MORALISMO E POLITICA di M. Tozzato

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In due articoli sul Corriere, del 07.07.2008 e del 13.07.2008, E. Galli Della Loggia ha toccato alcuni dei problemi che recentemente hanno interessato il nostro blog oltre a fornire una interpretazione “autorevole” del significato generale della manifestazione di Piazza Navona e del contesto che la sottende. Nel primo dei due articoli l’autore afferma:

 

<<l’iniziativa girotondina, pur avendo alle spalle ben poche forze [partitiche N.d.R], evoca […]tre grandi miti che dominano da sempre l’immaginario e la pratica della sinistra italiana.

a) il primo mito  è quello delle “due Italie”[…]. Dei “buoni italiani” in lotta perenne contro gli “italiani alle vongole”, gli italiani cattivi i quali invece hanno, loro soltanto, il monopolio di tutti i vizi del Paese: calpestano le leggi, evadono le tasse, parcheggiano in seconda fila e non amano né il Csm né il protocollo di Kyoto. Sarebbero dotati addirittura di un altro Dna, come ha suggerito appena ieri Nanni Moretti […]

b) il secondo mito […]è quello dell’”unità”. Unità che ha la sua principale raffigurazione nella fatidica “manifestazione unitaria”[…]anche se, piuttosto paradossalmente, essa è indetta da una sparutissima minoranza. Ma tant’è: come potrebbe giustificarsi infatti la divisione dei buoni di fronte al male? Solo in un modo, semmai, e cioè solo con il più o meno celato passaggio di una parte dei buoni stessi nel campo nemico. Ed è precisamente questo il ricatto che fa capolino di continuo dietro il mito dell’Unità: se non stai con noi, già solo perciò vuol dire che almeno per una parte stai potenzialmente con “gli altri”. Il mito dell’Unità diviene così la premessa necessaria del mito del Tradimento. Entrambi, insieme al mito della “Nazione dei buoni”, tendono sempre, comunque, a porre la politica fuori dell’ambito suo proprio: a farne un’appendice della morale. […]

c) il terzo mito che domina immaginario e pratica della sinistra è il mito del moralismo. Il moralismo è il modo classico in cui la sinistra declina la tendenza all’antipolitica che da sempre, e oggi più che mai, alligna anche nelle sue file. Laddove la destra è abituata a declinare l’antipolitica nelle forme del disincanto qualunquistico spinto fino al cinismo, la sinistra, invece, l’incanala in quelle dell’eticismo condotto al limite dell’arroganza di tipo razzista. […] Ecco dunque qual è la vera forza dei girotondini [: essa][ A.d.R]consiste nel rendere superflua la fatica di pensare, di misurare, di distinguere.[…]E’ la minaccia che immediatamente pesa su chi osa, a sinistra, dissentire da essi; la minaccia cioè di vedersi accusati di mettere in dubbio tre grandi capisaldi dell’ideologia diffusa della sinistra stessa. La convinzione di avere il copyright del bene, di dovere essere tutti uniti contro il male e, infine, che si è puri solo se si è duri>>.

 

Ovviamente, appare chiaro, che  Galli Della Loggia non utilizza la parola “sinistra” nel senso che noi del blog attribuiamo ad essa. Per lui “sinistra” è, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, tutto quell’insieme di partiti, movimenti, organizzazioni di massa, questioni sociali incorporate in politiche ed istituzioni nazionali ed internazionali che hanno caratterizzato la storia del XIX° e XX° secolo sino ad  arrivare all’epoca odierna. Per G. La Grassa invece la “sinistra” (a differenza del comunismo), come egli ha ripetuto più volte, è sempre stata una componente politica delle classi dominanti, prima nella fase  borghese dello sviluppo storico della società capitalistica poi nella fase successiva, post-borghese e post-proletaria.

