MATTIAMO UN PUNTO E VOLTIAMO PAGINA di M. Tozzato
Capita che ancora adesso, nonostante i ripetuti chiarimenti forniti dall’autore, si affermi che G. La Grassa tenda a “concentrarsi esclusivamente sul dato economico” per concludere poi che egli “si disinteressa dell’Uomo, pur criticando le posizioni economicistiche”. Proviamo a fare, nei limiti della mia comprensione di questi argomenti, un pochino di chiarezza. Si ammette che La Grassa è un critico dell’economicismo ed infatti nei suoi ultimi lavori egli ha posto in posizione centrale la formazione sociale – intesa come struttura relazionale di processi storico-sociali delle tre “sfere”: economico-produttiva, politico-istituzionale e ideologico culturale – invece del modo di produzione marxiano e della formazione economico-sociale leniniana (intesa come insieme strutturato articolato a dominanza di almeno due modi di produzione). Però a La Grassa viene, comunque, rimproverato di dare un peso preponderante al fattore “economico” e più precisamente – traducendo in maniera “corretta” questa espressione – di studiare i rapporti sociali tra individui, intesi come portatori di funzioni, di ruoli e di status, ovverosia in quanto maschere in cui sono incorporati ruoli sociali. Anche La Grassa sa che gli uomini non si riducono a questo: gioiscono e soffrono, lottano, hanno sentimenti e desideri e soprattutto – come ricorda spesso Costanzo Preve – sono obbligati a dare un senso al loro essere-nel-mondo, alle loro azioni, a causa della tragicità ineluttabile dell’esistenza umana determinata dalla coscienza di vivere di fronte alla morte e dalla spinta psico-fisica degli istinti che tendono – nella loro forma iniziale caratterizzata biologicamente – al soddisfacimento integrale dei desideri. A tale proposito mi pare che B. Croce distinguesse tra “principio economico” e “principio morale” con la precisazione che per il filosofo napoletano il primo dei due comprendeva anche la “politica” , l’agire politico nel senso stabilito da Machiavelli. Il principio economico – inteso in questo senso – si potrebbe, in qualche modo, forse ricollegare a quella razionalità e pratica di tipo “strategico” nel conflitto per la supremazia di cui parla La Grassa. Il principio morale, invece, diventa particolarmente rilevante quando si guardi ai fini che gli individui e i gruppi umani si pongono nella vita quotidiana dei singoli e nella storia della società; ma manifesta la sua importanza anche quando – riguardo ai fini ma spesso anche in riferimento ai mezzi – entra in gioco la valutazione che origina da un etica della responsabilità. L’individuo deve anche saper giudicare secondo dei criteri morali e quindi comprendere in anticipo che esiste la possibilità che i fini prefissati possano portare a tutt’altri risultati da quelli previsti (eterogenesi) e che i mezzi utilizzati possano risultare talmente distruttivi da diventare, nei loro effetti devastanti, il “prodotto” di gran lunga più significativo del “progetto” di partenza. Per quanto riguarda il “genere umano” inteso in senso unitario, la cui valenza filosofica è indiscutibile, bisogna prima di tutto considerare che una teoria scientifica della società non se ne cura e non se ne può curare: spetta, infatti, solo ai filosofi il compito, fondamentale, di elaborare una antropologia (filosofica) e una teoria (filosofica) di quelle forme sociali e culturali che Hegel definiva col termine di Spirito Assoluto (Arte, Religione, Filosofia). In questo senso l’utilizzo della nozione di “natura umana” come criterio normativo a cui rapportare i concreti modi di manifestazione di questa stessa “natura” è legittimo in filosofia a partire dalla considerazione che ogni grande filosofia non è mai definitivamente superata e che quindi ognuna di esse potrà formulare un concetto normativo diverso che definisca il genere umano nelle sue caratteristiche essenziali. Per la scienza vale, invece, la citazione più volte riportata da La Grassa da La scienza come professione di Max Weber:
<<…ognuno di noi sa che, nella scienza, ciò che egli ha fatto sarà invecchiato dopo dieci, venti, cinquant’anni. Questo è il destino, anzi, questo è il senso del lavoro della scienza […]A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza.[…]Essere superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo.>>
