzato dall'Inghilterra analizzato da Marx al capitalismo manageriale a guida statunitense, in cui la strato dei manager assumeva un ruolo di preminenza rispetto alla proprietà.
In questo scritto tali questioni teoriche di carattere più generale resteranno sullo sfondo, in quanto intendo soffermarmi sulla questione della cultura, ci basta stabilire che tale rivoluzione all'interno del capitalismo non fu compresa dal marxismo, quindi possiamo dire che l'atteggiamento di Lukács e di Adorno verso la “cultura di massa”, è solo un sintomo dell'incapacità di un certo marxismo dopo Marx di comprendere il proprio tempo.
Ogni epoca ha avuto una forma di arte dominante, nella Grecia classica fu la tragedia, nel Rinascimento la pittura, nel capitalismo borghese ottocentesco il romanzo, nel capitalismo manageriale a guida statunitense è stata il cinema. Per questo valuteremo la posizione di Lukács e Adorno principalmente riguardo alla loro posizione riguardo all'arte filmica, in quanto riassume la loro posizione verso la cultura del novecento in generale.
Il rifiuto di Lukács della modernità è molto più radicale di quello di Adorno. Siccome la modernità presentava delle contraddizioni che erano al di fuori della sua comprensione semplicemente decise di ignorarla, di far finta che non esistesse, secondo modalità che soltanto chi ha militato in un partito comunista può comprendere fino in fondo. (Nel suo ostinato rifiuto di internet Costanzo Preve si dimostra un autentico erede della gloriosa tradizione comunista “lucacciana”).
Non è una scusante il fatto che Lukács visse nel “mondo socialista”, per cui rimase estraneo agli sviluppi della cultura occidentale, visto che in Unione Sovietica si produssero i grandi capolavori di Ėjzenštejn.
Lukács fu per un certo periodo il teorico di riferimento del Pci. Il suo “umanesimo” poteva essere letto in termini “antistalinismo” che non “cadeva nel minoritarismo trozkista”, essendo passata l'idea che gli errori e orrori staliniani fossero dovuti ad una certa indifferenza verso le questioni umane. Un difetto di umanità era stato il difetto dello stalinismo, in un mondo che invece, tra due guerre mondiali, traboccava di umanità. Questa idea molto semplice, anzi semplicistica, in fondo era dietro ad una certa riscoperta dell'“umanesimo”. Erano gli inizi della deriva moralistica della sinistra che oggi ha assunto una forma devastante e che trovava conferma teorica nell'“umanesimo” lucacciano. Il Pci aveva un rapporto abbastanza stretto con il grande cinema italiano del dopoguerra, anche se quasi nessun grande regista fu veramente organico al Pci, e del rapporto privilegiato con gli “intellettuali” e con la “cultura”, compreso il cinema, aveva fatto una bandiera. Quindi avvenne che in occasione della pubblicazione della traduzione italiana di Prolegomeni ad un'estetica marxista, Umberto Barbaro, uno dei maggiori esperti di cinema del Pci, diede sfogo alla sua indignazione in un articolo dell'Unità Lukács, il film e la tecnica (22/1/1959) rispetto al fatto che Lukács nei suoi scritti di estetica avesse ignorato sostanzialmente l'arte filmica, ed arrivò addirittura a definire il grande maestro un “paleomarxista”.
Naturalmente, Lukács non era obbligato ad occuparsi del film, il problema sorge soltanto quando si intende proporre un'Estetica per la “classe operaia” nel Novecento senza tenere in considerazione l'arte filmica. Sarebbe come voler oggi fare analisi teorica e politica restando scollegati da internet (ogni riferimento è puramente voluto). Egli avrebbe dovuto diventare un accademico, da cui si possono imparare delle cose, ma da non tenere in considerazione per quanto riguarda il presente, invece divenne per un certo periodo un teorico di riferimento per il movimento comunista.