Essa ha assunto, all’interno della formazione sociale dei funzionari del capitale un ruolo sempre più decisivo – come rappresentante degli interessi dei grandi gruppi dominanti – per la sua funzione tesa a favorire una sempre maggior subordinazione e un più efficace  controllo sui dominati (principalmente il lavoro dipendente e il piccolo lavoro autonomo) a livello economico, politico ma soprattutto culturale (egemonia).

E’ vero, comunque, che anche per i piccoli gruppi che fanno riferimento all’anticapitalismo e al comunismo il “mito” dell’”unità”, diventa troppo spesso la maniera per osteggiare le più radicali posizioni critiche e innovative rispetto alla realtà sociale odierna e alla sua fase. Accettare una discussione, franca e aperta, con interlocutori politici e culturali che  partono  da tradizioni definibili abitualmente di “destra” viene identificato come un “più o meno celato passaggio di una parte dei buoni stessi nel campo del nemico”.

Siccome il comunismo storico è ormai da diverso tempo tragicamente defunto – al pari di quella formazione teorico-ideologica definibile come marxismo storico otto-novecentesco (1875-1996) – le accuse, non dico di tradimento, ma comunque di avere abbandonato l’alta missione morale di lottare, ognuno con le proprie “armi”, per l’emancipazione degli “oppressi” e degli “ultimi” dovrebbero lasciare il posto a considerazioni più razionali, costruttive e soprattutto ad un pragmatismo strategico di fase che non intende svilire i principi e valori filosofici che dovranno far parte di una nuova concezione del mondo, di cui si sta tentando di iniziare l’elaborazione, ma che si rende necessario se si vuole poter parlare di una prospettiva politica da discutere, qui e ora, al di là, e comunque oltre il legittimo e benemerito appoggio alle lotte antimperialiste che si svolgono nelle varie aree del pianeta.  Per quanto riguarda quello che l’editorialista chiama il “moralismo” della “sinistra” mi pare utile tentare una piccola riflessione di carattere teorico.

Se Hans Kelsen, seguendo il formalismo morale kantiano e applicandolo al diritto, faceva derivare da alcuni fondamentali principi di giustizia lo sviluppo dell’ordinamento giuridico positivo bisogna saper distinguere il contenuto di questi principi, sostanzialmente condivisibile, dall’elemento ideologico funzionale che l’inserimento di elementi della sfera della moralità (intesa nel senso hegeliano) produce necessariamente.

La mistificazione di una “democrazia sulla carta” che, palesemente si rivela un sistema oligarchico dominato da gruppi strategici economici, politici e culturali, gioca molto su questa ambiguità che ci “stringe” tra il bisogno di riconoscere principi, inapplicati, che riteniamo giusti e la coscienza dell’uso che ne viene fatto in funzione della supremazia e della potenza dei più forti.

Carl Schmitt – che pure può rivendicare la sua deduzione delle forme del diritto da considerazioni di tipo storico-genetiche – al contrario, imposta i suoi argomenti evidenziando l’estrema l’unità organica e organicistica del corpo politico e l’esistenza soltanto “mistica” dell’individuo all’interno del soggetto Nazione. Egli si contrappone in maniera così radicale al liberalismo da indurci per forza – nel momento stesso in cui comprendiamo la possibilità di trarre moltissimi spunti interessanti dal suo pensiero – a rifiutare totalmente le sue concezioni di fondo.

In realtà è ancora una volta Hegel che definendo la sfera dell’eticità come quella che supera, conservandone però elementi di contenuto, le due figure (1) in cui predomina l’intelletto astratto e in particolare quella della “moralità”, getta un ponte tra morale e politica mantenendo allo stesso tempo la loro “reale opposizione” che si manifesta, e si deve manifestare, sia sul piano concettuale che su quello pratico.

