Mettiamoli in Croce!
‘Italiani popolo di combattenti’. L’ha detto Giosuè Carducci.
‘Italiani popolo di pensatori’. L’ha detto Benedetto Croce.
‘Italiani popolo di eroi’. L’ha detto Gabriele D’Annunzio.
‘Italiani popolo di sognatori’. L’ha detto Gigi Marzullo.
Da ‘Secondo me gli italiani’ di Gaber *
Anche tralasciando i combattenti e gli eroi, il passaggio dai ‘pensatori’ di Croce ai ‘sognatori’ di Marzullo è assai tremendo. Sì perchè più che di sogni trattasi di vere e proprie allucinazioni. L’allucinazione del ritenere che non si stia vilmente aggredendo e squartando la Libia, ma compiendo un’azione di protezione della popolazione civile (sterminandola). L’allucinazione del ritenere che non si sia immersi nella democrazia elettorale manipolatoria all’americana ma nella partecipazione dei Cittadini Sovrani (sic!). L’allucinazione del ritenere che non siano i mandanti esterni Usa tramite sicari interni italiani ad affondare Berlusconi ma la cosiddetta opposizione. E via seguendo sino all’allucinazione del centro-destra (complementare a quella del centro-sinistra) di essere una forza politica di orientamento liberale, a fronte della completa perdita di significato determinato di questo termine Queste allucinazioni sono poi diventate incubi per chi auspicava il mantenimento di un qualche margine di autonomia dell’Italia rispetto ai vari gruppi di dominanti Usa—a loro volta in conflitto in quanto portatori linee, con finalità egemoniche ma diverse tra loro.
1. Forza Italia prima e Pdl poi hanno evocato ed ostentato il richiamo all’ideologia liberale. Ma tutti questi ripetuti ossequiosi richiami al liberalismo mostrano il loro carattere retoricamente vuoto se guardiamo al pensatore italiano che ne è stato, nella prima parte del novecento, la massima espressione: Benedetto Croce. Infatti da una seppur sommaria ricognizione della produzione ideologica dell’area politico-culturale di FI-Pdl (programmi, statuti, quotidiani e riviste) si rileva che non solo a Croce è stata dedicata scarsissima attenzione, ma soprattutto è indicativo osservare dove quella attenzione, pur limitata, si è focalizzata. Si parte dal rammentare che Croce “è stato il filosofo che più di ogni altro ha affermato la necessità di spogliare la politica di suggestioni moralistiche” sottolineando però solo che la sua filosofia politica era “incentrata sull’affermazione della libertà” (1) Si è ricordata la sua pervicace convinzione anticomunista per cui per il Pci degli anni ’40 del novecento “Benedetto Croce, ancorchè ottantenne, era additato come un pericoloso nemico, soprattutto perché con le sue idee liberali e il suo seguito intellettuale in Italia e in Europa era avvertito come l’unico serio ostacolo al progetto togliattiano (poi riuscito) di egemonizzazione della cultura nazionale.” Tanto grande fu l’ostilità che “l’editore Laterza che deteneva i diritti delle opere di Croce, non lo ristampò in ossequio all’egemonia culturale del Pci” (2) A seguire si è esaltata la sua battaglia politico-culturale per la ‘continutà dello Stato’ dopo il 25 luglio del 1943, segnalando che “Dalla lettura dei ‘Taccuini di guerra’ del vecchio filosofo emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione comunistico-socialista che , in breve , avbrebbe consegnato l’Italia ad un altro totalitarismo, forse più spietato, come la ‘liberazione della Polonia, Ungheria e degli altri Paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste, andava dimostrando con abbacinante chiarezza.” (3) Per concludere sul tema, si è voluto ricordare con autocompiacimento che Croce “colse anche la negatività del comunismo, che combattè nel dopoguerra anche con la fondazione del Partito Liberale” ma soprattutto evidenziando che “il peso culturale maggiore però Croce lo esercitò negli studi estetici” (4)
Omaggiando di nuovo senza dare continuità, e soprattutto senza andare oltre la nota formula crociana della coincidenza dell’onestà politica con la capacità politica (5) ma solo per stigmatizzare il moralismo politico del centrosinistra e la doverosa distinzione delle due sfere (estrema timidezza rispetto al ben altro che l’orientamento crociano circa i rapporti tra l’etica e la politica, le dimensioni decisive della politica, il modo di concepire lo Stato, offrivano). Del tutto fuorviante poi l’unico intervento che voleva Croce come ispiratore della cultura politica di Forza Italia, perché asserendo pure che “Forza Italia, accusata spesso di essere un partito improvvisato, aziendale, senza radici, non abbia mai indicato in Croce un padre nobile. Avrebbe potuto legare la sua politica modernizzatrice (…) alla più tradizionale cultura laica del paese e al pensiero cattolico.” Sì, perché il Croce cui l’autore faceva riferimento era quello del celebre saggio ‘Perché non possiamo non dirci cristiani’, e quello della ‘riflessione religiosa dell’ultimo Croce” come fonte auspicabile “a beneficio di chi caldeggia il matrimonio tra cultura liberale e tradizione cattolica” (6)
Da ultimo anche rispondendo recentemente all’ultima savianata (l’attribuzione al padre di Croce il versamento di mazzette per il salvataggio in occasione del terremoto dell’Aquila del 1883), il Giornale ha rammentato “un’icona della cultura nazionale del calibro di Benedetto Croce,” “padre dell’idealismo” “il più grande filosofo italiano del Novecento” “opere fondamentali della filosofia, quali la ‘Logica’ e l’ ‘Estetica’ “ lo ricorda pure come “teorico del pensiero liberale” ma della sua filosofia politica niente… (7)
Dal profilo complessivo di questa produzione ideologica si evince che che FI-Pdl si è ben guardata dal confrontarsi e valorizzare date posizioni e linee interpretative espressione di una determinata curvatura tra quelle possibili.