Se non altro Adorno prese in considerazione la “società di massa” che ebbe modo di conoscere da vicino nella sua forma più vistosa, visse negli Usa per una decina di anni, seppure principalmente per esprimere il suo giudizio di condanna morale. La ripulsa estetico-morale verso la “società di massa” è espressa dal disgusto verso quell'abominevole prodotto della cultura di massa qual'è il film. L'incapacità di Adorno di comprendere la cultura del suo tempo è esemplificata dalle sciocchezze che scrisse a proposito della figura straordinaria di Orson Welles. Negli Stati Uniti Adorno affermò in diverse occasioni di aborrire il film, diceva che ogni volta che usciva da una sala cinematografica si sentiva sporco, però frequentava il cinema … con un atteggiamento vagamente pornografico. Questa scissione tendenzialmente patologica fra sentimento, arte e vita è stata illustrata brillantemente dal regista viennese Haneke nel film La pianista, la cui protagonista, seguace delle teorie musicali e incarnazione, a mio parere, di Adorno, è una inflessibile e rigidissima purista dell'arte pianistica classica, severa con se stessa e con gli studenti, completamente distaccata dal mondo e dalle persone circostanti che gli suscitano disgusto e che disprezza profondamente, ma che di nascosto frequenta i negozi di materiale pornografico in cerca di mutande “usate” da annusare lasciate dai clienti. Successivamente, al suo rientro in europea e quando cominciava a nascere un “cinema europeo”, che nei film di Antonioni affrontava ad esempio la tematica dell'“alienazione”, cominciò a cambiare parere riguardo al film. Ciò che più aborriva non era il film ma la cultura statunitense in quanto tale.
Il classicismo di Lukács e il modernismo di Adorno furono due modi di voler mantenere in vita una cultura, quella borghese ottocentesca, che si avviava verso la sua conclusione, com'è destino di tutte le cose umane. Per Adorno l'arte doveva essere dissonante e sgradevole, al fine di scoraggiare la “riconciliazione” con la realtà “reificata”. I modelli principali erano Schönberg e Kafka. Ma un'arte sgradevole è come una cucina basata sui cattivi sapori. Il piacevole è un ingrediente essenziale dell'arte. La tragedia, che dovrebbe essere secondo un pregiudizio moderno l'arte meno “gradevole”, non è un'eccezione. Secondo Aristotele la tragedia suscitava un suo specifico piacere. L'arte è una mimesi della realtà, ma non è la realtà stessa. Sarebbe assurdo e inaccettabile che la tragedia suscitasse lo stesso dolore di una situazione reale, essa evoca determinati sentimenti ma in un forma particolare che ha sempre a che fare con il piacere, con il gioco e con la bellezza (altro ingrediente essenziale). La tragedia riconcilia temporaneamente (una “temporary peace” per dirla con il catartico brano finale dell'album A Fine Day to Exit degli Anathema) con l'inconciliabile, con il carattere tragico dell'esistenza delimitata dalla morte. Non serve negarlo, come fa il Regista impersonato da Orson Welles nell'indimenticabile monologo della Ricotta di Pasolini (“come marxista la morte è un fatto che non prendo in considerazione”), si finisce solo per creare angoscia e nevrosi. L'arte è un modo piacevole di imparare per l'uomo, affine al gioco, allo stesso modo come i bambini, quando avevano ancora accesso allo spazio pubblico e non erano stati del tutto segregati in casa, nel gioco si rappresentavano le attività degli adulti. Le favole popolari per i bambini sono talvolta piene di accadimenti violenti, perfino raccapriccianti. In tal modo viene data forma alle angosce del bambino rispetto alla violenza e alla paura, e questo procura una forma specifica di piacere. Questo per dire che l'arte è inseparabile dal piacere, che è appunto il piacere di imparare in un modo spontaneo e naturale.
Il principio di una sgradevolezza dell'arte proprio del modernismo di Adorno, unito ad una certa estetizzazione della vita quotidiana propria invece dell'avanguardia, sono stati spinti al ridicolo da Edoardo Sanguineti, considerato degli ultimi esponenti dell'avanguardia, anche se è stato maggiormente un modernista nel senso di Adorno.
“In un mondo in cui il 98 per cento delle persone vive una condizione di precarietà o di vera e propria miseria – ha detto il poeta e intellettuale genovese – il vero lusso è quello di permettersi ancora di essere gentili con gli altri. No, oggi è doveroso essere sgarbati per rendere evidente a tutti che viviamo in un mondo disumano”. Con tutta la maleducazione che c'è in giro, ci mancherebbe pure si diffonda pure il costume di comportarsi in modo sgradevole deliberatamente! Questo radicalissimo e avanguardistico proposito è stato pronunciato al pubblico in una sala della Camera dei Deputati, in una “lectio magistralis” in onore di quel vecchio “poeta” della sinistra di Ingrao, e alla presenza di vecchi rivoluzionari del Pd e di Rifondazione.
