MI PERMETTO UN INSERIMENTO, di GLG _ 12 agosto ‘12 . Con una nota aggiuntiva
Riporto qui la parte finale del mio libro L’altra strada (per uscire dall’impasse teorica), che sarà pubblicato dalla Mimesis di Milano fra due-tre mesi. La inserisco affinché chi non l’ha ancora compreso, entri in possesso di alcuni elementi (per me definitivi) circa la nostra indisponibilità a qualsiasi “catechismo”. Prendere le mosse dal proprio background culturale e teorico non significa essere ancorati al Libro di un Profeta o di Dio in persona; serve semplicemente a non librarsi nel vuoto di un eclettismo o di una erudizione fine a se stessa. Qui non si tratta tanto della convinzione di capire o conoscere il mondo, quanto di viverci e muoversi in esso, alla ricerca dei migliori o meno peggiori percorsi in base a proprie scelte e “prese di partito” già acquisite nei primi decenni di vita; e che poi si possono mutare tenendo conto del bilancio tra successi e fallimenti, ma non certo stravolgere del tutto, pena l’assoluta torpidità del cervello e la depressione (o esaltazione, che è tutto sommato la stessa cosa) inconcludente.
Per noi, i credenti non sono solo quelli (soprattutto di un tempo ormai trascorso) che adoravano La Classe (sottinteso operaia) e la Lotta di Classe (contro la “malefica” borghesia), ma pure coloro che oggi si ergono in adorazione della Natura o dell’Uomo. Partiamo dall’idea che siamo individui detti animati, dotati di particolari facoltà indicate come pensiero, ragione, ecc. Esistiamo in un mondo che alcuni vogliono Uni, altri Pluri-verso; per alcuni nato da un big bang (non si sa se da qualcosa preceduto oppure no) per altri sempre esistito, per altri ancora una semplice successione di big bang e big crash, ecc. Onestamente, non sappiamo che scegliere; non neghiamo affatto il fascino di simili discorsi, ma più o meno come la lettura di un buon romanzo di fantascienza o anche la rilettura di Verne e Poe, ecc. Per alcuni, inoltre, ci vuole un “Dio” – pensato in qualsivoglia maniera, magari quale semplice “realtà” terrena e umana – per “salvarci”, ecc.
Tutte questioni, lo ripeto, del massimo interesse, che suscitano spesso vive emozioni e stimolano pensieri più o meno profondi. Tuttavia, qui ci si attiene semplicemente al modo di muoversi, utilizzando il pensiero e non solo le membra, al fine di orientarsi nel corso di quella che è stata comunque un’evoluzione di questa specie animale detta uomo. Non crediamo in nulla di definitivo, di stabilito infine come quel “qualcosa” solitamente definito verità. Esistono artefatti del cervello pensante che servono per fasi storiche particolari e sempre transeunti. Ci sono a volte evidenti successi nella pratica del vivere seguendo tali artefatti e, più o meno altrettante volte, altrettanto evidenti fallimenti; quasi sempre, dopo il successo, segue un fallimento. Non è comunque il caso che adesso mi metta a scrivere un altro saggio; volevo solo giustificare l’inserimento.
L’altra strada (ultimi paragrafi)
12. Trovandosi nell’epoca del capitalismo borghese (inglese), tutto sommato la prima epoca dopo l’accumulazione originaria, Marx fissò l’attenzione sull’opificio industriale (diffusione di fabbriche e ciminiere); il conflitto di “superficie” fu da lui trattato principalmente quale concorrenza nel mercato tra possessori di merci, che occultava però la differenza esistente tra queste (tra i mezzi di produzione e la semplice forza lavorativa umana) e quindi celava lo “sfruttamento” (estrazione di pluslavoro/plusvalore) dietro l’apparenza (reale) dell’eguale scambio tra merci di valore equivalente (in media). Si individuava così lo spessore del “reale” (dotato di “superficie” e “profondità”) e la collocazione del potere di decisione in un dato raggruppamento (classe borghese) di “soggetti”. La “profondità” era, come già sappiamo, la riproduzione del rapporto sociale decisivo, quello tra capitalista e operaio (con tutti i problemi ormai sviscerati sopra e in altri numerosi scritti di vent’anni). Tale riproduzione, il “profondo” del “reale”, faceva dei soggetti i portatori della stessa, ma assegnava loro pure la qualità di agenti in essa.
L’analisi (teorica) prende in Marx le mosse dal “profondo”, rappresentato dalla riproduzione del rapporto con i suoi portatori, e conduce ad ipotesi circa la struttura della realtà. La pratica deve infine consentirci di accedere alla condizione di agenti che provano la bontà delle ipotesi attraverso gli eventuali successi (temporanei) e i reiterati fallimenti (nel lungo periodo in cui analisi e prassi si cristallizzano in teorie e apparati con le loro cinture, o innervazioni, ideologiche di protezione). In seguito al fenomeno storico-specifico prodottosi con il passaggio dal pre-capitalismo al capitalismo – conflitto che dalle “sovrastrutture” politiche e ideologiche si estende alla “base” economica della società – Marx assegna centralità a quest’ultima in quanto produzione delle decisive condizioni materiali della vita associata, e quindi concentra la sua attenzione sul rapporto di produzione (comunque sociale) riprodotto nel corso dei processi che si svolgono nella “base” in questione.
Questo non è economicismo nel senso delle teorie dominanti e di quelle dei “marxisti” che hanno ridotto il pensiero di Marx ad una semplice critica dell’economica dominante. Senza dubbio, tuttavia, Marx si è lasciato trascinare dall’eccezionale dinamismo del nuovo modo (sociale) di produzione e ha visto in esso la formazione di uno spirito produttivo – sostanzialmente l’applicazione generalizzata del principio del minimo mezzo – che si sarebbe dovuto dimostrare utile anche nella nuova società (socialismo e poi comunismo) cui detto dinamismo, tramite la socializzazione delle forze produttive (in particolare la formazione del lavoratore collettivo cooperativo), avrebbe dato vita; anzi stava già dando vita, secondo quanto scritto ne Il Capitale, nelle “viscere” della società capitalistica. Tale principio produttivo, liberato poi dagli intralci del rapporto sociale del capitale mediante la rivoluzione, sarebbe divenuto mezzo di ottenimento di quel copioso fluire di prodotti indispensabili per “dare a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Trascuro qui tutta la trasformazione storica del capitalismo borghese in quello dei funzionari del capitale, il cui prototipo è statunitense. In ogni caso, bisogna tornare alle regole della conflittualità che dalle cosiddette sovrastrutture si è estesa all’attività nella “base economica”. Tale lotta non si riduce alla concorrenza tra unità produttive condotta con riferimento a costi e prezzi. Pur accettando, per semplicità, di suddividere (teoricamente) la formazione sociale nelle tre sfere dell’economia, della politica (in quanto apparati vari dell’attività “pubblica”) e dell’ideologico-culturale, è necessario rifarsi in ogni sfera allo svolgersi della lotta per la supremazia – cui, come già rilevato, segue anche l’attività di cooperazione, alleanza, ecc. tra individui e gruppi di individui per meglio combatterla – che segue i principi delle strategie, delle mosse che in un certo senso rappresentano la politica nel suo senso più proprio, non quale complesso di apparati in cui esse si condensano, precipitano, in una delle sfere sociali. Le strategie in quanto politica – che sono anche quelle seguite dai capitalisti, se pensati semplicemente nella veste di gruppi imprenditoriali in concorrenza fra loro – sono guidate principalmente da principi altri rispetto a quello del minimo mezzo, pur utilizzando pure quest’ultimo in via sussidiaria.