2. Quali suggestioni ed indicazioni di orientamento poteva dare o sostenere il pensiero di Croce? Sottopongo alcune linee atte a coadiuvare una data visione della politica ed una determinata politica tesa alla ricerca di margini di autonomia nazionale, che contingentemente e timidamente è stata perseguita anche da Berlusconi, favorita dalla strategia di Bush e dalle sue maglie più larghe e dalle aree geopolitiche su cui essa si era focalizzata, ma che è poi stata da lui abbandonata, con il sopravvento della strategia obaminana ed il venir meno dei punti d’appoggio (Russia, Libia,Turchia) con cui Berlusconi aveva tentato di costituire un asse.
2.1. In primo luogo, quale premessa iniziale al discorso complessivo è da rimarcare che la filosofia di Croce ricomprende l’agire politico nella sfera pratica tesa a perseguire l’utile per cui, nel solco di Machiavelli, la politica non ha una natura etica, ma utilitaria. Di conseguenza pone l’accento circa “la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è al di là, o piuttosto al di quà, del bene e del male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta.” (8) Quindi precisandone il senso chiariva: “Che cosa vuol dire l’autonomia della politica? Vuol dire forse negare o limitare la morale? Neanche per sogno. Vuol dire invece,semplicemente, che la morale non sarebbe se la politica non le porgesse la materia prima e lo stimolo per l’opera sua santa. Chiarisco con un paragone questo rapporto. Tutti sappiamo ( e già questa verità affiorò in Aristotele) che la poesia e le arti sono la liberazione dalle passioni, la catarsi o purificazione da esse. Ma, se questo è il loro ufficio, è anche evidente che la poesia e le altre arti non sarebbero se le passioni non facessero l’ufficio loro proprio, se non avessero la loro autonomia, il loro diritto, la loro perpetuità, se l’uomo non fosse uomo passionale. Il simile è per la politica rispetto alla morale. […] praticamente importa che noi italiani non ci facciamo illusioni astrattamente umanitarie e teniamo fisso in mente l’anzidetto rapporto ineluttabile. La sfera della politica, che è anche essa nello spirito umano, è sembrata talora star fuori di questo, quasi forza della natura, appunto perchè la politica ha le sue ragioni che non sono quelle della morale.” (9)
Forza Italia—Pdl si è adattata e si è mossa esclusivamente sul terreno, predisposto dall’avversario, del moralismo atto ad occultare sia il carattere politico e quindi il vero oggetto che ne costituisce la posta in gioco. Lo spostamento sul terreno moralistico ed il correlato occultamento del terreno effettivo è esso stesso parte di una strategia che tende a far prevalere una delle linee in conflitto, imponendo il campo entro cui il conflitto possa dispiegarsi dissimulandosi. Il farsi imporre e/o l’accettare tale terreno è indice di subalternità ed incomprensione dell’effettiva posta in gioco del conflitto in corso
2.2. In secondo luogo, anche il diritto era collocato da Croce nella sfera pratica tesa a perseguire l’utile, per cui ne poteva formulare una visione realistica e disincantata, tale che “La sanzione del diritto internazionale è la forza, altrettanto efficace e duratura di quella del diritto nazionale, o altrettanto inefficace ed effimera, secondo i casi: la forza che, beninteso, è forza solo quando altri si stima a sé utile o minor male accettarla e accomodarvisi. Ma se la vita del diritto internazionale, e di qualsiasi diritto, è quale l’abbiamo sopra determinata o piuttosto rammentata, dovrebbe esser chiaro che non vi ha cosa più stolta che l’aspettare dal diritto l’abolizione delle guerre. Perché il diritto è esso stesso lotta o guerra, o episodio della lotta e della guerra; e non potrebbe abolire la guerra senza abolire sé medesimo. Le norme che esso fissa, e che servono da generica orientazione pratica nella vita economica, sono portato di guerre e condizioni di nuove guerre, e si sostengono con la minaccia di guerra o con la guerra combattuta, e in simile guisa si modificano. Se anche si attuasse una volta la sognata corte arbitrale degli Stati, è ben evidente che la guerra continuerebbe del pari attraverso alcune finzioni giuridiche” (10)
L’avviamento alla comprensione del carattere di sublimazione e codificazione della forza, da parte del diritto poteva aprire una chiara comprensione della funzione dell’apparato dello Stato che dentro l’ideologia giuridica si muove e che al contempo la produce. In controluce si evinceva in questo modo l’impotenza politica dell’azione di Berlusconi, in quanto tutta interna al campo d’azione giuridico, con l’obiettivo e la credenza di contrastare sullo stesso terreno ma senza disporre di leve interne a quell’apparato, facendo perno solo sull’apparato statale governativo in quanto ritenuto formalisticamente preminente nell’architettura costituzionale quindi, di ritenuto in grado di per sé contrastare (quando non di prevalere su) l’azione dell’apparato giudiziario, non valutando le forze in funzione delle quali quello stesso apparato giudiziario si era mosso. Questa visione più realistica del diritto, non sia come ordinatore dei rapporti sociali interni ad una formazione sociale particolare che tra gli Stati, ma registri lo stato di dati rapporti (sociali) di forza, avrebbe consentito agli agenti politici di affrontare il conflitto, verso l’interno e verso l’esterno, con meno (auto)illusioni e conferito più efficacia alla loro azione politica.