 

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Nel suo secondo articolo Galli Della Loggia continua, in buona parte, le considerazioni già avanzate nel primo intervento. Egli scrive:

 

<<E’ un demone antico quello che martedì scorso è rispuntato sul palco romano di Piazza Navona. […]E’ il demone, appunto, del moralismo divisivo: cioè dell’idea che l’Italia non è un solo Paese, con propensioni, aspetti, caratteri buoni e cattivi, intrecciati inestricabilmente in tutte le sue parti e in certa misura in ognuno di noi. No, l’Italia sarebbe invece un Paese con due anime, due morali, addirittura due popoli di segno opposto.>>

 

Successivamente l’autore prova a rifarsi alla storia italiana con alcune brevi considerazioni:

 

<<E’ una storia antica, dicevo, questa del moralismo. Una storia che comincia subito dopo l’Unità, quando lo sdegno per le miserie del Paese e il venir meno delle grandi speranze risorgimentali si tramutano nella messa sotto accusa delle sue classi politiche, del “Paese legale”; che prosegue poi con l’antigiolittismo di tanta parte della cultura nazionale la quale, alla denuncia delle malefatte del “ministro della malavita”, associa ora la novità importante della denuncia dell’inadeguatezza morale dell’opposizione socialista [la “sinistra” di allora. N.d.R.], colpevole di essere collusa e di tenergli bordone. Una storia, infine, che fino ad oggi sembrava culminare e compendiarsi nella fiammeggiante predicazione di Gobetti e nel suo culto per le “minoranze eroiche”chiamate a lottare contro tutto e contro tutti. Contro Giolitti, contro Turati, contro Mussolini: tutti colpevoli egualmente, anche se a vario titolo si capisce, di promuovere la “diseducazione”morale e politica del popolo italiano.>>

 

Il “vero” Galli Della Loggia emerge in questo secondo articolo in maniera esplicita; egli scrive quello che gli permettono e gli chiedono i suoi “padroni” altrimenti non sarebbe uno degli editorialisti più prestigiosi e conosciuti. Con la governabilità come feticcio egli decide che l’incapacità politica e la corruzione morale non contano niente: se Giolitti e Turati hanno contribuito all’ascesa del fascismo e sono stati sconfitti dimostrando la loro “miseria” politica questo non ha importanza: bisogna elogiarli comunque. E così bisogna elogiare e servire i “servi” dei dominanti attuali, ovvero i Turati e i Giolitti odierni (con alle spalle la GFeID) e semmai dovesse arrivare anche il Mussolini di turno. Quest’ultimo, però, non è alle porte nonostante i timori di qualche esagitato con “il cervello all’ammasso”.

Ho trovato particolarmente fastidioso il riferimento di Galli Della Loggia – riferimento degno solo di un piccolo intellettuale saccente – a Piero Gobetti, criticato per il fatto di aver creduto che fosse necessario lottare per salvare l’Italia dal fascismo e dallo “sfascio” e per questo ammazzato, ovviamente, dagli stessi fascisti. Difatti anche noi pensiamo, e continueremo a pensare, che anche se siamo in minoranza possiamo essere in grado di comprendere cosa è meglio fare per il bene del sistema-paese e in particolare per le masse dei lavoratori (dipendenti e autonomi) che ormai non hanno più nulla a che fare con la “sinistra” se non nel pubblico impiego (ma anche in questo ambito qualcosa sta decisamente cambiando). Siamo anche tra quelli, insieme a tanti altri ma ancora una volta in minoranza, i quali non vogliono una governabilità ad ogni costo se questo vuol dire che al “timone” della “nave” ci sarà qualcuno che “non sa nemmeno allacciarsi le scarpe”. Mi viene spontaneo a questo punto riportare alcune parole di Antonio Gramsci, a proposito di Piero Gobetti, tratte da Alcuni temi della quistione meridionale (1926):

 