La conflittualità (in base a strategie della lotta) deve sostituire il mercato quale “superficie” di quel “reale” che possiede un altro aspetto (“più profondo”), celato alla vista. La produzione – quella considerata in generale – è produzione di società, nel senso di articolazione (nella teoria) delle tre sfere sociali di cui sopra. Il soggetto di tale produzione si presenta quale agente nell’esplicazione delle strategie della lotta, che rappresentano i mezzi o strumenti applicati all’oggetto, pensato come insieme ancora informe di individui riuniti in un determinato “spazio”. Tale insieme è la materia prima, trasformata dai mezzi (strategie) di lotta utilizzati dagli agenti (soggetti) in un più articolato e “strutturato” conglomerato che è una formazione sociale, cioè in breve la società.
Com’è noto, una volta creatosi il mercato, è lecito considerarlo quale aspetto di “superficie”, che occulta una “profondità” ed è tuttavia parte del “reale”; gli agenti della concorrenza intercapitalistica devono comunque in esso agire, conoscerne la configurazione, le dinamiche particolari in congiunture diverse, per poter condurre la lotta tra di loro fino alla vittoria di alcuni su altri (sempre utilizzando pure le alleanze, la cooperazione, ecc.). Solo una critica più radicale della formazione sociale capitalistica – critica che è teoria, intesa però a organizzare la prassi della trasformazione rivoluzionaria di detta società – tenta di attingere il suo livello più profondo (la massa del mare sotto lo strato ondoso). La teoria marxiana del valore e plusvalore (rivelatrice dello sfruttamento) non arriva veramente al profondo, poiché essa conclude in definitiva per una differenza tra il valore delle merci prodotte (lavoro contenuto in esse) e il valore della forza lavoro divenuta merce con la liberazione di schiavi e servi trasformati in salariati; valore che è quello contenuto nelle merci necessarie al sostentamento (storico-sociale) del possessore di detta merce speciale e cui corrisponde (in media) il salario o prezzo della stessa. Siamo sempre ai cicli riproduttivi del II libro de Il Capitale, disposti come già rilevato sullo stesso piano.
Questo, a mio avviso, il senso più proprio della frase, da me riportata, che conclude il cap. XXI del I libro de Il Capitale. Vi ricordate? Il processo produttivo capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo (dunque sia nella sua “apparenza reale” mercantile sia nel suo livello più profondo), non produce solo merce (l’aspetto più superficiale), non solo plusvalore – scoperta marxiana che non scende veramente in profondità, più semplicemente chiarisce come nel mercato, considerato dall’economista ideologo dei dominanti quale unico ammasso di merci, mezzi di produzione e forza-lavoro siano invece merci di natura differente – ma produce e riproduce il rapporto sociale capitalistico, visto certamente quale rapporto sociale inerente alla produzione, quindi insito nella base economica della società (una soltanto delle tre sfere). E’ comunque tale riproduzione del rapporto il vero livello profondo di quella realtà rappresentata dalla formazione sociale del capitale. Il marxista, rimasto abbagliato dal gioco dell’emergenza del plusvalore – quale spiegazione del profitto capitalistico, che si forma nel livello della circolazione capitalistica, come dimostra l’annosa questione della trasformazione, su cui questi superficiali pseudo-marxisti si sono accapigliati per oltre un secolo – ha creduto di avere così raggiunto il livello di maggiore profondità, mentre rimaneva ancora al “moto ondoso”.
Non voglio certo spiegare l’intera prassi novecentesca del cosiddetto movimento operaio con i limiti teorici del marxismo appreso non solo dai riformisti (socialdemocratici) ma pure dai rivoluzionari (compreso Lenin in tal caso). Tuttavia, l’incomprensione del livello più profondo ha condotto a centrare tutta l’attività politica, pensata quale motore della trasformazione sociale, sul problema dello “sfruttamento” (estrazione del pluslavoro/plusvalore), sulle classi in lotta (nel mero antagonismo distributivo tra salario e profitto in quanto parte fondamentale del plusvalore), sulla tendenza dei capitalisti al massimo profitto: prima in un’acuta lotta concorrenziale fra loro nel mercato, poi “deformando” quest’ultimo con accordi monopolistici tra grandi imprese (trust, cartelli, ecc.). Il livello veramente decisivo della riproduzione del rapporto è stato disatteso o comunque assai frettolosamente trattato; tanto da arrivare a credere di aver bloccato tale riproduzione con la semplice proprietà statale (del tutto impropriamente definita socialista) dei mezzi di produzione, nel cui ambito si riproduceva pienamente il rapporto tra salariato e potere di disporre dei mezzi produttivi da parte di gruppi minoritari della società, i gruppi dei reali decisori in essa operanti.
13. Lasciamo da parte, indubbiamente, la “base economica” della società, e così pure il modo e i rapporti (di produzione), salvo che in specifiche circostanze e per usi limitati. Vogliamo considerarli, alla Lenin, quali scheletro e sistemi nervoso e circolatorio del corpo umano? Bene, possiamo farlo, giacché non vi è alcun dubbio che il corpo umano, privato di questa struttura, non si reggerebbe né alimenterebbe; e tuttavia tutto questo non è sufficiente a comprendere come gli umani agiscano nella società a seconda di diverse epoche della formazione sociale. E’ come per il cervello e il pensiero. Non si è in grado di pensare qualora vengano distrutte le parti materiali in cui si svolgono processi chimici, nervosi, ecc. Tuttavia, ridurre a tali processi l’atteggiarsi della mente nel forgiare teorie e nell’immaginare (per poi costruire) apparati organizzativi, ecc. al fine di tradurre il tutto in azione pratica, sarebbe grave errore. L’analisi delle parti materiali è senza dubbio importante, soprattutto ove si vogliano in molti casi riparare guasti che impediscono l’attività cerebrale; bisogna però poi andare oltre nel considerare la concreta prassi (teorica e pratica) della mente e del corpo.