Il modernismo espressione di un rifiuto radicale della “cultura di massa” (di solito confuso con la cosiddetta avanguardia storica la quale invece si proiettava, ma in modo profondamente ambiguo, verso la “cultura di massa”) piuttosto che produrre un rinnovamento dell'arte fu lo stadio terminale dell'arte borghese ottocentesca e novecentesca. L'arte di Kafka era in effetti un arte agonizzante. Il rinnovamento dell'arte non poteva venire da una cultura di un mondo che si avviava verso la sua scomparsa, ma venne dalla “cultura di massa”, termine con cui i “francofortesi” indicavano, con connotazioni dispregiative, la cultura del capitalismo manageriale a guida statunitense. La cultura di massa ha prodotto nel cinema tutta una serie di autentici capolavori artistici, cosa che oggi pochi si sognerebbero negare, ma lo stesso è vero, seppure in misura minore, nel campo della musica di derivazione popolare. È ora che i Pink Floyd siano accolti fra i grandi musicisti di tutti i tempi. Le tendenze genuinamente artistiche della “cultura di massa” hanno dovuto lottare con tutta una serie di tendenza anti-artistiche del capitalismo contemporaneo che mira deliberatamente a istupidire lo “spettatore” ai fini del controllo sociale. Ma l'immagine di una società e di una coscienza completamente pietrificata è solo un immagine da incubo, la “manipolazione” non potrà mai spegnere il bisogno artistico proprio dell'essere umano.
A dispetto delle teorie sul carattere monodimensionale della realtà capitalistica, del totalitario controllo sulle coscienze, dell'appiattimento definitivo della creatività individuale sono stati prodotti e si continuano a produrre realizzazioni autenticamente artistiche. Tale teoria di ascendenza trozkista vede il “Capitale” come un blocco monolitico e non in termini marxiani come composto da più capitali tra di loro conflittuali. Faccio due esempi lontani nel tempo. Il capolavoro di La Battaglia di Algeri 1966 parte integrante della politica filomediorientale di Mattei. Sono ragionevolmente convinto che il recente capolavoro di Polansky L'uomo nell'ombrasia parte integrante della lotta sorda e oscura fra diverse correnti del sionismo americano, forse espressione della parte più estremista, nondimeno il film è un capolavoro sul piano artistico, e svela molto della prassi reale del dominio statunitense.
Per meglio evidenziare il carattere mistificatorio della teoria della reificazione con cui Lukács e successivamente Adorno proposero di analizzare i fenomeni culturali della “società di massa” è opportuno ritornare su di un piano più strettamente teorico. Althusser vide che la riscoperta dell'“umanesimo” era un grave arretramento del marxismo rispetto alla teoria marxiana, ma ancora non gli era ancora visibile che questo era l'inizio del suo declino, cercava invece di interpretare in termini leninisti questa deriva teorica come frutto dell'opportunismo post-staliniano. Althusser non intendeva respingere la filosofia, la morale, il diritto, la religione, le tendenze culturali in quanto tali, né disconoscere un loro oggetto specifico autonomo, dichiarandole forme ideologiche, chiedeva principalmente di non tornare indietro rispetto alla svolta impressa da Marx all'analisi sociale. La varie forme ideologiche non potranno mai scomparire, essendo la produzione di ideologia connaturata alla società umana, ma il contenuto sociale concreto di un'ideologia specifica non è possibile stabilirlo su quanto un'ideologia dice di se stessa (ad es. nulla garantisce che un'ideologia dei Diritti Universali dell'Uomo non sia in realtà un'ideologia reazionaria, oppure che possa arrivare addirittura a servire da giustificazione per massacri indiscriminati). Il suo contenuto effettivo è possibile stabilirlo soltanto sulla conoscenza delle strutture sociali e sulla posizione che un determinata ideologia occupa all'interno di esse.
Althusser affrontò la teoria della “reificazione” in un articolo del 1963 dal titolo Marxismo e umanesimo. Decisiva a mio parere un'osservazione contenuta in una nota: “Un'ideologia della reificazione che nei rapporti umani vede ovunque solo 'cose' confonde sotto la categoria di 'cosa' (che è la categoria più estranea a Marx) tutti i rapporti sociali pensati sul modello d'una ideologia della moneta cosa”. Il concetto di reificazione mentre si presenta come autenticamente “marxiano”, è in realtà l'opposto, reintroduce proprio quelle mistificazioni che Marx aveva dissolto con l'analisi del feticismo della merce. Se l'industria culturale, manifestazione dell'intero capitalismo, fosse diventata un meccanismo impersonale che funzionava secondo logiche autonome e imponeva totalitariamente la sua logica, per quale motivo il potere statunitense, ad es., nell'ambito dell'”industria culturale”, istituitì una black list degli attori e registi non perfettamente allineati durante il periodo più acuto della guerra fredda? Il concetto di “reificazione” mistificava i rapporti reali inducendo a credere che si trattase di un meccanismo, quando si trattava invece di rapporti (di potere) fra persone. Lo stesso concetto di manipolazione delle coscienze, secondo cui gli uomini venivano plasmati fin nei gusti più personali, era un'immagine da incubo falsa e mistificatoria. Non è la mancanza di gusto il problema delle masse, ma la mancanza di potere, osservava Brecht in un senso molto simile a quello di Althusser.
