MEGLIO “KEYNESIANO” MA NON ESAGERIAMO
C’è un brutto fraintendimento intorno al quale gravitano le posizioni di molti economisti, non importa a quale scuola appartengano. I sostenitori della spesa pubblica, con tutte le ragioni che hanno in una fase di crisi in cui l’economia nazionale risulta stagnante, cadono in questa trappola molto più dei liberisti. Per esempio, Claudio Borghi che scrive su twitter : “se lo Stato spende si arricchiscono i cittadini (che sono lo stato)”. Va bene la sintesi, dettata dallo strumento di cinguettamento, ma un errore di interpretazione resta tale e non è scusabile anche se si tratta di riassumere una posizione in poche righe. I (neo)liberisti, invece, vedendo nello Stato un nemico, sembrano più consapevoli delle lotte intestine tra drappelli dominanti che si disputano al suo interno. La retorica antistatalista non impedisce loro, in ogni caso, di cercare protezione presso le cerchie politiche che “abitano” lo Stato, salvo lamentarsi “dopo” di certe ingerenze. Sono uomini di mondo.
Precisiamo, che lo Stato non sono i cittadini e non sempre quando esso spende si arricchiscono quest’ultimi. Piuttosto, abbiamo visto come in questi anni, pur aumentando il debito pubblico ad arricchirsi siano stati pochi gruppi di privilegiati i quali si sono spartiti le spoglie di un insieme di istituzioni in profonda decadenza e decomposizione. Gli Stati, in quanto sistemi di apparati, sono strumenti nelle mani di attori politici (in competizione fra loro), di tipo nazionale, che confliggono con quelli di altri Stati. Tale conflitto contempla delle alleanze ma queste sono sempre orientate a meglio posizionarsi nella lotta di tutti contro tutti, che in alcune fasi diventa guerra aperta. Lo Stato è egemonia corazzata di coercizione, come diceva Gramsci, in esso operano un tipo particolare di agenti strategici ai quali spetta di tenere insieme tutto il “sistema”, di dare una direzione al Paese, di coordinare le grandi manovre in un ambiente geopolitico intriso di sfide. Se lo Stato fossero i cittadini sarebbe la fine dello Stato.
Detto ciò, in questa epoca di scoordinamento ci sembrano più giuste le iniziative espansive proposte da Borghi e soci, che non i micragnosi tagli per tenere in ordine i conti pubblici (alla Monti, Cottarelli e compagnia cantante). Ricordiamo a questi signori che tirare in ballo Keynes non significa contestare certe leggi economiche o mettere in dubbio il libero mercato, anzi come scrive La Grassa, costui partiva dalla presupposizione di una libera concorrenza, si atteneva ai concetti marginalistici tradizionali, ma riferendosi a grandezze globali, aggregate, nel senso di variabili complessive attinenti all’economia nazionale: “Si parla, ad es., di consumo, risparmio, investimento, ecc. in quanto dati relativi alla totalità dei consumatori, risparmiatori, investitori, ecc. esistenti in un determinato territorio (in genere un paese; comunque, ci si può anche limitare ad una regione di un paese o invece allargarsi ad un insieme di paesi di una certa area geografica, ecc.). Per questo si parla della teoria economica keynesiana come di una macroeconomia, in contrapposizione alla microeconomia della teoria neoclassica tradizionale. Man mano che cresce il reddito nazionale (somma dei redditi di tutti gli individui viventi in un dato territorio, in genere quello nazionale, senza riguardo alla loro collocazione in date classi o gruppi sociali), aumenta la quota (percentuale) del reddito risparmiata rispetto a quella consumata. La teoria neoclassica tradizionale riteneva che tutto il reddito risparmiato fosse anche investito. Quando il risparmio aumentava, si supponeva che diminuisse adeguatamente il saggio di interesse (prezzo dei prestiti), per cui gli imprenditori si facevano dare a credito – con l’intermediazione delle banche – tale risparmio per effettuare gli investimenti, che sono appunto domanda di beni di produzione. Quindi, qualunque fosse la dimensione del prodotto (reddito) nazionale, la domanda era comunque della stessa entità dell’offerta, visto che quella di beni di investimento assorbiva la parte di reddito risparmiata (la parte consumata è ipso facto domanda di beni di consumo). Si sarebbe quindi realizzata la cosiddetta legge di Say per cui l’offerta dei beni (e dunque la produzione da cui dipende l’offerta) crea la sua propria domanda; non potrebbe quindi mai esserci crisi di sovrapproduzione, la merce prodotta non resterebbe mai invenduta per carenza di domanda. Per Keynes, invece, vi è un livello della produzione nazionale, nei paesi ad alto sviluppo capitalistico, in cui si verifica comunque un eccesso di risparmio, che non viene assorbito dall’investimento degli imprenditori (privati) per quanto bassi siano i saggi di interesse sui prestiti (bancari). La domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) non tiene allora dietro allo sviluppo (grazie agli avanzamenti tecnologici) della capacità di produrre un reddito, in cui cresce più che proporzionalmente la parte risparmiata rispetto a quella consumata. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva la causa reale della crisi che poi certamente, una volta scoppiata, si avvita su se stessa facendo regredire il livello della produzione fino al punto in cui, nuovamente, l’intero risparmio, anch’esso ovviamente diminuito, trova di fronte a sé una adeguata domanda di beni di produzione (investimento). Va rilevato, ed è cruciale, che nella crisi la debolezza della domanda induce la diminuzione della produzione e questa accresce la disoccupazione dei fattori produttivi; quella del fattore lavoro ha maggiore evidenza perché è socialmente squassante, ma la disoccupazione colpisce anche il “fattore capitale”, che in questo contesto, come sempre nella teoria neoclassica, è l’insieme dei mezzi di produzione (di proprietà privata). In definitiva, la causa fondamentale della crisi risiede nella carenza, evidentemente relativa, della domanda a livelli di reddito elevati, tipici di economie con grandi potenzialità produttive, quindi tecnologicamente assai avanzate; ecco perché la crisi scoppia soprattutto nel bel mezzo di una raggiunta opulenza ed altezza del tenore di vita. Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia… Lo Stato spende, cioè effettua domanda apprestando le opere infrastrutturali già considerate. Il problema che si pone è però: di che tipo di spesa deve trattarsi? Secondo i principi tradizionali (oggi ripresi con vigore) del mantenimento di un pareggio del bilancio statale (o almeno di un deficit da contenersi il più possibile), lo Stato, se vuol spendere di più, deve dotarsi dei mezzi a ciò necessari tramite un accrescimento dell’imposizione fiscale. Così agendo, però, si provoca la diminuzione del reddito dei cittadini, e dunque della loro domanda, al fine di accrescere la domanda pubblica. I conti non tornano. Si dà con una mano e si toglie con l’altra. La domanda (spesa) statale deve essere in deficit di bilancio. E nemmeno è possibile che lo Stato, per poter spendere, accresca il suo debito con l’emissione di titoli (i bot ad es.) perché, ancora una volta, si sottrarrebbe reddito ai privati, indebolendo così la loro domanda per rafforzare quella pubblica. Puramente e semplicemente, si stampa moneta e la si mette in circolazione comprando i fattori produttivi che servono per compiere le varie opere pubbliche. Secondo la tradizionale teoria quantitativa della moneta, quando lo Stato mette in circolazione una massa di moneta superiore, i prezzi delle merci salgono (inflazione). Secondo la teoria keynesiana ciò è vero solo nel caso che i fattori produttivi (lavoro e capitale) siano pienamente occupati e non si possa perciò accrescere, almeno nel breve periodo (in mancanza di aumento delle potenzialità produttive dovuto ad investimenti e nuove tecnologie), la quantità prodotta e offerta. Quando invece c’è la crisi, i fattori sono disoccupati; ma, come sopra considerato, è essenziale che lo sia il lavoro così come il capitale (mezzi di produzione); debbono esserci milioni di lavoratori a spasso e migliaia di imprese chiuse, ma potenzialmente in grado di riaprire i battenti, con macchinari che hanno solo bisogno di essere lubrificati e rimessi in movimento. L’importante è solo che riparta la domanda dei beni, perché allora le imprese riprendono a produrre, riassumendo forza lavoro. La spesa pubblica per infrastrutture, insomma, dà impulso all’attività di una serie di imprese che debbono – tanto per fare un esempio – fornire cemento, acciaio, vetri, infissi, mobilio, ecc. per costruzioni edili. E queste imprese debbono assumere lavoro (dirigente come esecutivo) per produrre; così facendo, distribuiscono salari a lavoratori prima disoccupati, che cominceranno a domandare beni prodotti, a loro volta, da altre imprese. Anche queste allora si riattivano, acquistando beni di produzione e pagando salari ad altri lavoratori prima disoccupati che, con il salario percepito, domandano altri beni di consumo e …..via di questo passo, in un circolo ora virtuoso di ripresa economica”.
Proporre, pertanto, oggi politiche keynesiane (post o neo, come preferite) è solo buon senso, si tratta di contrastare una lunga stagnazione che tagli, riduzione degli investimenti, privatizzazioni di rami strategici ecc. ecc. hanno semplicemente aggravato. Il mito dei bilanci pubblici sotto controllo è l’ultimo rifugio di certe canaglie che se ne fregano dell’indipendenza e della prosperità del proprio Paese, perché servili a potenze straniere. Noi però riteniamo anche che tali politiche incidenti sulla domanda non siano sufficienti a superare la débâcle in atto, perché stiamo vivendo un’epoca di multipolarismo in cui le decisioni politiche pesano più di quelle meramente economiche. Puntare unicamente su quest’ultime è scelta miope, se ciò non sarà accompagnato da decisioni storiche dirompenti, soprattutto nella rivisitazione dei rapporti di forza internazionali, che potrebbe rendere vani questi sforzi iniziali in campo economico-finanziario.