Marx ha compiuto un primo passo fondamentale, nel campo delle teorie della società, per non concedersi le libere e sfarfallanti fantasie circa il comportamento sociale degli animali detti uomini. Con l’ottimismo tipico di certi scienziati ottocenteschi si era sperato che non si blaterasse mai più intorno all’“Uomo” generico e indifferenziato, pura creazione di incorreggibili chiacchieroni, per pensare invece gli individui raccolti in fasci di rapporti sempre mutevoli ed in continuo squilibrio produttore di tensioni e conflitti. Marx aveva tuttavia compiuto, in definitiva, soltanto un primo passo; poi non si è più proceduto oltre.
L’analisi individuale ha conosciuto senz’altro rilevanti sviluppi, ma si è troppo concentrata sul singolo esemplare, al massimo considerandolo immerso in una socialità generica, in un ambiente circostante che semplicemente serve a meglio esaltare l’indagine relativa a quella specifica personalità. Non penso affatto di sanare – con i limiti derivati dall’aver passato una vita su quei primi avanzamenti compiuti da Marx, e cristallizzati da marxisti carenti (quali siamo stati tutti noi) nella teoria come nella prassi detta rivoluzionaria – lo iato che si è venuto a creare. Oltre a tutto, è dilagata la teoria (sedicente tale) sociale di dati gruppi intellettuali che da oltre due secoli – pur con tutti i mutamenti subiti dalla società detta capitalistica – hanno imperversato scarsamente contrastati, guastando l’ambiente teorico con il loro effettivo e rozzo economicismo, cui gli oppositori hanno risposto sganciando le loro tesi da ogni riferimento alla concretezza del vivere nelle forme societarie succedutesi nei due secoli in questione. Occorreranno decenni per riaggiustare una situazione così compromessa.
Il principio del minimo mezzo è rimasto quale asse centrale di ogni riferimento all’azione umana nel capitalismo, pur essendo ormai questa definizione del tutto generica. Sono state apportate alcune modificazioni minori e si è tenuto conto di altre motivazioni pur sempre secondarie; spesso considerate come irrazionalità o razionalità limitata (per assenza di una conoscenza completa del reale) o condizionata da “appetiti e passioni” varie, ecc. Tuttavia, il principio in questione resta quale sfondo nella testa di troppi pensatori sociali. L’economica dominante – pur entro i limiti dell’ideologia, che d’altra parte è ineliminabile in ogni formulazione teorica – avrebbe tratto guadagno se, invece di partire da Robinson, lo avesse fatto da Tarzan, effettivo essere umano che si credeva scimmia, per quanto un po’ speciale.
L’ho già sostenuto più sopra, sia pure per cenni, e adesso non insisto. In ogni caso, Tarzan pone in rilievo che il motivo reale e decisivo della “superiorità” umana rispetto agli altri animali non è la sua “alta spiritualità”, imbelle prodotto mentale di filosofi rispettabili ma da non seguire in toto nelle loro elucubrazioni; e non è nemmeno il “razionale” (e un po’ gretto) economicismo dimostrato da Robinson nelle sue scelte. Si tratta invece della capacità riflessiva – di secondo, terzo….ecc. livello – attorno al campo in cui si sviluppano le nostre azioni pratiche, attorno all’uso e disposizione delle forze in questo campo, e sempre perseguendo lo scopo vitale per eccellenza: prevalere, conquistare una supremazia, che è determinante nell’assicurare la continuità della nostra vita, pur se troppo spesso a spese di altri.
Ed è proprio questa necessità di continuazione della vita, implicante l’uso del particolare pensiero riflessivo umano, a coadiuvare la formazione e trasformazione di date “strutture” dei rapporti di associazione. Queste ultime non sono reali in senso proprio; la realtà è probabilmente un continuo fluire di tensioni, tra loro intersecantisi e intrecciantisi, da noi stabilizzate e fissate in dette “strutture” per le necessità dell’azione (ivi compresa quella stessa di carattere teorico). Tuttavia, è tramite le “strutture” che viene analizzata e “ricostruita” quella fluida temporalità da noi definita storia, pensata sovente nella forma di un continuo “progresso evolutivo” a volte “dotato” (sempre da noi) di intrinseca teleologia, che è in definitiva una teologia pur quando mascherata.
Dobbiamo quindi tornare all’autentica nervatura del vivere sociale rappresentata dal conflitto per la supremazia; conflitto che nell’individuo umano, vivente in forme particolari (“storicamente determinate”) di rapporti di società (formazioni sociali), diventa utilizzazione di successioni di mosse coordinate, le strategie, elementi costitutivi della politica in senso specifico; poiché quella che definiamo comunemente “politica” non è altro che la sfera sociale (isolata in via teorica), in cui si condensano sistemi di apparati sia addetti all’esecuzione delle strategie sia costruiti per stabilizzarne i risultati, cercando di proteggere quella data forma di società (con quei particolari gruppi di decisori dominanti) dal continuo fluire di impulsi squilibranti che provocano conflitti tendenti a trasformarla.
14. Da quanto precede discendono dunque conclusioni poco rassicuranti e non ancora decantabili adeguatamente senza ulteriori riflessioni. Al momento almeno, sembriamo destinati a conoscere attribuendo al reale un carattere strutturale che non gli pertiene, se è vero che esso è flusso di tensioni squilibranti. In tale conoscenza, noi ci atteggiamo a soggetti in grado di riprodurre (e non invece semplicemente di produrre “costruendo”) la realtà nel suo senso più pregnante: quella vera, pur individuata nella sua intelaiatura portante. A tale conoscenza seguirebbe l’azione nella realtà riprodotta per modificarla: o al fine di conservare la parte fondamentale di detta intelaiatura o per trasformarla più o meno radicalmente o addirittura per abbatterla ed erigerne un’altra. La conoscenza ci servirebbe dunque per costituirci in agenti nel tempo (storico). In qualità di agenti, andiamo incontro al fallimento o al successo (quest’ultimo è però sempre temporaneo, per periodi più o meno lunghi). Solo il successo ci dà, appunto temporaneamente, la convinzione della giustezza del nostro agire in quanto soggetti di conoscenza (e dunque di teoria).
“La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”; così inizia il marxiano Manifesto del 1848. Tuttavia, la convinzione fu che la società capitalistica fosse l’ultima di tali formazioni sociali conosciute nella storia fino a quel momento. Tramite i processi pensati da Marx (e da lui creduti reali, di quella realtà riprodotta dal pensiero sia pure nella sua intelaiatura), processi che ho ormai più volte illustrati minuziosamente, si sarebbe infine affermata una struttura di rapporti sociali non più basata su conflitti antagonistici, in cui la cooperazione avrebbe prevalso sulla lotta (per la supremazia). Si sarebbe così passati, sempre nell’idea di Marx, dalla preistoria alla (vera) Storia; in effetti, si sarebbe trattato di una “fine della storia”, di uno scorrere del tempo senza più autentiche evoluzioni e radicali mutamenti di forme (dei rapporti sociali).