2.3. In terzo luogo, si poteva ricavare dai testi crociani una visione realistica dello Stato, iniziando con l’accettazione del consiglio secondo cui “Se non profittiamo di questa dura guerra per liberarci dei preconcetti astrattamente umanitari e renderci familiare la vera dottrina dello Stato, quando diverremo savi? Dunque , mi pare che dalle cose precedentemente discorse risulti chiaro che la politica, come l’economia, ha leggi sue proprie, indipendenti dalla morale;” (11) Questo consente quindi di (dis)porsi “Contro coloro che concepivano lo Stato come istituto morale e religioso, sottomesso alle regole della pietà cristiana, conveniva gridare che gli Stati non si governano coi paternostri, e che richiedono bensì virtù affatto diversa dalla virtù cristiana: virtù politica. Fu questa la verità del Machiavelli, e rimane una conquista per sempre, un’eterna verità” (12)
Ma se “le lotte politiche non sono lotte morali” allora “Lo Stato, invece, non può nemmeno ciò: non può preferire alla salvezza, quale che sia, della vita, la propria rovina e morte; cosicchè, per questa parte, se fosse un individuo morale, sarebbe da dire vile: squalifica alla quale sfugge non per altro se non appunto perchè esso non si aggira nella cerchia etica, e le sue viltà non sono viltà,, ma ‘dolorose rinunzie’, che, a volta a volta, secondo che soffia il vento della Storia, tutti gli Stati hanno compiute e compiono. E vili (…) sono i suoi procedimenti, senza riguardo verso i deboli o i meno forti, le sue lusinghe verso quelli di pari forza, il suo timoroso rispetto verso i più forti. Quale Stato, di grazia, nella guerra ora chiusa, ha serbato la propria ‘dignità’, nel senso etico della parola?
Si è vista la Francia sollecitare fremebonda l’aiuto da tutti, festeggiare selvaggi e barbari, senegalesi e gurkas indianio, che calpestavano la sua dolce terra, versare parole di femminea lusinga su popoli che aveva un tempo ingiuriati e offesi, supplicare perfino (vanamente) i nipponici a mandar gente sul suo territorio invaso, recitare con untuosi modi democratici pie giaculatorie sulla sorellanza latina e sulla causa della libertà e della giustizia umana, a lei affidata, ad eseguire altrettali gesti ‘che l’onestate ad ogni atyo dismagana’; e poi, a vittoria ottenuta, s’envelpper dans sa dignitè, e prendere atteggiamenti di alta giustiziera o piuttosto di ‘esecutrice di alte opere’ verso il gran popolo confinante, affatto dimentica della comune umanità, insolente, beffarda e ironicamente applicare tutte le sonanti massime di giustizia e di libertà a beneficio esclusivo degli interessi propri, facendo qualche strappo all’assunta ‘dignità’ quando le conveniva chinare il capo verso taluna delle potenze più forti. E si son viste l’Inghilterra e la Repubblica Americana, non vinte ma pure scosse dallo spettacolo della fortuna germanica, nel punto culminante e più rischioso della lotta scendere a inviti che erano offerte di transazione e di pace, superbamente respinti dal momentaneo vincitore, che, poco stante, doveva affrettarsi, esso, il fiero Stato tedesco, a farli per suo conto, e con quale insistenza di premure e con quanta docilità nell’accettare tutto quanto gli veniva dettato! Certo, l’antica romana sentenza ammonisce che ai vinti non resta altra speranza che nullam sperare salutem …. Che cosa volete? Gli Stati sono magnifici animali, poderosi, colossali; ma essi non vogliono altro che vivere, e, per non morire, accettano qualunque modo loro si offra. Per intanto (essi pensano), si vive: l’avvenire provvederà al resto. Questa è la verità: e perciò niente di più fittizio delle vanterie degli Stati vincitori, quasi che essi abbiano salvato l’onore e i vinti l’abbiano perso: laddove non c’è, in questo caso, nè un onore da salvare nè un onore da perdere,ma solo vita e interessi di vita da garantire in quel miglior modo che si può.” (13)
Per cui, analogamente ad una concezione più prosaica del diritto , segue quella dello Stato, dipingendo gli Stati quali “forme necessarie nelle quali si muove la vita storica“. Qui, pur senza giungere alla demistificazione dello Stato in quanto complesso di apparati che non si colloca (pur ideologicamente auto(rap)presentandosi come tale, e pour case) al di sopra delle parti qualificandosi come organo al contempo di amministrazione (dell’interesse) generale, paradossalmente avrebbe potuto contribuire però almeno ad incrinare l’idilliaca idea liberale dello Stato quale ente al suo interno armonico dotato di moralità superiore. (Abbiamo tutti davanti agli occhi l’osceno spettacolo degli attuali ‘liberatori’ della Libia e del popolo libico).
2.4. In quarto luogo, l’insieme degli elementi prima menzionati sfocia in un’immagine realistica della politica, delle sue poste in gioco, del suo essere costitutivamente uno spazio conflittuale; scrive Croce alla fine del 1915: “odo pronunziare con tono tra orrore e disprezzo: la real-politick. … Poniamo che ci venga innanzi un tale, che abbia idee affatto fantastiche sulla estensione e posizione rispettiva dei vari paesi, sulle catene di montagne, sui corsi dei fiumi, sui mari e sui porti; e noi gli raccomanderemo di procacciarsi un buon manuale di geografia, d’istruirsi nella geografia dei geografi, nella geografia delle cose, reale e non immaginaria, nella real-geographie. […] Similmente quando si ode discorrere di politica con ignoranza degli interessi e delle forze degli Stati, e dei fini e mezzi, e delle possibilità e impossibilità, e delle diversità tra cose e parole, tra volontà e infingimenti, sorge naturale l’esortazione a lasciare da banda la politica da volgo, da oziosi, da ingenui e magari da letterati e professori, e studiare la realtà politica o la politica reale, la real-politik. […] o che forse si dovrebbe inculcare, invece, una politica irreale, di fantasia, una phantasie-politik? E non dovremmo noi italiani, darci da fare per l’istruzione politica, non dico del nostro popolo, ma delle nostre classi dirigenti? L’ignoranza politica (e , in verità, non politica solamente) della democrazia è grande; e forse nemmeno la lezione oggettiva e oculare degli avvenimenti che ora si svolgono la correggerà del richiedere alleanze e guerre…” (14) Ne deduce causticamente Croce che “bisognerà fare real-politik … con la più completa spregiudicatezza, con la maggiore diffidenza critica verso le illusioni parolaie e le tendenze semplicistiche, con la più particolare e paziente conoscenza dei dati di fatto; in modo da non scambiare … i beduini col popolo delle Cinque giornate (perfino a questo vertice sono pervenuti i democratici e socialisti nostrani, adeguando la sollevazione degli arabi tripolini contro gli italiani a quella degli italiani stessi contro gli austriaci del 1848!); sempre, insomma, real-politik e non già phantasie-politik” (15)
Smarcarsi dalla phantasie-politik, ancor più quando questa rappresenta una servil-politik consentirebbe agli agenti strategici della sfera politica di predisporre politiche tese ad affermare e mantenere una propria linea di sovranità nazionale, capacità politica che risulterà sempre più importante con l’avanzare del multipolarismo.