Alterando la realtà dei rapporti sociali concreti, il concetto di “reificazione” impediva di stabilire le basi per un'autentica battaglia culturale, oscurando le contraddizioni che attraversavano la “società di massa”. Fuorviante era la concezione espressa in una “riconsiderazione” (1967) del concetto di “Industria culturale”, in cui si indicava quale errore ritenere la cultura di massa espressione e derivazione della cultura popolare, quando invece si trattava di una cultura imposta dall'alto. Questo fu piuttosto un grave errore analitico dei “francofortesi”, perché la cultura di massa è semmai una forma di espressione che nasce dal basso e viene filtrata, indirizzata e manipolata dall'alto. Adorno e Horkheimer, a dimostrazione del carattere esclusivamente “industriale” della “cultura di massa”, adducevano come principale argomento il processo di standardizzazione, attraverso la ripetizione e riproposizione di una serie di cliché fissi presente nei film e nella “musica popolare”. Ma se così fosse stato, come mai in tutta la storia del cinema americano sono stati prodotti tutta una serie di capolavori a partire da Griffith, passando per Chaplin, Orson Welles, fino a Kubrick e Scorsese, in mezzo, naturalmente, ad una marea di prodotti scadenti e commerciali. Il controllo dall'alto della “cultura di massa” doveva concedere uno spazio alle esigenze di espressione culturale autentiche provenienti dalla società, altrimenti non avrebbe potuto esercitare nessuna egemonia. In questa contraddizione era necessario inserirsi per rafforzare le spinte artistiche autentiche.
Rivelatore delle effettive preoccupazioni relative alla “reificazione” è un passaggio di Storia e coscienza di classe di Lukács, in cui si constata che la “meccanizzazione” ha raggiunto le classi superiori. Fin quando la “reificazione” riguarda soltanto la schiavitù salariata tutto va come è ordinariamente sempre andato nella storia dell'umanità, quando invece questa raggiunge la “sfera culturale” ecco che è in pericolo l'intera civiltà, la cultura, l'arte ecc. Non mi convince quel riduzionismo che collega meccanicamente le origini sociali di un determinato autore con il contenuto della sua arte o filosofia, però nel caso di Lukács è difficile negare che nella sua teoria della reificazione, come nel suo assumere a modello normativo la cultura classica borghese, giocasse un ruolo molto forte l'essere cresciuto in una delle famiglie “patrizie” ungheresi più influenti. Il “proletariato” deve essere l'erede della “cultura classica” borghese, il suo compito è di raccoglierne l'eredità e in qualche modo conservarla. Non è consentito al proletariato fare qualcosa di nuovo, ma deve vivere nel culto di questa tradizione.
Per Brecht la “proletarizzazione” dell'intellettuale e dell'artista accomunava la loro sorte con quella degli altri lavoratori. Nelle nuove forme di comunicazione come la radio, oppure nelle nuove tecniche di produzione artistica, sviluppate soprattutto dal film, Brecht vedeva un'opportunità creativa. Benjamin riteneva che la distruzione dell'aura circonfusa intorno all'opera d'arte dalla tradizione che l'aveva collocata su di un piedistallo apriva nuovi campi all'arte. Kurt Weill utilizzò lo stile della musica popolare nel suo teatro come accompagnamento per le poesie di alcune delle migliori opere teatrali di Brecht, realizzando dei capolavori che abbattevano le barriere fra cultura popolare e la cultura alta.
L'arte propria del capitalismo borghese ottocentesco non poteva essere rinnovata dall'interno, né da un ritorno ai classici, né dall'avanguardia, né dal modernismo, perché frutto di un mondo in via di sparizione. Il rinnovamento dell'arte venne dalla “cultura di massa” del capitalismo manageriale a guida statunitense. Questo è indiscutibile per quanto riguarda il film. Per quanto riguarda la musica popolare, essa spesso è riuscita ad innalzarsi a livelli autenticamente artistici, pensiamo, per quanto riguarda il contesto italiano ad artisti come Giorgio Gaber e Fabrizio De Andrè, per citare i primi che vengono in mente.