Il secolo XX ha messo fine a queste illusioni. I conflitti continuano, e feroci. E perché non cessano? Per qualcosa che è nel DNA di tutte le specie animali e dunque anche dell’uomo (o Uomo per gonfiarsi meglio il petto)? Personalmente, non ci credo; e non posso che usare il verbo credere. Chi pensa di riprodurre la realtà, immagina di solito, quale punto di partenza, la struttura o il sistema di strutture, che ha per sua natura un’iniziale posizione di equilibrio. In questa, dati soggetti introducono la loro azione di trasformazione (divenendo quindi agenti), che provoca una situazione di squilibrio; essa si propaga, come già detto sopra, con effetti centrifughi (diffusione degli effetti dell’azione all’intera struttura) o centripeti (concentrazione degli effetti verso il centro della struttura). La posizione finale è la riproposizione dell’equilibrio, sia pure tendenzialmente, perché nel frattempo altri agenti iniziano nuove operazioni. Non soltanto all’inizio (logicamente) sta la struttura e quindi l’equilibrio, ma i veri agenti (e quindi gli autentici soggetti dell’agire sociale) sono fondamentalmente gli innovatori, quelli che danno origine allo squilibrio; gli altri sono passivi, resistono per inerzia e abitudine, costituiscono una sorta di attrito al diffondersi degli effetti provocati dall’attività dei soggetti agenti.
La mia idea è diversa, per certi versi opposta, ma non simmetricamente opposta. Intanto scartiamo l’ipotesi del conflitto come qualcosa di innato, di connaturato al codice genetico. Non è a mio avviso una questione biologica. Le specie esistono sempre nei loro esemplari individuali in interazione reciproca, che ha diverse modalità di atteggiarsi e conformarsi, in particolare nella specie umana dotata di pensiero riflessivo, che compie diversi “passaggi” sul campo della “realtà strutturata” per meglio disporsi in esso, per meglio affrontare l’interazione in oggetto. Se ci si concentra sulla specie (e il “genere” Uomo, cui di fatto appartiene anche il Robinson in quanto considerato paradigma del comportamento di quest’ultimo) o invece sul singolo esemplare con tutte le sue specificità individuali (pur se considerato inserito in dati ambienti sociali trattati assai genericamente), si ottengono risultati non inutili in dati contesti, ma secondo me carenti proprio in tema di rappresentazione della società nelle sue diverse forme di trasformazione temporale (storica), cioè nelle diverse formazioni sociali. Bisogna rifarsi alle modalità mutevoli delle interazioni necessarie alla vita in società (insomma alle forme dei rapporti sociali).
15. Quelli che si considerano quali agenti, nella “superficie” dell’interazione reciproca, si muovono in un perpetuo flusso di tensioni, il cui eventuale equilibrio (apparentemente statico) è mera compensazione, soltanto temporanea, di incessanti impulsi squilibranti; ci si ricordi l’esempio dell’individuo ritto rigidamente sull’attenti, finché non giunge poi la stanchezza. Nel flusso delle continue tensioni (multidirezionate), gli individui in interazione non sono agenti bensì appaiono come portatori delle stesse. Queste tensioni possono essere considerate il “profondo”, ma in senso del tutto metaforico. Più che altro esse non fanno parte della “realtà” sensibile, quella che ci colpisce più immediatamente. Ripensiamo (con cautela nel trarre analogie) all’individuo sull’attenti. Constatiamo in via sensibile immediata la sua postura rigida; spingendo più a fondo la nostra sensibilità visiva, forse cogliamo alcuni microspostamenti del corpo. Tuttavia, solo in via mediata possiamo renderci consapevoli delle molteplici tensioni (spinte e controspinte) cui sono sottoposte le varie parti corporee.
In questo senso parlo di “profondo” e di “superficie”. Del resto, ripensiamo all’analogia marxiana con riferimento ai movimenti “apparenti” e “reali” della Terra e del Sole. Non è che il movimento di quest’ultimo intorno alla Terra sia effettivamente il più superficiale, mentre il contrario rappresenta il profondo. E’ soltanto questione di apparenza sensibile (e non errata in questo primo approccio al problema) e di consapevolezza più avanzata dell’effettivo movimento, da conseguirsi tramite ragionamenti e prove. Così il mercato non è una pura fantasmagoria del tutto ingannevole; tanto è vero che la sua generalizzazione implica per Marx la reale libertà ed eguaglianza degli individui in quanto possessori di merci, con la forza lavorativa – una volta sciolto il corpo del lavoratore da vincoli servili – divenuta merce, mancando però nella maggioranza della popolazione il potere di disporre (proprietà) dei mezzi produttivi, spettante invece alla minoranza “borghese”. La scienza scopre cosa vi è dietro il mercato (cosa di cui abbiamo già parlato a lungo). “Superficie” e “profondità” è allora come “davanti” e “dietro”, è come “recita sul palcoscenico” e “regia non visibile”, ecc.; l’importante è insomma capirsi.
Noi ci vediamo quali agenti della (nella) Storia. Ammettiamo che a volte i risultati storici non sono quelli voluti da alcuno degli agenti, ma attribuiamo questo fatto appunto all’agire d’essi in contrasto fra loro. Chi pensa alla possibilità di arrivare un giorno al prevalere della loro cooperazione sul conflitto, crede allora pure alla loro capacità di orientare, almeno con buona approssimazione, i percorsi dello scorrimento storico degli eventi sociali. Ebbene, nella società capitalistica, secondo l’analisi di Marx, si sarebbe messa in moto una dinamica specifica (da me ormai delucidata più volte), che avrebbe appunto condotto alla cooperazione sostanziale tra i produttori associati e infine, dopo una rivoluzione e transizione, controllori in comune dei mezzi di produzione; al massimo si sarebbero verificati conflitti minori, le ben note “contraddizioni all’interno del popolo” di cui parlò Mao. Questo l’errore marxiano, poi difeso con tonnellate di ideologia – come sempre accade per ogni teoria scientifica che non ammetta il suo decadimento e necessità di superamento – dai “costruttori del socialismo”, ancora oggi all’opera in Cina e in pochi altri rimasugli del vecchio mondo crollato; ma comunque con notevoli adattamenti che di fatto hanno dato ampio e decisivo spazio (almeno in Cina, l’unico di questi paesi in notevole sviluppo) alle tecniche e apparati del sistema dichiarato, solo ideologicamente, superato.