2.5. In quinto luogo, le coordinate teoriche precedenti consentirono a Croce, pur nell’ottica liberale di cogliere sia l’aspetto nazionale, che quello della potenza relativamente allo Stato. Infatti, a titolo esemplificativo, a proposito della politica italiana condotta da Giolitti verso la Libia, nella sua opera di ricostruzione della storia italiana scriveva: “Le riforme sociali attuate o in disegno, e l’interessamento che le ispirava per le classi popolari, non impedirono che venisse a maturità, e fosse iniziata e condotta a termine, l’occupazione della Libia, perché quelle riforme e la ripresa liberale da cui erano nate, e la fioritura economica che le aveva rese possibili, e il rigoglio culturale, erano tutti aspetti della crescente forza italiana, alla quale non poteva mancare la correlativa manifestazione nella politica estera. Nel 1902, quella impresa era parsa imminente,e il Prinetti, ministro degli Esteri, sarebbe stato forse disposto a procedere con le armi, ma seguì poi l’altra via della cosiddetta ‘penetrazione economica’ per preparare nel momento e nel modo opportuno l’occupazione territoriale; e quantunque negli anni seguenti non s’interrompesse questo lento lavorio e si cercassero anche, per mezzo di agenti segreti, intese coi capi arabi, la questione uscì dal primo piano, che aveva tenuto per qualche tempo, e parve come addormentata. Senonchè non la perdevano d’occhio gli uomini del governo, ben sapendo che gli italiani non avrebbero in nessun caso tollerato che la Tripolitania e la Cirenaica fossero occupate da altre potenze, o che la Turchia, già in sospetto e in guardia, e non celante la sua ostilità, ne precludesse loro le porte, sia col chiamare colà interessi di altre potenze, sia col rafforzar visi militarmente; e, d’altro canto, intendevano che non si poteva prolungare indefinitamente l’esercizio dei diritti su quelle terre, riconosciuto all’Italia da accordi internazionali.” (16) Se ne evince che una visione di tal tipo avrebbe consentito maggiore chiarezza nell’affermazione degli obiettivi prioritari per una politica di maggiore indipendenza nazionale ed anche una più conseguente saldezza nel perseguirli; e visti i nefasti esiti attuali della nostra vile e servile compartecipazione subalterna all’aggressione proprio alla Libia non se ne può che rimanere (apparentemente) basiti…. Inoltre, sempre a proposito dell’allora guerra libica, en passant, non possiamo non segnalare l’istruttiva frecciata che Croce riservava alla sinistra (Psi) dell’epoca: “I socialisti fecero bensì opposizione di parole, ma non svelsero più le rotaie per impedire la partenza dei treni portanti i soldati, come nel 1896, e quasi non comprendevano essi medesimi come tal cosa avessero potuto fare una volta: la loro presente opposizione nonostante la retorica d’obbligo contro le guerre del capitalismo, non era molto diversa da quella degli altri,…, che contestavano il tornaconto dell’impresa. Né le notizie della tenace e fiera resistenza degli arabi, che vennero dopo le illusioni imprudentemente sparse sulla loro festante attesa delle armi italiane, né quelle degli scontri sanguinosi e delle ferocie esercitate su soldati italiani caduti nelle loro mani, turbarono la fermezza del popolo, che volle che la guerra desiderata e iniziata fosse condotta a buon fine. […] Il socialismo continuava a decadere in quanto tale, ridottosi (come lamentava qualche scrittore socialista) da internazionalista a nazionalista, e da questo a regionale,e poi a provinciale, e poi, infine, a collegiale.” (17)
3. Le suggestioni, indicazioni e valutazioni crociane erano però irricevibili da FI per quattro motivi di fondo:
a) Perché la forma organizzativa di FI non era adatta a tale ricezione e promozione.
Sin da subito la più acuta politologia dominante aveva enumerato una serie di tratti caratteristici nella genesi della nuova forza politica, sottolineando il fatto che “il giusto messaggio politico e l’uomo giusto per comunicarlo non sarebbero bastati ribaltare il trend favorevole al fronte progressista. La carta vincente di Forza Italia è risultata la sua rivoluzione organizzativa, la capacità di impiantare in pochi mesi una macchina per conquistare il consenso di milioni di cittadini nonché selezionare i candidati per convogliare quei voti in Parlamento.”(18) Rilevando che”Durante la sua fase formativa, fra il 1993 ed il 1994, Forza Italia fu il comitato elettorale di Berlusconi, un comitato costruito in gran parte su reti di rapporti personali e professionali preesistenti e capace di adottare una strategia aggressiva e spettacolare di conquista dell’arena elettorale.” (19) Segnalando che nel processo di costruzione organizzativa “L’immagine della moltiplicazione spontanea ed a macchia d’olio dei seguaci del Cavaliere serve bene a mascherare la realtà di una dinamica organizzativa che, al contrario, procede secondo un rigidissimo schema top down. Molto più che dalle fantomatiche schiere dei suoi club, Berlusconi è affiancato e supportato da un esercito professionale di esperti di comunicazione e di marketing, inquadrati in una rigida disciplina aziendale.” (20) Arguendo che FI “Non nasce da profonde fratture, sociali o religiose, e tantomeno è un raggruppamento di notabili parlamentari. Forza Italia è un partito artificiale, costruito a tavolino sulla base di un’analisi sofisticata del mercato politico e di una straordinaria capacità di organizzazione manageriale. ” (21) Ma al di là della verosimiglianza dei caratteri enucleati, quale sia stato lo scopo principale per cui FI è stata costruita non lo si dice… o meglio è rimasto per la politologia dominante, indicibile. La