Non ha senso paragonare, come fa Adorno, la musica popolare con la musica di Beethoven, perché è un paragone fra due oggetti diversi, sarebbe come paragonare il balletto con la musica sinfonica. La musica popolare non può articolarsi in una totalità, come in Beethoven, in quanto nella canzone popolare è soprattutto accompagnamento alle parole. La canzone, che sarebbe un prodotto del "consumismo" moderno ha una storia antichissima, diciamo, almeno 2500 anni. Lascio la parola a Maria Turchetto: "La poesia, dicevano gli antichi greci, è melos e logos: musica e discorso. Per la nostra cultura contemporanea, invece, le poesie sono solo discorsi: discorsi scritti, sintatticamente un po' strani (per le famose "licenze poetiche"), in cui si va a capo molto spesso. Dev'essere un risultato dell'imitazione di modelli classici che ci sono arrivati incompleti, un po' come la faccenda delle statue monocrome, per intenderci. Perché i greci, in realtà, cantavano. Cantavano le liriche, chiamate appunto così perché si accompagnavano con la lira. Alcmane era un cantante, Saffo era una cantante – una cantautrice, se preferite. Ma delle loro canzoni sono stati tramandati solo i testi, insieme a una vaga conoscenza della metrica, che nemmeno capiamo più tanto bene perché la nostra lingua non ha vocali brevi e lunghe, e che comunque ci dà soltanto un'idea approssimativa della struttura ritmica della composizione. Troppo poco per ricostruire la musica. La gente, comunque, ha continuato a cantare, e così – con buona pace dei poeti ufficiali e delle antologie scolastiche – la poesia è sopravvissuta: melos e logos sono ancora insieme nelle canzoni d'oggi."
Contenute in uno scritto d'occasione, dal titolo Vasco Rossi e la poetica della sfavatura (reperibile in internet), giocato fra il serio e lo scherzoso, che invece intendo prendere assolutamente sul serio, sono osservazioni preziose per comprendere la musica popolare moderna. Proprio in tale singolarissimo rapporto con antiche forme, nella canzone, frutto esclusivo del “consumismo” moderno, secondo i critici della “società di massa”, è possibile individuare il carattere radicalmente popolare della musica popolare moderna. Il processo che ha portato alla separazione della poesia dalla musica, trasformando la poesia in un esercizio letterario, apprezzabile soltanto sulla base di una conoscenza “tecnica” della metrica, ha trasformato la poesia nel regno dei “dotti”, mentre associata alla musica è in realtà molto immediata. La poesia diventò in tal modo un'arte appannaggio esclusivo delle classi superiori. Tuttavia, il persistere nei secoli della poesia distaccata dalla musica aveva una sua ragione propria. Il distaccarsi della parola dall'elemento sensibile, cioè dalla parola parlata e cantata, porterà alla nascita del romanzo, nel quale scompare la metrica frutto dell'antico legame con l'elemento sensibile, e il quale, fatto significativo, diventerà a sua volta molto popolare.
Parallelamente abbiamo un'evoluzione della musica che attraverso la separazione dalla parola va in direzione della musica sinfonica classica, quella di Beethoven e Mozart, che fu la musica di una classe che aveva conquistato il potere e che stava trasformando profondamente il mondo. Essa quindi esprimeva sentimenti elevati e si realizzava attraverso una netta separazione fra la composizione, molto elaborata, e l'esecuzione che deve essere perfetta. In tal modo sono stati realizzati grandissimi capolavori ancor oggi apprezzati. Tuttavia, proprio tale tendenza verso un livello alto e la perfezione comportava una perdita di spontaneità e soprattutto una distanza dalla vita quotidiana. Gli uomini, fortunatamente, non sono perennemente impegnati in rivoluzioni, sconvolgimenti sociali, guerre etc. Se l'arte è espressione della vita, fa parte della vita anche il "banale" rapporto amoroso, ma che banale non è per chi è coinvolto, e questo è l'oggetto principale della canzone popolare, la quale degenera spesso in sentimentalismo. Nell'opera lirica, se è vero che compare spesso il rapporto amoroso, questo deve essere immancabilmente inserito in una trama più grande che riguarda di solito sconvolgimenti politici. Nella canzone popolare invece il rapporto amoroso viene espresso nella sua autonomia.