In realtà, perfino in quello che appare un quasi perfetto equilibrio – e mai sussiste concretamente, empiricamente, sensibilmente, una posizione del genere (non vi è mai nella storia sociale “l’uomo in rigido attenti”) – sussistono incessanti impulsi squilibranti, le cui correnti intersecantisi secondo molteplici direzioni costituiscono il flusso del reale. Gli individui in interazione nella società, e per la costituzione della società, sono immersi in questo flusso quali meri portatori. Detti impulsi, che creano micro e macrosquilibri di varia entità e ampiezza, sono vissuti dagli individui come subdola azione degli altri. Ognuno è convinto che sia l’altro a ingannarlo e a volere rompere l’equilibrio a suo favore, a favore del suo prevalere; e quindi reagisce. E reagisce anch’esso subdolamente, cercando di ingannare gli altri circa le sue reali intenzioni. Mai ci si schiera però individuo contro ogni altro individuo; si costituiscono alleanze e gruppi associati per meglio lottare.
L’associazione (e cooperazione) – nella sfera economica come in quella politica e in quella ideologica, intrecciate e intercomunicanti fra loro – serve a scopi difensivi od offensivi, nasce per meglio sussistere in un ambiente considerato poco amichevole oppure per realizzare un’idea o progetto mirante ad interessi propri, che spesso si credono non contrastanti con quelli di altri, ecc. Si ha però la sensazione che ogni mossa della nostra vita in società debba scontare il superamento di ostacoli a noi frapposti più o meno ostilmente da altri, proprio perché ogni situazione – sia che appaia “in superficie” (vissuta dai sensi) equilibrata o invece squilibrata – è in effetti un complesso di molteplici e multidirezionati impulsi; e per ognuno di noi, che si sente agente, ogni contrasto dipende dalla volontà di altri agenti. Nessuno si pensa portato al conflitto dal flusso del reale in cui siamo immersi.
In ogni associazione o gruppo (formale o informale) si enuclea un vertice dirigente e, se il gruppo deve avere efficacia nella sua operatività di agente, si crea anche una più o meno flessibile e strutturata organizzazione con una sua gerarchia. La massa informe e convulsa può avere effetti di moto caotico e distruttivo, mai conduce a qualcosa di stabile e duraturo; comunque, certo, pur essa ha effetti, che di solito accentuano le sensazioni dello squilibrio e della necessità di costituire gruppi organizzati per azioni mirate a finalità di interesse comune. Infine, nell’ambito di ogni concreta formazione sociale – ed ognuna nasce dalla trasformazione, con fase di transizione, di un’altra – emergono gruppi di decisori di vario livello e grado.
16. Riprendiamo un passo dalla Prefazione al I libro de Il Capitale:
“Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario [e quindi nemmeno quella del lavoratore salariato; ndr]. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura [è reso appunto portatore di ruoli e funzioni nei processi retti da tali rapporti e dalla loro riproduzione; ndr], per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi [divenire agente in detti processi sociali; ndr.]”.
Marx, in anni in cui è già avvenuta la decantazione di quella realtà detta Terzo Stato (del resto anch’esso frutto di una precedente visione semplificata della società come costituita da Clero, Nobiltà e appunto il Terzo Stato), “taglia” il reale costituito dal flusso già più volte indicato mediante un fascio d’osservazione dotato di particolare angolazione (punto di vista); fissa quindi in esso una struttura di relazioni che delimita, mediante la teoria, un campo di possibile azione pratica. La struttura assegna dati ruoli a gruppi di individui, di cui due (fra loro antagonisti) assumono la funzione decisiva. La relazione tra questi due gruppi (classi) costituisce il modo di produzione, considerato quale nervatura portante della formazione sociale corrispondente.
Nella società detta capitalistica, la teoria sociale dominante (dei gruppi di decisori già affermatisi in posizione preminente) non vede nient’altro che un insieme (somma) di individui liberi ed eguali nell’agire per i propri bisogni. Le istituzioni sociali fondamentali sono sempre stabilite mediante contratto tra questi eguali. L’eguaglianza dei possessori di merci (ed i contratti mercantili) diventano il paradigma dell’intera attività sociale in ognuna delle sfere in cui la società può essere teoricamente suddivisa. Già sappiamo che Marx individua la differente natura delle merci possedute dai contraenti nel mercato e su questa base “scopre”, dietro l’apparenza dell’eguaglianza, la nuova modalità di sfruttamento (estrazione di pluslavoro nella forma del valore e nella figura decisiva del profitto).
Si fissa così una struttura di relazioni tra i liberi ed eguali contraenti, cioè una rete o trama di rapporti tra personaggi che incarnano (e personificano) ruoli e funzioni (operai, capitalisti, proprietari terrieri, ecc.), disposti tuttavia in verticale nella piramide del potere (di decidere) esplicato nella società. La trama dei rapporti stabilisce tali personaggi quali portatori dei ruoli e funzioni in questione. I rapporti si stabiliscono pur sempre mediante contratto mercantile (compravendita delle merci) e sono disposti dunque sul piano del mercato. Tuttavia, la differente natura delle merci implica periodi di interposizione tra l’acquisto e la vendita (periodi della produzione), in cui si crea il plusvalore, che dovrà poi però essere realizzato nel mercato per essere reso effettivo quale profitto del capitalista/proprietario. La produzione implica la riproduzione del rapporto tra quest’ultimo, in arricchimento per accumulazione, e il venditore di mera forza lavoro che rimane tale alla fine del ciclo riproduttivo.
In quest’ultimo – che è ciclo di riproduzione della struttura rappresentata da quel determinato taglio della realtà effettuato da Marx secondo un dato angolo di incidenza del suo fascio d’osservazione – si ha pur sempre riproduzione di dati ruoli, i cui occupanti sono personificazione degli stessi. Non si esce dalla visione degli occupanti quei ruoli in quanto loro portatori (oggettivi), che tuttavia, in date contingenze possono elevarsi (soggettivamente) al di sopra della funzione che espletano. Dove l’al di sopra mi sembra vada meglio qualificato come scarto, allontanamento, deviazione, del soggetto dall’azione che sarebbe implicata dal suo ruolo. Ma perché egli devia, perché si trasforma in agente effettivo che non si limita più a rispettare il suo ruolo e funzione? Subentrano volontà particolari, elementi passionali, decisioni improvvise, insofferenze alla propria posizione sociale, o cos’altro?
Nei fatti, si esce improvvisamente dalla concezione di una struttura particolare, dotata di meccanismi autoriproduttivi dei suoi determinati rapporti, per tornare ad affidare ad individui particolari, dotati di specifica personalità, lo scarto, la deviazione in questione. Si può introdurre l’elemento della lotta e tensione, che di tante personificazioni di ruoli oggettivamente fissati fa individui empirici capaci di infrangere tale (deterministica) oggettività, in grado cioè di uscire dalla personificazione di quella data “maschera” sociale loro assegnata dalla riproduzione del rapporto in quanto carattere storico-specifico del capitale (che non è una cosa). L’introduzione di un simile elemento (lotta con la tensione delle passioni, la risolutezza nelle decisioni, ecc.) è usuale nella spiegazione empirica dell’azione politica, ma è meno giustificabile in una teoria della politica.