genesi del fenomeno politico-organizzativo di FI è stata espressione difensiva di settori dell’industria pubblica e dei ceti medi cui erano stati scompaginati i referenti politici consolidati (DC e PSI). L’essere nata come risposta (effetto di reazione) all’offensiva condotta con il colpo di Stato giudiziario di Mani Pulite, e risposta in tempi necessariamente rapidi (instant party) ne ha segnato sia il modello originario, cioè quell’insieme di fattori che—in combinazione variabile—danno l’impronta all’organizzazione delineandone le caratteristiche genetiche, che il seguente processo di istituzionalizzazione, cioè le modalità attraverso le quali l’organizzazione di un partito si solidifica sviluppando le sue strutture interne interconnesse rendendosi così autonoma dall’ambiente, assumendo peculiari caratteristiche e identità. Questa identità organizzativa è stata contrassegnata nei seguenti modi: “Forza Italia è un partito patrimoniale, creato dal leader, finanziato dal leader e i cui membri sono personalmente dipendenti dal leader in quanto legati da rapporti di lavoro. Questa struttura verticistica e personalistica è sprovvista di organismi deliberativi”. (22) Inoltre “Forza Italia assume così i caratteri di partito carismatico, in quanto si identifica in tutto e per tutto nella persona del leader, unico a fornire legittimità di qualsivoglia azione; di partito verticistico …perché le decisioni sono prese in assoluta autonomia dal leader e fatte poi discendere alle strutture locali e operative; di partito patrimonialista, perché le risorse sulle quali è stato fondato e lo staff che al centro come in periferia lo gestisce sono dipendenti dal gruppo societario di Berlusconi.”(23) E da ultimo FI “non ha voluto invece creare un qualsiasi organico raccordo organizzativo tra vertice e base che non fossero i Club, innervazioni periferiche prive di potere deliberativo. Essa si è affidata alle risorse di una fortissima personalizzazione della leadership e la supporto di un’esile squadra di collaboratori del capo incaricati, non di allestire nella società una rete di quadri e di attivisti, ma solo di definire strategie comunicative capaci di cogliere—o nel caso formare—un mercato elettorale da occupare.” (24)
Che cosa ha comportato l’essere FI un partito che ruota intorno alla sola leadership (partito personale) ed alle risorse materiali della stessa (partito patrimoniale) e l’essere fortemente condizionata e proiettata sulle aspettative a breve del mercato politico e dei diversi strati sociali che lo compongono (partito leggero)? I compiti di un partito quale referente politico per i gruppi di agenti strategici dominanti tra loro in lotta (cominciando dalla sfera economica per dispiegarsi nelle altre sfere sociali), sono definiti dallo strutturarsi per il conflitto dentro gli apparati dello Stato, per la conquista di pozioni prevalenti dentro di essi per assumere la direzione politica complessiva, e dalla costruzione di un proprio blocco sociale partendo dall’utilizzo degli apparati statali sia (eventualmente ed unitamente ai primi) del proprio apparato. Rispetto a ciò possiamo sostenere che FI si è dimostrata sì un’organizzazione funzionale ai fasti democrazia elettorale all’americana, ma non adatta rispetto a quella che Calise chiama “capacità di penetrazione nei gangli del potere statale” con lo scopo del controllo e dell’indirizzo degli apparati decisivi dello Stato, da cui poi muovere contro le altre organizzazioni dell’arena politica e per il dispiegamento di politiche di trasformare un aggregato elettorale in un blocco sociale. Adatta quindi alla competizione elettorale—versante feticistico nella sfera politica analogamente alla circolazione delle merci nella sfera economica—ma inadatta al conflitto strategico per la supremazia.
b) perché la cultura politica di FI (sia quella derivante dalla sua linea politica che quella con cui si auto-(rap)presenta) non ha assunto effettivamente un qualche senso determinato. Il richiamo all’ideologia liberale è parso come animula vagula blandula, liberalismo senza liberalismo complementare all’anticomunismo senza comunismo. Questo perchè non solo il liberalismo, diventato un concetto passe-partout, ha svolto la funzione di sostituire negli anni ’90 la coppia destra/sinistra nella configurazione in cui l’avevamo conosciuta, ma a sua volta il concetto di liberalismo non solo non è più autosufficiente ma è divenuto un denominatore comune necessitante poi di ulteriori specificazioni per costituire la ‘discriminante’ della sfera politica italiana degli ultimi vent’anni, assumendo la forma di un contenitore assolutamente vuoto, riempibile di contenuti ad hoc e dovendo inoltre essere associato ad altro termine per ottenere una comunque fumosa e mistificante qualificazione.(25) Ultima e sintomatica conferma di ciò è il recente numero di Micromega , significativamente intitolato ‘Berlusconismo e fascismo’, in cui vi si possono leggere le seguenti domande retoriche:”Berlusconi liberale? Ma per favore! Per anni Silvio Berlusconi ha cercato di accreditarsi come il possibile alfiere di una ‘rivoluzione liberale’. Ma cosa c’entra il berlusconismo con Einaudi e Croce, per non parlare di Gobetti?” Siccome l’accusa neanche tanto velata è di essere illiberale (che è specularmente quanto Berlusconi ed entourage hanno imputato ai loro avversari), se evince chiaramente che anche per gli avversari di Berlusconi, Croce viene assunto esclusivamente come l’emblema del liberalismo in modo specularmente edulcorato ed indeterminato….e tanto basti. (26)
Ma come si è giunti a questa deprimente situazione? Che cos’è accaduto?