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Per quanto riguarda il “ruolo degli uomini nella storia” ci sembra utile citare L. Althusser riportando passi che non penso debbano essere condivisi solo dagli “althusseriani”. Nel libro edito da Mimesis (2005) intitolato I marxisti non parlano mai al vento troviamo scritto dapprima:
<<Ma se non è l’Uomo (definito semplice…”astrazione”,o, per dargli peso,“astrazione speculativa”) che fa la storia, son pur sempre gli uomini concreti, viventi, sono i soggetti umani che fanno la storia![…]Gli “uomini”, dunque, se non il Soggetto della storia, sono almeno i soggetti della storia.>>
Rispetto a questa posizione Althusser osserva:
<<…gli individui umani non sono dei soggetti “liberi” e “costituenti” nel senso filosofico di questi termini. Essi agiscono nelle e sotto le determinazioni delle forme d’esistenza storica dei rapporti sociali di produzione e di riproduzione[…]Ma occorre andare oltre. Questi agenti non possono essere agenti che a condizione di essere soggetti.[…]Ogni individuo umano, ovvero sociale, non può essere agente di una pratica se non rivestendo il ruolo del soggetto. La “forma-soggetto”è perciò la forma d’esistenza storica di tutti gli individui che sono agenti di pratiche sociali: perché i rapporti sociali di produzione e di riproduzione comprendono necessariamente, come parte integrante […] ciò che Lenin chiama “i rapporti sociali [giuridico-]ideologici”, che, per “funzionare”, impongono a ogni individuo-agente la forma di soggetto.>>
Certo il ruolo degli uomini nella storia è fondamentale ma è indispensabile intendersi sui tipi di rapporti sociali (e storici) in cui questi stessi “uomini” sono inseriti; altrettanto rilevante risulta il fatto che gli uomini nel loro agire sono anche dei soggetti – sia singoli che raggruppati e/o organizzati – e sono portatori, oltre che di funzioni, di determinate “risorse” e di una determinata “potenza” da spendere nei conflitti tra nazioni e aggregati sociali per il predominio o per il sovvertimento dell’ordine sociale vigente – ricercato attraverso l’uso di tattiche e strategie in ultima analisi di tipo “politico” – diverse storicamente, geograficamente e culturalmente.
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Il sistema capitalistico contemporaneo, pur differenziato per “aree” – nelle varie partizioni “regionali” della formazione sociale globale – manifesta delle caratteristiche comuni dominanti, anche se forse esse risaltano maggiormente nel capitalismo cosiddetto “occidentale”. Si può ipotizzare che la contraddizione principale sia quella che si manifesta nello “scontro tra il dominio di una crematistica fuori controllo” e, “sul fronte opposto, tutte le forme di resistenza a tale dominio crematistico, popolari, statali, politiche”. Saremmo di fronte ad un capitalismo che, subordinando a sé integralmente anche tutte le forme di vita, avrebbe raggiunto la capacità, la potenzialità di un dominio assoluto su tutte le sfere dell’esistenza individuale e sociale. Il fine dei gruppi dominanti sarebbe quindi “lo sviluppo per lo sviluppo” e – attraverso la subordinazione “dell’uomo come libero agente economico concorrenziale estraniato da ogni relazione sociale che non sia la relazione di mercato” – il trionfo delle crematistica e della brama insaziabile e senza fine di profitto e quindi in ultima analisi di accumulazione monetaria. A questo punto è necessario, per forza, ricordare che uno dei punti su cui La Grassa ha maggiormente insistito negli ultimi anni è stato proprio quello teso a demolire il convincimento che l’accumulazione di denaro sia il “fine ultimo” della formazione sociale capitalistica: nel capitalismo, rispetto alle formazioni sociali precedenti i rapporti di dominio fondamentali sono direttamente “incorporati”, anche, nella sfera economico-produttiva ma il fine di questa stessa “sfera” è quello di approntare i mezzi e le risorse necessarie alle classi dominanti per il conflitto strategico, a tutto campo e quindi per la supremazia nelle varie aree nazionali, “regionali” e globali. E’ compito dei dominati nei momenti di crisi – ma non in quelli di tipo prevalentemente “economico” – di agire in forma organizzata (se si saranno create le condizioni) all’interno di una determinata configurazione delle relazioni sociali (conflittuali) e delle istituzioni capitalistiche per sfruttare le possibilità che possono darsi nell’ambito delle fasi policentriche e anarchiche della formazione sociale capitalistica globale.
Mauro Tozzato 24.10.2008