17. Gli individui attivi in società lo sono nell’ambito di un incessante flusso di squilibri, più o meno intensi, ampi, duraturi. Tali squilibri sono spesso reciprocamente compensabili per periodi di tempo (fasi storiche) di varia lunghezza, poi diventano in genere non più controllabili e in accentuazione. Abbiamo già detto che si formano pure gruppi di coalizione, di alleanza (spesso transitoria e sempre pronta a mutamenti di posizione), al fine di resistere agli attacchi o muovere offensive, ecc. I movimenti degli individui o gruppi sociali avvengono appunto perché lo squilibrio – che sposta oggettivamente, e all’inizio perfino inconsapevolmente, i rapporti di forza nell’interazione tra di essi – viene da ognuno creduto frutto dell’iniziativa e manovra di qualche altro, cui si deve rispondere adeguatamente.
Dopo più o meno lunghi periodi di transizione si assestano certi apparenti equilibri, che generalmente richiedono la presenza di centri dotati di forza predominante; sia all’interno di una data forma storica di società (ad es. capitalistica; anzi più precisamente quella del capitalismo borghese o quella dei funzionari del capitale, ecc.) sia nei rapporti tra formazioni particolari: ad es. periodo del monocentrismo inglese, più o meno perfetto o in cambiamento, multipolare, verso il policentrismo (“epoca dell’imperialismo”); oppure quello del predominio statunitense dopo il crollo “socialistico”, anch’esso oggi in fase di mutamento multipolare. I periodi, a volte molto lunghi, di apparente stabilità ed equilibrio, sono in realtà caratterizzati dal continuo incalzare degli impulsi squilibranti, dei quali spesso non ci si accorge perché invischiati in teorie e pratiche ormai superate.
In effetti, è solo nella “immersione” nel flusso di tali impulsi squilibranti (molteplici e multidirezionati) che gli individui e i gruppi (in quanto condensazioni dovute ai motivi già spiegati e di resistenza agli impulsi stessi) appaiono quali portatori. Essi (re)agiscono allo squilibrio – ricordo che lo pensano come frutto di manovre altrui – lanciando sulla realtà “fasci d’osservazione” dotati di particolari angolazioni. Si giunge così a costruire (teoricamente) “strutture” (di elementi tra loro interrelati) atte a stabilizzare un campo d’azione, e reazione alle azioni altrui, per non dover agire e reagire in un mare in tempesta che sbilancerebbe continuamente, renderebbe malfermi, confusi, incerti; insomma, rifacendosi figurativamente a tempi andati, è come buttare olio in mare per attenuare la violenza delle onde. A queste strutture – teoriche, anche se di teoria dotata di vari livelli di costruzione della “realtà”: da quelli di “primo grado di riflessione”, ancora strettamente connessi ai sensi empirici, a quelli di secondo, terzo, ecc. grado, via via più “astratti” – fanno di solito seguito pratiche di organizzazione, formale (con creazione di apparati e istituzioni vari) e informale, al fine di operare in quel determinato campo.
Nella costruzione di teorie e nelle operazioni pratiche, gli individui e gruppi si comportano da agenti. Marx – convinto di riprodurre la realtà qual era (sia pure per schema) “nel cammino del pensiero” – credeva di aver individuato le effettive posizioni oggettive occupate dagli individui e gruppi nelle strutture del reale; è ovvio dunque che ragionava – ad es. nel passo della Prefazione da me citato – in termini di portatori, occupanti in queste strutture posizioni precise e determinate. Per crederli capaci di elevarsi al di sopra delle stesse, divenendo agenti in date contingenze, bisognava dunque riferirsi alla concreta, empirica, individualità con le sue effettive passioni e abilità pratiche. In effetti, invece, è proprio già nella costruzione di teorie – più o meno immediate e “spontanee”, quasi inconsapevoli di sé, o invece complessamente articolate – e di ciò che consegue sul piano dell’agire pratico, che individui e gruppi diventano agenti; dividendosi in diversi segmenti a seconda che si attivino prevalentemente per mantenere dati assetti o invece trasformarli (agenti conservatori o trasformatori).
Nel momento della “conoscenza” – non del mondo così com’esso è (non semplicemente riprodotto nel pensiero) bensì costruito quale campo di stabilizzazione – si è già in piena azione, avendo quindi abbandonato l’abito del portatore. Se non si ha coscienza di questa situazione – se si pensa cioè d’essere ancora portatori in base alla presunta riproduzione del reale e delle sue “strutture” – si rischia poi di cristallizzare la “conoscenza” in teorie, e dunque prassi, del tutto superate. Se in un primo momento esse hanno intendimenti trasformativi (come fu del marxismo e del comunismo), poi diventano invece un ostacolo ad ogni possibile innovazione (teorica e pratica). Gli agenti già rivoluzionari diventano conservatori e reazionari; al massimo, se mantengono i precedenti intendimenti, essi si disperdono in fantasie e sogni, in utopie che sono sempre, oggettivamente, un impedimento alla trasformazione.
Si è in grado di prendere coscienza dell’essere portatori soltanto se si tiene conto delle spinte incessantemente squilibranti (quand’anche in compensazione per dati periodi di tempo) e si accetta dunque il fatto che esse produrranno sempre conflitti tra individui e gruppi. Si acquisisce allora la consapevolezza che la cooperazione “universale” (nella società nel suo complesso) è pura aspirazione ineffettuale, anzi fortemente negativa perché insegue il ben noto “meglio nemico del bene”, crea illusioni, impedisce di afferrare la transitorietà di ogni apparente equilibrio della formazione sociale in “storica evoluzione”, priva di una qualsivoglia teleologia. La “conoscenza” è già un porsi come agenti, che hanno bisogno di stabilizzare un campo per la loro azione; e quest’ultima mira a conservare o invece a trasformare il precedente assetto dei rapporti sociali.
In quanto agenti, e “costruttori” del campo d’azione, siamo dunque tendenzialmente portati a semplificare il quadro delle “strutture” sociali costruite al fine di condurre più efficacemente la lotta tra “due eserciti” (ivi comprese le “classi” in lotta). Questo modo d’agire e di pensare mira a delimitare meglio i due “blocchi” in conflitto: quello che intende mantenere il precedente assetto dei rapporti sociali (diretto da agenti conservatori, in genere ancora dominanti) e quello che si batte per modificarlo o sconvolgerlo (diretto da agenti trasformatori o rivoluzionari). In realtà, nel fluido dello squilibrio, causa effettiva del conflitto, la differenziazione di individui e gruppi è assai più variegata. Non sempre è utile la semplificazione duale. Per lunghi periodi di tempo è bene assumere la consapevolezza della molteplicità delle differenze, assai più utile alla conduzione del conflitto anche da parte di chi si pone quale agente trasformatore.