Nel biennio 1989-1991 sono finite (in un processo intimamente connesso, ma con esiti e modalità differenti) le forze politiche che hanno condensato la dicotomia destra/sinistra dalla fine degli anni ’60 del novecento: il Pci diventato sinistra ed all’opposto la Dc. Si è così (ri)prodotta una forma nuova della dicotomia, che ha assunto contenuti e funzioni profondamente diversi segnando una discontinuità rispetto alla precedente , ma ha altresì conservato la continuità nella funzione di costituire correnti diverse ma interne alla riproduzione della sfera politica di quella data formazione sociale. La cultura politica (ma è parola grossa … e inappropriata) della sinistra, abbandonati gli ultimi esigui riferimenti alla tradizione del Pci (da nascondere), è un insieme raffazzonato e disorganico collage attinto fumosamente all’assortito menù liberal-democratico, predisposto per mascherare i veri obiettivi (nonchè i veri referenti interni—GF&ID ed esterni—dominanti Usa) che si stavano perseguendo. Escluso il mantenimento di un barlume raziocinante che potesse anche solo porsi qualche domanda mimimamente scomoda, tutto poteva andar bene allo scopo, per svolgere la funzione ideologica cui era chiamata. Nascendo come reazione alla possibile affermazione degli ex-Pci, la cultura politica che ha impregnato il modello originario prima e l’istituzionalizzazione poi di forza Italia nè è diventata complementare: tanto l’una nascondeva e mistificava, tanto l’altra non era in grado di nominare il nemico e smascherarne le vere trame; amalgama intenibile (se non fosse unificata da un fattore esterno, una logica funzionale ad altro obiettivo inspiegabile e non rappresentabile tramite essa) l’una anche l’altra dietro un apparente maggiore omogeneità era tutt’altro che dotata di una qualche uniformità e profondità. Per comprenderlo serviamoci ancora di Croce. Quando all’interno della corrente politico-culturale liberale taluni interpreti tentarono di coniugare liberalismo e socialismo, Croce per definire il risultato di tale congiunzione richiamò l’immagine mitologica ed irreale dell’ircocervo, animale per metà caprone e per metà cervo. E’ accaduto che la forma dell’ideologia, dal profilo più definito sia diventata sempre più indeterminata, per cui dall’ircocervo crociano si è giunti al coacervo marzulliano. Si è cioè passati dalla forma ircocervo per cui l’ideologia del Pci, era per metà formalmente comunista e per metà reale socialdemocratica, e l’ideologia della Dc era metà borghese-capitalistica e per metà solidaristico-assistenziale verso strati sociali bassi e verso capitalisti pubblico/privati, alla forma del coacervo per cui l’ideologia Pds-Ds-Pd è un’accozzaglia culturalmente informe ed insignificante ed analogamente l’ideologia di FI è data da un miscuglio informe. L’inerzia dei processi storici ha fatto sì che si trascinassero termini e dicotomie senza che in realtà avessero un qualche forte nesso di continuità con i significati precedenti. Si è continuato a classificare e dicotomizzare tramite la coppia destra/sinistra, quando la frattura costitutiva precedente era ormai finita (ma si era già esaurita a mio avviso già prima—negli anni ’60, per l’aspetto interno, prima di essere superata per l’aspetto esterno geopolitico negli anni ’70—con l’inizio del cambio di campo del Pci, ma fu positivamente enunciata ed esaltata solo dopo il crollo dell’Urss), e quella nuova era assolutamente (politicamente) diversa ed ancor più ingannevole, senza disporre della consistenza avuta dalla precedente tra il 1944 ed il 1964 (che prendo come date simboliche di riferimento in quanto arco temporale in cui si è dispiegata la direzione politica togliattiana del Pci). L’incertezza prima, la limitatezza poi e la debolezza finale delle forze di cui Berlusconi è stato espressione, non si è palesata quindi solo nella sfera politica, con l’incapacità di conquistare e controllare gli apparati decisivi dello Stato, di insinuarsi stabilmente nel suo nucleo coercitivo indirizzandolo poi verso i propri obiettivi sia interni alla formazione sociale italiana che nella politica internazionale. Ma si è anche manifestata e riflessa anche nella sfera ideologico-culturale nell’incapacità di sfuggire alla forma del coacervo nell’approntare una propria cultura politica adeguata.
c) la natura sociale di FI
Nell’analizzare la composizione sociale dell’elettorato di FI, Ricolfi aveva evidenziato che “Prima di essere di destra o di sinistra, il vecchio o nuovo voto a Forza Italia è l’espressione—e in parte il veicolo—di quel processo di laicizzazione della politica” (27) Dove “Per laicizzazione della politica intendo, essenzialmente, un aumento del voto di opinione a scapito del voto di appartenenza.” (28) A nostro avviso, rimanendo a questo livello di superficie, l’aumento del voto d’opinione (che Ricolfi designa positivamente con il termine di laicizzazione), registrava in realtà il fatto del venir meno dell’azione dei referenti politici di dati gruppi sociali—primo fra tutti il ‘ceto medio’—grazie alla quale erano prima addensati in un blocco sociale che così compattato aveva costituito un blocco politico relativamente stabile. Lo scompaginamento di quelle forze politiche (Dc, Psi) era quindi stata la premessa per destabilizzazione di quel dato blocco sociale. Di quel blocco sociale in via di disintegrazione era parte rilevante l’industria pubblica, ed FI (la sua coalizione interna dominante) cercò di farsi espressione ed interloquire con essa. Ad un livello più profondo circa la natura sociale di Forza Italia, notava Giancarlo Fullin nel suo saggio sulla cosiddetta ‘borghesia di Stato’ “Come