Le varie arti e forme di espressione si sviluppano in modo complementare e relazionale. Vediamo quindi come il jazz reintroduce rispetto alla musica classica la spontaneità, ricongiungendo esecuzione e composizione. Il jazz è una musica strettamente legata all'esecuzione (è per questo che le registrazioni di solito fanno un effetto molto fiacco rispetto all'ascolto dal "vivo"), da cui il ruolo centrale che svolge l'improvvisazione. Il jazz recupera il ritmo, del tutto abbandonato dalla musica sinfonica, introducendo nella cultura “occidentale” dei ritmi africani.
Anche la musica oggi detta colta ebbe i suoi limiti. Prendiamo in esame la opera lirica, anch'essa fu partecipe della tendenza della musica a separarsi dalla parola. Nella musica lirica si invertono le parti fra parola e musica, la parte testuale perde valore come significante a sé e diventa una sorta di segnale per le emozioni evocate principalmente dalla musica. Lo stesso modo di cantare dell'opera lirica non credo sia dovuto principalmente all'esigenza di farsi sentire in teatri talvolta di grandi dimensioni, come sostengono taluni, ma all'intenzione di trasformare la voce umana in strumento musicale a somiglianza degli archi e dei fiati. Fu per questo motivo che l'opera lirica attribuì scarsa importanza al valore letterario dei versi, e soltanto incidentalmente ebbe dei bravi “librettisti”, come Lorenzo da Ponte o Arrigo Boito. Prendiamo i seguenti versi dall'opera I puritani di Bellini:
Amor di patria impavido
mieta i sanguigni allori,
poi terga i bei sudori
e i pianti la pietà
I patrioti che con tanti sacrifici contribuirono alla nascita della nazione italiana, pur tra mille difetti e contraddizioni, non meritavano di essere ricordati con versi tali. Si tratta, credo, dei versi più brutti mai vergati da mano umana. Sono convinto che perfino il nostro veracemente italico Toto Cotugno si vergognerebbe a cantare una roba del genere, proprio perché la musica cosiddetta leggera attribuisce una diversa importanza alla parola. L'immagine degli allori schizzati di sangue già istiga i conati di vomito, e subito ci arriva la “mazzata” dalla memoria olfattiva al pensiero dei sudori del corpo in battaglia, stimolata da quell'assurdo aggettivo “bei” che fa pensare esattamente al contrario, a indumenti intimi madidi di sudore e puzzolenti. Certo, la parola ha una funzione secondaria nella musica lirica, ma fino ad un certo punto! Che fare di fronte a tale orrore? Far finta di non aver sentito, di non aver capito? Ma è possibile? Tapparsi le orecchie, allora. Ma in questo caso non udiremmo nemmeno la musica, sublime, di Bellini. Ecco perché fino ad un certo punto è possibile separare parole e musica, in quanto dei brutti versi finiscono per rovinare, alle persone normalmente sensibili, lo stesso piacere della musica. Non sarebbe stato meglio in assenza di un libretto decente scrivere un'opera sinfonica? Certo, qui gioca un suo ruolo non trascurabile la retorica patriottarda, ma le cose non vanno certo meglio con La traviata, in cui sono assenti i temi patriottici (“libiamo, libiamo”… “brindiamo, brindiamo” sarebbe stato troppo banale?).
Il punto è questo: se anche la musica popolare non ha raggiunto le vette della “musica classica”, nondimeno questa è una legittima forma di espressione, non una semplice schifezza. Il mondo del “rock” si è sottomesso al discorso dominante che intende relegarlo nelle “sottoculture”, senza reale dignità culturale, la stessa parola “rock” è sinonimo di sottocultura. Gli artisti, naturalmente quelli che lo sono sul serio, che lavorano in questo campo, dovrebbero invece rivendicare piena dignità culturale. Molto è cambiato dai tempi di Adorno, la musica “seria” è diventata un pallido fantasma di qualcosa che fu, mantenuto in vita dalle sovvenzioni statali per la “cultura”, oggi le “sottoculture” non vengono squalificate apertamente, ma la distinzione fra musica seria e il resto che di conseguenza serio non è permane, mentre si diffonde un atteggiamento “etnografico” verso le “sottoculture” popolari che vengono “studiate” come un tempo si studiavano i “selvaggi”. Possono essere giudicate “interessanti” sotto vari punti di vista ma mai propriamente Cultura.