Solo in congiunture storiche cruciali, e la cui individuazione avviene non a caso tramite la cosiddetta “intuizione” degli agenti decisori intenzionati alla trasformazione, si verifica la “condensazione” in due blocchi contrapposti che si affrontano nello scontro decisivo per il mantenimento o rovesciamento sia delle teorie che delle organizzazioni pratiche (apparati, istituzioni, ecc.) di una data formazione storicamente costituita. Tale condensazione, del resto, non è mai perfetta, altrimenti non si porrebbe il problema delle “alleanze”, che non vanno considerate una semplice “fusione” di forze, scevra di interne, e anche acute, contraddizioni. Nella Rivoluzione d’Ottobre, ad esempio, i bolscevichi dovettero costruire l’alleanza tra la classe operaia (del tutto minoritaria), ritenuta il “soggetto della rivoluzione”, con gran parte dei contadini (stragrande maggioranza della popolazione russa); e tutto ciò con notevoli compromessi e gravi problemi poi sempre più evidenziatisi nel corso della “costruzione” dell’illusorio socialismo.
18. Mifermerei proprio qui; in un certo senso alla porta d’entrata di una nuova teoria della società. Proprio perché non sono affatto sicuro d’essere così libero dai vecchi condizionamenti da poter oltrepassare quest’uscio da solo. La mia teoria di appartenenza, il marxismo, ha dovuto troppo a lungo combattere contro quelle dei dominanti, oggi sempre più arrugginite e ottuse. Tuttavia, anch’esso si è appesantito, si è caricato di zavorra ideologica per colpa di pensatori attardati nella sua difesa ad oltranza (fra cui il sottoscritto, non mi tiro indietro), dopo la sconfitta storica subita da quello che è passato (con interpretazione in grandissima parte errata) per “movimento comunista”.
Certamente leggere quanto scrivono attardati liberisti, secondo i quali Marx sarebbe responsabile del “gulag” (semplice e meritoria eliminazione di coloro che hanno difeso gli oppressori dalla rivolta di chi per secoli è stato massacrato dai dominanti) è comunque disgustoso poiché dimostra il degrado delle classi dette dirigenti, che pagano alcuni saltimbanchi facendoli passare per pensatori. Marx è ben poco responsabile, nel bene e nel male, poiché il movimento di rivolta e liberazione degli oppressi ha seguito in realtà altre vie, pur talvolta dandosi la patina di comunismo (e magari di tipologia marxista). Ripeto che tale movimento è stato comunque positivo, e i suoi eventuali eccidi sono poca cosa di fronte a quelli grandiosi e di una ferocia inaudita commessi dai dominanti capitalistici anche soltanto a partire dalla Rivoluzione industriale, cioè da due secoli e mezzo fa.
L’indignazione contro questi vanesi e arroganti, che talvolta giocano pure agli intellettuali, non deve tuttavia ottundere il nostro senso critico; anche il marxismo, e per colpa nostra, si è sovraccaricato di “difese ideologiche” come sempre avviene per tutte le teorie ormai diventate conservatrici, spesso prive di presa sulla realtà; sia pure partendo dalla convinzione che questa non è semplicemente riprodotta dal pensiero, ma costruita per esigenze d’azione. Nuove vie devono essere aperte. La fuoriuscita dal marxismo ormai sclerotico è già, per quanto mi riguarda, fondamentalmente compiuta; ed in modo che mi sembra definitivo. Ritengo però ancora utile mantenere il fermo riferimento alla problematica marxiana, nel mentre si va cercando la porta d’entrata in altra teoria più consona ai giorni nostri.
Atteniamoci intanto ad alcuni punti fermi. In un certo senso esistono due livelli di quella che chiamiamo “realtà”. E’ possibile, ma è solo questione di linguaggio, parlare di “profondo” e “superficiale”, di “dietro” e “davanti”, ecc. Secondo l’opinione qui espressa, di un livello (il “profondo”, ecc.) si può, e si deve, avere coscienza (ma solo coscienza): ed è quella dello squilibrio incessante – in cui siamo come immersi in un flusso continuo di impulsi contraddittorî – che crea alterazioni nei rapporti di forza tra individui e gruppi con nascita di reciproci conflitti. Vi sono però periodi di varia lunghezza in cui le spinte e controspinte sembrano abbastanza ben compensarsi, per cui si crea l’apparenza dell’equilibrio. Ritengo negativo che sia questa la situazione presa troppo spesso come punto di partenza, pur magari soltanto teorico.
A mio avviso, è sempre lo squilibrio il dominatore, pur quando non lo si avverta “sensitivamente”. E’ necessario averne coscienza; e nel contempo essere consapevoli che di esso non si dà quella che noi chiamiamo normalmente conoscenza. Se qualcuno pensa di potersi veramente immedesimare nel flusso squilibrante tramite pratiche di pensiero o altre, che a mio avviso hanno sempre un che di misticheggiante, non ho alcuna intenzione di prenderlo in giro. Sarebbe inutile arroganza e perdita di tempo. Dico solo che – tramite quelle ritenute in genere argomentazioni razionali, che prendono in ogni caso le mosse da quanto noi avvertiamo di sensibile nel mondo a noi circostante; in senso lato, sia chiaro, anche filtrando e interpretando nei limiti del possibile le informazioni ricevute di una realtà lontana nel tempo e nello spazio – non si è a mio avviso in grado di analizzare la realtà del flusso.
Nella conoscenza – e non mi riferisco solo a quella detta scientifica – ci si pone di fatto sempre come individui attivi, appunto come agenti. Si tratti di conoscenza del primo e più immediato grado della riflessione (quella empirica), oppure di gradi via via più elevati, cambia il livello di finezza della trama su cui poi si costruisce l’ordito delle nostre pratiche d’azione. In ogni caso, noi sempre stabilizziamo – e dunque fermiamo, fissiamo, in “strutture” di elementi interrelati – i campi in cui poter svolgere tali pratiche, che si condensano in apparati, organismi, istituzioni vari. Piaccia o non piaccia, nella conoscenza viene prima di tutto la teoria. A volte non ci si rende conto di tale fatto perché, al livello della prima riflessione immediata (“sensitiva”), l’uomo d’azione è convinto di stare svolgendo solo attività pratica; invece, è semplicemente fermo al primo livello della riflessione teorica, che in molti casi è sufficiente, anzi può persino essere indispensabile per non perdere tempo e reagire immediatamente a contingenze di breve momento, in cui non si deve indugiare.
Tuttavia, la teoria prosegue sempre con vari livelli di riflessione; in quest’ambito ho parlato di “superficie” e “profondità”, di “davanti” e “dietro”, ecc. In senso proprio, esiste soltanto il livello del flusso squilibrante, di cui si deve prendere coscienza per non cristallizzarsi in teorie scambiate per l’ormai piena o sufficientemente approssimata conoscenza (riproduzione) del reale. Una volta saldamente in possesso di questa coscienza, si procederà sulla via della “costruzione” di una “realtà” stabilizzata che serva da campo delle nostre pratiche. Se si è seguito quanto detto fin qui, dovrebbe essere chiaro che la cooperazione tra individui e gruppi (cooperazione caratterizzata da diversi gradi di stabilità e “affettività”, quindi pure dall’amicizia) è subordinata al prioritario elemento del conflitto, di cui le strategie sono strumento operativo. E’ il conflitto l’effetto principale causato dall’insieme delle spinte squilibranti e multi-direzionate; e casuali, comunque non teleologiche.