ogni grande gruppo capitalistico, e come già i Ferruzzi, la Fininvest è largamente indebitata con le banche pubbliche [quando mai il grande capitale si è accumulato, rischiando in proprio e senza attingere al capitale pubblico?], che stanno passando sotto il controllo del grande capitale monopolistico delle famiglie di Mediobanca. Inevitabile quindi che Berlusconi tema di fare la fine di Gardini o, se gli va meglio, di venire tagliato fuori dal settore delle telecomunicazioni. La costruzione di un proprio autonomo potere politico rientra pertanto negli interessi generali del gruppo Fininvest (e dei suoi sostenitori stranieri) e non rappresenta affatto un’azione di avventurismo politico dell’uomo Berlusconi. Preme inoltre in questa direzione una parte consistente della “borghesia di Stato” già organizzata attorno alla P2 e al Psi, cui Berlusconi deve le proprie fortune economiche, e che ora corre il rischio di essere tagliata fuori definitivamente dai nuovi assetti di potere e di essere lasciata sola a pagare il prezzo, anche giudiziario, degli anni ruggenti del craxismo. L’iniziativa di Berlusconi non si presenta tuttavia come esclusivamente determinata dagli interessi economici del gruppo Fininvest e dalle pressioni degli ex patron politici, che largamente si ricicleranno nelle file di Forza Italia. Vi è da parte dell’uomo Berlusconi, e della sua “squadra”, una percezione molto alta della fase politica e delle difficoltà oggettive che si frappongono ai tentativi, interni alla “borghesia di Stato” , di ridare stabilità agli assetti politico-istituzionali.” (29) In linea di massima possiamo in fondo descrivere la natura sociale di FI come data dalla sintesi instabile ed a prevalenza variabile di una di queste tre componenti:
– interessi l’elettorato Dc-Psi (ceto-medio)
– interessi a valenza nazionale di alcuni settori dirigenza imprese pubbliche
– interessi imprenditoriali di Berlusconi
La prevalenza, concordanza e mutazione di queste componenti andrebbe indagata e seguita nel suo evolversi, per spiegare la dinamica evolutiva della stessa FI (o Pdl in quanto FI allargata) come insieme di sottogruppi in conflitto. Qui mi limito a dire che solo un’istituzione forte avrebbe potuto sintetizzare stabilmente le tre tipologie di interessi, imponendogli una composizione vettoriale con direzione sufficientemente chiara ed univoca, cioè ad andare oltre lo stato gassoso di mero aggregato elettorale. Questo partendo dall’individuazione di quali erano gli interessi strategici nazionali. A sua volta il divenire un’istituzione forte sarebbe stata favorita ed avrebbe a sua volta incentivato la formazione di una cultura politica più consona alla promozione della dimensione nazionale (perché più che sulla dimensione liberale infatti si sarebbe dovuto far leva su quella nazionale).
d) l’assenza di un progetto politico che, con un a qualche coerenza ed un minimo di chiarezza, tendesse ad affermare margini di autonomia per gli interessi italiani. In conseguenza di ciò, non era richiesto di dotarsi di una struttura organizzativa adatta a sostenere, in quel campo di battaglia che è lo Stato, quel progetto e quindi anche non serviva una data cultura politica come collante che coadiuvasse la trasformazione di un aggregato elettorale (base sociale) in un’alleanza stabile tra gruppi sociali (blocco sociale).Se la politica è il luogo dell’esercizio della razionalità strategica, allora si capisce come quest’ultima motivazione (d) spieghi, ricomprendendole, le altre tre (a,b,c). Più in generale l’assenza di progetti politici esplicitabili, dato il vigere dell’horror vacui, ha fatto sì che lo spazio della politica sia stato conseguentemente riempito dal confronto tra uno schieramento esclusivamente portatore degli interessi Usa (da essi sostenuto) da cui si è , timidamente e nascostamente, differenziato un embrionale schieramento che, pur collocandosi entro la stessa prospettiva di subordinazione agli stessi Usa, ha confusamente ed in modo oscillante tentato di difendere i residui margini di autonomia (per una politica capace di iniziative non di per sé divergenti da quelle Usa, ma che possono potenzialmente entrare in collisione) e quindi di interesse nazionale. Ma la politica, come campo di strategie conflittuali per la supremazia, si è così immersa in meandri carsici scomparendo per intero (e non solo in parte come nel suo funzionamento normale) dalla sfera politica, dovendo necessariamente essere mascherata dal primo schieramento in quanto espressamente funzionale e favorevole esclusivamente agli Usa (e loro succursali nei subdominanti interni) ed allo stesso tempo non potendo venire mostrata nel suo vero oggetto del contendere neppure dal secondo schieramento anche quando è entrato in parziale collisione su punti decisivi (politica energetica, sfere d’influenza, alleanze) con gli Usa. Date queste premesse si possono cogliere i lineamenti assunti negli ultimi vent’anni dalla sfera politica della formazione sociale italiana: la non emergenza di un più marcato multipolarismo, il comune vincolo geopolitica di entrambi gli schieramenti, unitamente alla limitatezza segnalata del secondo, hanno determinato uno scenario per cui i due schieramenti confliggono entro un campo d’azione delimitato dall’accordo di entrambe sulle regole del gioco (che non sono formalisticamente date nè dall’assetto costituzionale nè tantomeno dalle leggi elettorali—cabalistiche o truccate che siano):1) nascondere la vera posta in gioco e 2) nascondere il più possibile chi (gli Stati Uniti) veramente influenza o orienta le mosse dei giocatori (‘Non nominare mai il nome dell’odierno nemico principale’).