A dir la verità, nel generale clima di decadenza si nota una certa decadenza anche della musica “rock”, nonostante non manchino tuttora i gruppi validi. Tra gli artisti degli ultimi decenni, a me piacciano particolarmente gli Anathema, perché esprimono al meglio la dialettica di morte/resurrezione di cui ho parlato in altri articoli. Se non sono famosi come altri gruppi del loro stesso livello artistico, come i Radiohead o i Massive Attack, è perché non hanno mai rinunciato, magari per compiacere il pubblico, alla loro specifica poetica, il che ha contribuito a relegarli nella sotto-sotto-cultura “dark”, nelle loro canzoni si parla quasi solo di morte, rappresentando artisticamente il risvolto emotivo veritiero delle nostre società alla frutta, una realtà dura da accettare nel suo significato emotivo profondo per il singolo (if truth hurts prepare for pain). Portando all'estreme conseguenze “the pains of a failed generation” si giunge a quella morte preludio a quella rinascita che è un desiderio anticipato dalla vitalità della musica.
La musica resta ancora l'ultima consolazione in un desolante deserto culturale. Ritorniamo ora a ricercare le cause che hanno condotto al disastro attuale, nella speranza di fornire in qualche modo degli strumenti per risalire la china. Adorno ebbe verso la società statunitense un atteggiamento che diremmo quasi razzista e relative distorsioni quasi paranoidi. Tutto faceva schifo di questa società, non vi era che superficialità, volgarità, appiattimento culturale e mercificazione. Mai avrebbe potuto ammettere che questa società aveva dei suoi tratti di specifica grandezza. Vi erano in lui tutti gli antichi e radicatissimi pregiudizi della “cultura” europea verso il “nuovo mondo”. Di fronte a tali vecchi pregiudizi, ancor oggi molto diffusi nel nostro vecchio mondo, misteriosa è la capacità di egemonia culturale statunitense, e del mondo anglosassone in generale, fondata sulla capacità di rappresentare queste esigenze della cultura popolare, certo imbrigliandole, e in un notevole misura neutralizzandole.
Adorno e Lukács furono cattivi maestri nel vero senso della parola, in quanto contribuirono a (non) formare quella generazione che passò in un sol colpo dalla “contestazione”, dal “rifiuto del sistema” all'integrazione subalterna nello stesso. Non è un caso che i giornalisti oggi più influenti della televisione erano tutti in prima linea durante il sessantotto nei gruppetti più “radicali”. Senza mettere a punto degli strumenti che consentissero di organizzare la resistenza all'interno della cultura di massa, alimentarono quella “grande frattura”, di cui parlò lo stesso Adorno, fra la cultura borghese ottocentesca europea e la “cultura di massa” statunitense, fra la cultura “alta” e la cultura “popolare”, fra le vecchie e le nuove generazioni, frattura alimentata per altri motivi anche dall'“industria culturale” con cui si venne, ironia della sorte, a convergere.
La trasmissione del sapere fra le diverse generazioni è un fatto essenziale dell'apprendimento nelle società umane. Ogni generazione riceve un'eredità culturale dalla generazione precedente che deve “superare” adeguandola ai tempi in cui vive. Quando ciò non si verifica si crea un profondo disorientamento culturale. Il “marxismo occidentale”, di cui Adorno e Lukács furono fra i maggiori rappresentanti, contribuì ad approfondire la “grande frattura” a causa della incapacità di comprendere il tempo cui vissero e in questo cooperarono con la tendenze del capitalismo manageriale all'irregimentazione delle attività artistiche ed intellettuali. Tale inclinazione distruttiva verso la cultura e l'arte era presente anche nell'avanguardia e in qualche modo ne fu consapevole anche Benjamin, quando osservò che un certo tipo di avanguardia veniva incontro all'esteticizzazione della guerra funzionale e subordinata alla preparazione di un ulteriore conflitto mondiale. Nel dopoguerra, un certo tipo di avanguardia veniva incontro alla tendenza del capitalismo manageriale verso la distruzione dell'arte, alla sua riduzione a réclame pubblicitaria, intrinseca all'irregimentazione delle attività artistiche e intellettuali. Gli orinali messi in mostra a inizio secolo aprirono la strada alla “merda d'artista” pagata profumatamente perché distruggeva l'idea stessa di arte. Con la sua ripetizione virtualmente infinita la banalizzazione dell'immagine diventava “arte”. Le scatole di conserva presentate come “arte” rappresentavano l'“avanguardia” dei futuri “creativi” delle agenzie pubblicitarie, metamorfosi dei precedenti “contestatori”.