E’ nel conflitto, considerato nel suo aspetto più generale e non ancora “storicamente determinato”, che dobbiamo sentirci portatori (anche nel senso di portati, di trascinati). Quando “reagiamo” tramite il pensiero e sviluppiamo le nostre azioni teoriche (e insisto nel ricordare che non mi limito alla scienza, ambito del resto ampliato o ristretto a seconda delle definizioni date d’essa), siamo comunque agenti; non possiamo quindi esimerci dall’assumere precise responsabilità in merito alle azioni compiute. Nel conflitto assumiamo ruolo e funzione di agenti conservatori o trasformatori (con vari gradi in ognuna delle due attività del conservare e del trasformare). Tale assunzione avviene dunque sempre nell’ambito di conflitti reciproci, in cui si stabiliscono pure determinate alleanze. Se il conflitto è modesto, perché implica soltanto alcune modifiche alle teorie, apparati, istituzioni, ecc. stabilizzatisi in epoche precedenti, possiamo concederci il lusso del dibattito di idee, della sedicente “democratica” espressione del proprio pensiero, della propria volontà, delle proprie decisioni, ecc. Quando la tensione squilibrante diventa insostenibile, quando occorre una nuova precipitazione trasformativa, gli alleati diventano amici, gli avversari nemici acerrimi, da distruggere. E se qualche amico traballante passa di campo, diventa traditore, spazzatura di cui ripulire l’ambiente.
Quindi, bisogna mettere innanzitutto al bando la convinzione – frutto di illusioni che poi conducono a tragedie immani e ad azioni di ferocia inaudita (poiché la delusione è più cocente dopo l’illusione) – che esisteranno in un futuro credibile e prevedibile società di prevalente cooperazione tra individui e gruppi, con conflitti secondari; è esattamente del contrario che si deve prendere coscienza intorno alla realtà (circa la conoscenza, mi auguro di non dovermi ripetere). Senza tuttavia rifarsi a concezioni biologistiche, a istinti primordiali, al DNA o che so io. E’ sufficiente quanto accennato in merito allo squilibrio come causa delle tensioni conflittuali. E’ quindi ovvio che la costruzione di una nuova teoria sociale deve partire dal conflitto, dalle teorie come costruzione di campi di stabilità per combatterlo, dalle strategie quale mezzo principale di tale combattimento. Nelle strategie siamo agenti e non meri portatori. Le strategie sono prodotti razionali, legati alla conoscenza nel senso già trattato, ma non sono affatto rette dal principio del minimo mezzo; quest’ultimo è elemento subordinato ed utilizzato solo in quanto funzionale alle strategie, cioè al conflitto di cui esse sono mezzo.
Da questi punti si riparta per ricostruire una diversa conoscenza, consapevole dei suoi limiti e dello squilibrio che sempre logora ogni azione umana, nella teoria come nella prassi. Ogni cristallizzazione di teoria e pratica (politica) è ipso facto reazionaria, va combattuta come “fronte del nemico”. Quindi anche il marxismo, e i suoi fautori odierni, possono in dati casi diventare un nemico. Nulla regge di fronte all’usura continua provocata dallo scorrere del tempo, che non è altro se non lo scorrere del flusso squilibrante. Partiamo quindi da un nuovo lavoro di costruzione teorica, che dovrebbe essere un lavoro di “squadra” con tutto ciò che comporta. Dopo un così lungo periodo di stasi, solo un megalomane può pensare di intraprendere un lavoro simile in solitudine.
Nota
Nota.
Nell’ultimo capoverso del par. 16 ho dovuto contrarre un po’ il discorso e forse non è risultato chiaro ciò che volevo dire. Uso il termine “personificazione” (differenziandolo rispetto alla vera e propria personalità) per la denominazione che ogni individuo umano riceve nella società: cioè il suo nome e cognome, ecc. Di ogni individuo, concretamente, non distinguiamo temporalmente questa denominazione dalla sua personalità effettiva, dal come lo vediamo muoversi e agire nella vita sociale. Tuttavia, la priorità temporale spetta, in un certo senso, alla denominazione (personificazione) che è una specie di cartellino nominativo appiccicato al dato ruolo che a quell’individuo è stato assegnato dalla pensata (supposta) “struttura” interrelazionale attribuita a quella società (o, più facilmente, ad una porzione di società) studiata, analizzata, pur sempre allo scopo di poter agire. A questo nostro agire siamo spinti dalla tensione conflittuale, che in un certo senso ci “spinge da dietro”. Spinti dalla lotta, usciamo allora dal semplice nostro nome, che in definitiva serviva a segnalare il nostro ruolo (di meri portatori), e mettiamo in mostra ciò che ci si presenta con maggiore vividezza e immediatezza nel mondo empirico della nostra vita di tutti i giorni, cioè la nostra personalità che ci rende agenti secondo una molteplicità di modalità concrete, dietro le quali è molto difficile individuare il ruolo “assegnatoci” dalla oggettività della “struttura”, che d’altronde ci fa portatori e dunque mere personificazioni. Tuttavia, questa struttura è posta da (alcuni di) noi; la sua oggettività nell’assegnare i ruoli è pensata, supposta, da (alcuni di) noi in qualità di agenti, spinti dalla tensione conflittuale e necessitati a quella stabilizzazione del campo della lotta di cui ho spesso parlato. Ci aggiriamo dunque in un “circolo vizioso”? Certamente, non ne possiamo mai uscire se non attraverso la lotta stessa e in base a successi e fallimenti della stessa. Tuttavia, quando uno legge i vari trattati di strategia, essi parlano spesso delle motivazioni individuali, e autenticamente personali (personalità, dunque, e non personificazione), di coloro che agiscono. Ed è logico sia così, poiché gli autori stanno appunto discutendo degli strateghi, cioè degli individui in quanto agenti. Una teoria della politica mi sembra monca se non assegna un preciso posto pure all’analisi della società, della formazione sociale (quella generale di una data epoca storica e quelle particolari in date fasi o congiunture di quell’epoca). Ecco il senso dell’ultima frase del par. 16: “L’introduzione di un simile elemento (lotta con la tensione delle passioni, la risolutezza nelle decisioni, ecc.) è usuale nella spiegazione empirica dell’azione politica, ma è meno giustificabile in una teoria della politica”. Voi capite comunque la complessità del problema e la difficoltà di renderla per iscritto.