Conclusioni…
Nelle acute parole prospettiche lagrassiane dell’ormai lontano dicembre 1994, lo scenario (ed era proprio il termine più appropriato!) politico italiano era così tracciato:”Abbiamo oggi a che fare, nel circo della politica, con due accozzaglie di clown, di burattini i cui fili sono tirati da chi sta molto più in alto di loro. Chiamerò prima banda del ‘centro-destra’, seconda quella del ‘centro-sinistra’. Quest’ultima–mi dispiace dirlo perchè molti compagni onesti, ormai accecati dalla personalizzazione dello scontro in atto, non lo vogliono capire–è da sempre la preferita dai grandi centri dominanti. E può naturalmente contare sull’appoggio dei vertici sindacali, anch’essi contro le elezioni anticipate così come la Confindustria, la Banca d’Italia, naturalmente Scalfaro (e Scalfari) e via dicendo. Il progetto originario dei dominanti era quello di dare a questa banda la direzione politica del paese (in attesa di riuscita delle manovre per la creazione del Grande Centro), mentre l’altra è stata, lo ripeto, il ‘naso di Cleopatra’ della storia.Questi outsiders hanno fatto di tutto per accreditarsi quali migliori difensori del grande capitale.” (30) Con la vergognosa debacle dello schieramento che, inserendosi nelle maglie più larghe e con il centro geopolitico diversamente orientato dalla strategia obamiana che (ri)colloca l’Italia più fortemente all’interno della sua linea egemonica quale campo d’azione, nell’occasionalità e limitatezza sopra delineata ha lanciato qualche elemento per un asse strategico (a partire dalla politica energetica) dimostratosi in attrito crescente con il Washington consensus, ed alla fine naufragato, lo scenario appare desolante per il mancato profilarsi nell’immediato di forze capaci di perseguire interessi nazionali di fondo per una formazione sociale italiana a sovranità meno limitata. A coloro che hanno coniugato in modo scialbo e sciatto il nome Croce con il principio di libertà, vorrei solo ricordare che proprio nel capitolo intitolato ‘La religione della libertà’ nella sua ‘Storia d’Europa nel secolo XIX, a proposito dell’indipendentismo risorgimentale trattava favorevolmente dell’Italia perché era uno di quei paesi in cui vi erano “sforzi e moti di oppresse nazioni contro dominatori e tutori stranieri” Per incedere con determinazione verso una politica di maggiore indipendenza nazionale, le forze che eventualmente vi aspirassero, andando verso un sempre più marcato multipolarismo dovrebbero agire tenendo fermo senza concessione alcuna quanto Croce disse a proposito del moralismo politico:
“Allorché odo o leggo le gesticolate declamazioni di codesti accusatori di responsabilità e moralistici politici, sento allentarsi in me il freno del Galateo; e rimormoro le parole che Francesco d’Assisi consigliò a frate Leone di gettare sul viso del diavolo, che gli si presentava in forma di Crocefisso: “Apri la bocca, ecc”; e rimastico i versi del nostro Carducci: “O idealismo umano, affogati …” (il Carducci dice dove, e indica il posto giusto per quella gente)». (32) Per rendere espliciti fino in fondo i riferimenti che il sarcasmo crociano riserva agli (anche odierni) moralisti politici ritengo politicamente corretto indicare il materiale che è a loro più adatto:“frate Ruffino risponde: “Apri la bocca; mo’ vi ti caco”. (33); ed anche il luogo ritenuto a Croce più consono a costoro:
“E l’asino, che vien, de l’ortolano
Lo fiuta con dimesso
L’ orecchio, e pensa — O idealismo umano,
Affogati in un cesso.”
(34)
NOTE
*Contenuta in ‘Un’idiozia conquistata a fatica’ e ‘Far finta di essere sani’
(1) Sangiuliano Se Borrelli leggesse Croce’ Il giornale 26 gennaio 2002
(2) Sangiuliano ‘La sinistra getta Croce nel girotondo.’ Libero 24 maggio 2002
(3) Di Rienzo ‘Quando l’antifascismo processò la Resistenza.’ Il giornale 22 aprile 2004
(4) Baldo ‘Quella strada indicata da Croce.’ Il tempo 15 giugno 2002
(5) Guarini ‘Professore, si rilegga Croce’ Il tempo 13 agosto 2005 e con la pubblicazione integrale dello scritto in ‘Il governo degli onesti? Un’utopia per imbecilli.’ Il giornale 25 settembre 2009
(6) Socci ‘Macchè Sturzo, è Croce l’ispiratore di Forza Italia.’ Libero 27 settembre 2009
(7) Sangiuliano ‘Saviano riscrive Benedetto Croce per aiutare i teoremi della sinistra’ Il giornale 10 marzo 2011
(8) Croce Elementi di politica ‘Per la storia della filosofia politica. Noterelle.’ pag. 205
(9) Croce ‘Durezza della politica’ 1945, in Scritti e discorsi politici (1943-1947) Laterza editore vol. 2° pag. 191
(10) Croce ‘L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra.’ Laterza editore pag.118
(11) Croce ‘L’Italia dal 1914 al 1918.Pagine sulla guerra.’ Laterza editore pag. 105
(12) Croce ‘Frammenti di etica’ pag 297-298
(13) Croce ‘L’Antieroicità degli Stati in ‘Etica e politica’ Adelphi pag.
(14) Croce ‘L’Italia dal 1914 al 1918.Pagine sulla guerra.’ Laterza editore pag.77-78
(15) Croce ‘L’Italia dal 1914 al 1918.Pagine sulla guerra.’ Laterza editore pag.79
(16) Croce ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’ Adelphi pag.336-337
(17) Croce ‘Storia d’Italia dal 1871 al 1915’ Adelphi pag.341-345
(18) Calise Dopo la partitocrazia.’ Boringhieri Pag. 132
(19) Poli ‘Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale.’ Mulino pag 283
(20) Calise Il partito personale Laterza editore pag. 75
(21) idem pag 75
(22) Ignazi I partiti italiani Mulino editore pag. 135
(23) idem pag. 136
(24) Chiarini ‘Destra italiana dall’Unità d’Italia a Alleanza nazionale.’ Marsilio editore pag154-155 anno 1995
(25) Ho tratto lo spunto da Pombeni ‘Il liberalismo passe-partout’ Rivista ‘Il Mulino’ n° 4 del 2005
(26) Micromega n° 1 del 2011 pag. 163
(27) Ricolfi Il voto proporzionale e il nuovo spazio politico italiano in Bartolini-D’Alimonte Maggioritario ma non troppo’ Mulino editore pag. 309
(28) idem pag 294
(29) Fullin ‘Della Borghesia di Stato’ in La Grassa, Fullin, Coglitore ‘Passo doppio Unicopli edizioni
(30) La Grassa – Preve ‘Il teatro dell’assurdo’ Edizioni Puntorosso pag. 37
(31) Croce ‘La religione della libertà’ in ‘Storia d’Europa nel secolo XIX.’ Adelphi editore pag. 11
(32) Croce, ‘Postille politiche’ giugno 1918
(33) I Fioretti di S. Francesco – Dal Cap. 25
(34) Carducci 522 Intermezzo in ‘Poesie’, Casa Editrice Rossi