I cattivi maestri, la tendenza all'irregimentazione delle attività intellettuali e artistiche, la spinta dei futuri “ceti medi riflessivi” a trovare una collocazione subalterna nell'ambito del giornalismo, dello spettacolo e dell'Università sono all'origine dello sfascio culturale odierno. Certo sarebbe un alibi attribuire tutte le colpe ai padri, la generazione che poi darà vita ai “ceti medi riflessivi”, lo strato medio semi-colto base dell'attuale sinistra ebbe le sue colpe specifiche, in primo luogo l'incapacità di mettere in discussione un'eredità che aveva perso il contatto con la realtà, forse perché maggiormente interessata più che ad una effettiva funzione culturale nella società, a trovare un posticino al caldo all'interno della pubblica amministrazione negli strati più bassi, oppure nelle Università, nel giornalismo e nella televisione.
Ovviamente ci sono giornalisti e operatori dello spettacolo collocati opportunamente a destra, al centro ecc, ma l'egemonia all'interno di questo gruppo sociale è della sinistra. Quando oggi si tira in ballo la parola “cultura”, in realtà si intende la mentalità e l'ideologia del ceto medio semicolto. Se non si tiene conto di questo aspetto, e si ragiona secondo un certo schema marxista, tenendo conto solo dei “rapporti di proprietà”, resta inspiegabile perché nelle “sue” televisioni Berlusconi ha dovuto assumere spesso suoi avversari politici. Si pensi alla recente commedia degli scrittori “di sinistra” che hanno fatto mea culpa per aver pubblicato per la Mondadori. Berlusconi con la “proprietà” delle sue televisione non acquisisce il controllo completo su coloro che lavorano nelle sue televisioni; costoro come gruppo sociale seguono una propria logica e dei propri interessi corporativi, i quali si riflettono in rapporti trasversali ma egemonizzati dalla sinistra.
La matrice “marxista occidentale” di un certo antiberlusconismo la si ritrova in un certo tipo di discorso che ho riscontrato essere molto diffuso, attraverso la lettura dei commenti diffusi su Facebook. La fonte del potere di Berlusconi sono le sue televisioni con cui “manipola” le coscienze degli italiani inducendoli a votare per lui. Questo discorso è diventato alquanto grottesco nel momento in cui Berlusconi è finito sotto un pesante attacco messmediatico da parte sia di tradizionali organi della carta stampata, sia della televisione, sia da parte di gruppi che si sono organizzati tramite internet e la cui costituzione ricorda, in alcune delle sue modalità, quelle delle “rivoluzioni colorate”. Inoltre, Berlusconi, con la sua potenza demoniaca, tutto da solo, sarebbe responsabile del degrado culturale italiano. In realtà, il principale responsabile del degrado culturale non è il singolo individuo Berlusconi, ma il ceto medio semicolto, sia quello accademico, sia quello giornalistico, sia quello culturale o artistico, che ormai di culturale e artistico ha ben poco, e la causa di questo degrado è il suo distaccarsi dalla vita complessiva del paese.
Un certo marxismo occidentale ci ha fatto “fallire una generazione” estraniandola dal mondo in cui ha vissuto, è fondamentale recuperare questo gap ora che è in corso una nuova grande trasformazione complessiva, che si riflette anche nel campo delle comunicazioni, dove internet sta distruggendo l'“industria culturale”. Una rivoluzione appena agli inizi che cambierà tutte le forme di espressione culturali. Sono convinto ad es. che internet paradossalmente rivaluterà le forme di espressione “dal vivo”. Gli artisti in campo musicale, ad es., useranno internet per farsi conoscere e per poi essere ingaggiati per suonare dal vivo. Questo porterà ad una scrematura di tutti i prodotti creati “in studio” dietro cui non c'è una reale consistenza artistica. Come tutti i periodi di transizione questo sembra un periodo di barbarie, ma sono fiducioso che la distruzione dell'“industria culturale” entrata in una fase di decadenza finirà per liberare nuove energie nel campo culturale.
La cultura è utile, la cultura, quella autentica, serve innanzitutto a formare delle persone che sappiano stare al mondo. La cultura è essenziale per formare una classe politica senza la quale ogni nazione è allo sbando. Sfascio politico e sfascio culturale vanno di pari passo. L'Italia è soltanto il lato estremo di una decadenza “occidentale” la cui causa prima è l'eccessiva irregimentazione delle attività artistiche e intellettuali, ma a cui ha concorso l'incapacità di una certa cultura di derivazione “borghese” ottocentesca, denominata marxismo, di far fronte sul piano intellettuale agli sconvolgimenti portati dal XX secolo. Il fallimento del marxismo è stato il fallimento dell'opposizione e senza opposizione le società decadono.