<<L’”Ordine Nuovo” e i comunisti torinesi […], come è già stato detto, hanno posto il proletariato urbano come protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale. Avendo servito da intermediari tra il proletariato e determinati strati di intellettuali di sinistra, sono riusciti a modificare, se non completamente, certo notevolmente l’indirizzo mentale di essi. E’ questo l’elemento principale della figura di Piero Gobetti, se ben si riflette. Il quale non era un comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva più a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato da noi posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le formule dei libri. La sua caratteristica più rilevante era la lealtà intellettuale e l’assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore: perciò non poteva non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi e ingiusti. Quale conseguenza ebbero in Gobetti questi contatti con il mondo proletario? Essi furono l’origine e l’impulso per una concezione che non vogliamo discutere e approfondire, una concezione che in gran parte si riallaccia al sindacalismo e al modo di pensare dei sindacalisti intellettuali: i principi del liberalismo vengono in essa proiettati dall’ordine dei fenomeni individuali a quello dei fenomeni di massa. Le qualità di eccellenza e di prestigio nella vita degli individui vengono trasportate nelle classi, concepite quasi come individualità collettive.>>

 

In questi riferimenti gramsciani alle idee di Gobetti sembra quasi trovarsi un aggancio al ruolo dei corpi sociali intermedi nella concezione hegeliana dello Stato e della “società civile” (sarebbe, però, più corretto, come ricordato da C. Preve, tradurre questa espressione con “società borghese” sia negli scritti di Marx che in quelli di Hegel).

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Provo a riportare ancora una parte dell’articolo di Galli Della Loggia che può risultare interessante in riferimento alle ultime discussioni di La Grassa e Petrosillo portate avanti sul nostro blog e sito.

 

<<Le cose sono iniziate a mutare del tutto con Berlinguer. E’ allora infatti che il discredito progressivo della tradizione comunista e la crisi dell’URSS lasciano il PCI privo sempre  più della sua identità storica. Ed è allora che il vuoto ideologico, che nel frattempo diviene progressivamente vuoto politico, comincia inesorabilmente a essere sempre più riempito dall’irrigidimento moralistico. Il quale tende a sua volta a diventare urlo delegittimatore, creazione del nemico assoluto, visto addirittura come frutto di una “mutazione genetica”. Con sempre meno operai e sempre più esponenti del “ceto medio riflessivo” nelle proprie file, suggestionato da spregiudicati gruppi editoriali che ambiscono quasi a dettargli la linea, pressati da giudici di tipo nuovo che considerano se stessi e la giustizia come investiti di una missione etica, e infine condizionato da una stampa straniera abituata a semplificare drasticamente una realtà italiana che nella sostanza non conosce, il PCI non trova di meglio che fare della “questione morale” la sua nuova carta d’identità.>>.

 

A questa lettura, tutta di superficie, ma che risulta sostanzialmente predominante in questa congiuntura ha già dato numerose risposte G. La Grassa. Mi limiterò, in questa circostanza, a riportare solamente un breve passaggio di un intervento di GLG apparso recentemente su questo blog.

 

<< Sembra che nessuno abbia notato una contraddizione. L’ondata “moralizzatrice” (immorale) dei primi anni novanta, condotta da una magistratura come punta di diamante di un nuovo blocco di potere che ricevette ampi aiuti d’oltreoceano, condusse al vertice della politica (cioè un subvertice al servizio della formatasi GFeID o piccolo establishment raggruppato in buona parte nella Rcs) la maggioranza dei piciisti, quelli ormai degenerati in sinistra (non socialdemocratica in senso proprio) di bassissimo livello etico e di scarsissime capacità politico-governative; rinnegati pronti ai voleri di chi li aveva portati al posto di Dc-Psi, salvandoli dal disastro generale del piciismo dopo il “crollo del muro”. Un personale talmente scadente che il sottoscritto, assieme a Preve, non ebbe difficoltà ad individuarlo come il protagonista di una netta degenerazione del nostro tessuto politico (ed economico), di cui entrambi scrivemmo alla fine del 1994 ne Il teatro dell’assurdo.>>

 

(1) Nella filosofia del diritto di Hegel il primo momento dello sviluppo dello “spirito oggettivo” è definito come sfera del diritto astratto.

 

Mauro Tozzato                                    14.07.2008