NAVIGAZIONE A VISTA, L’ULTIMO SAGGIO DI G. LA GRASSA
Uscirà per Mimesis, i primi mesi del nuovo anno, il saggio di G. La Grassa “Navigazione a vista”. Successivamente verrà organizzato un seminario per parlare del libro.
Qui vi presentiamo una breve nota di commento dell’autore, l’introduzione e l’ultimo capitolo del libro.
NAVIGAZIONE A VISTA
(un porto in disuso e nuovi moli)
di Gianfranco La Grassa
INTRODUZIONE di G. Petrosillo
PREMESSA
PARTE PRIMA
Il capitale non è cosa ma rapporto sociale
Cap. I – Posizione del problema
Cap. II – Ricognizione del porto di partenza
Citazioni (commentate) di Marx
PARTE SECONDA
La teoria della società è scienza
Cap I – Lo spirito scientifico di Marx: rivisitazione
Cap. II – Coscienza e <<realtà>>
PARTE TERZA
I nuovi moli: crisi e conflitti
Cap. I – Sulle crisi: la prospettiva tradizionale (economicistica)
Cap. II – Sulle crisi: un ripensamento complessivo
Cap. III – Sulle crisi: la dominanza della politica
Cap. IV – Sui conflitti: tra gruppi dominanti
Cap. V – Sui conflitti: tra dominanti e dominati (?)
Mimesis edizioni
NAVIGAZIONE A VISTA:
Quando si pensa alla possibilità di un mutamento di un dato “ordine sociale”, è necessario afferrare le coordinate essenziale dell’azione tesa a tal fine. A mio avviso, come già detto in altra occasione, esse sono passione e ragione. La prima deve progressivamente far nascere in una parte crescente della popolazione il malcontento, il disagio e infine la rabbia per la permanenza di condizioni ritenute ormai limitative, insoddisfacenti, ingiuste, impedienti la nascita di nuove idee come pure di una nuova organizzazione sociale confacente alla conduzione della vita degli individui secondo modalità ormai ritenute irrinunciabili dalla maggior parte di essi o anche, ancor più spesso, da cospicue minoranze che tuttavia incanalano le più alte energie ai fini del cambiamento.
Il desiderio e la volontà di tale cambiamento troveranno sempre opposizioni in altre parti della popolazione, talvolta perfino maggioritarie. Non si pensi sempre, semplicisticamente, che gli ostacoli alla trasformazione provengano dalla difesa degli interessi di sedicenti gruppi dominanti. Questi sono assai minoritari; la loro forza risiede spesso nell’abitudine dei più, nel “quieto vivere” (non c’è alcuna trasformazione senza più o meno ampie distruzioni del preesistente). Non invece semplicemente nell’azione coercitiva dei sedicenti dominanti (degli apparati eretti a difesa di quell’ordine), nella paura di incorrere in una grave sorte (morte, prigione, ecc.) se ci si “ribella” ad essi. Ancora una volta un pensiero semplicistico: si può essere scontenti ogni oltre limite dell’immaginabile eppure poco propensi ad affrontare cambiamenti, in specie se il quadro di questi non è per nulla chiaro.
Ecco allora che interviene, quando lo può, la ragione che deve analizzare con lucidità (e freddezza) le condizioni di possibilità del ribaltamento del vecchio ordine, i percorsi verso cui questo deve essere indirizzato e le mosse successive da compiere (e i tempi da rispettare) per ottenere risultati positivi. La ragione dovrà spesso pensare metodi d’azione che possono chiedere alla passione di non straripare, di non provocare “esondazioni”. Tra questi metodi, difficile non vi sia a volte l’uso di metodi non encomiabili come menzogna e inganno, raggiro e ricatto, minacce di azioni infami. E, arrivati al dunque, la violenza, l’uso di una forza per null’affatto selettiva e che va spesso ben oltre quanto necessario al cambiamento, con l’intervento nell’azione di opportunisti, di voltagabbana, di individui o gruppi intenzionati a soddisfare la sete di vendetta o ad approfittare dello sconvolgimento per conseguire propri interessi nient’affatto ideali, anzi miserabili al massimo. Tuttavia, la ragione dei vertici postisi sulla strada del cambiamento – una volta appuratane le possibilità concrete, che non significano successo sicuro ma ottime probabilità di realizzarlo – hanno l’obbligo di non abbandonare la passione, pena l’indebolimento delle suddette possibilità, venendo a mancare o a disorientarsi l’appoggio delle maggioranze o di minoranze cospicue ed estremamente decise, “energetiche”.
Deve essere chiaro un altro punto. Non è detto che le forze del mutamento perseguano orientamenti che, mutando l’ordine precedente, instaurino sempre un nuovo ordine più compatto del precedente, maggiormente apprezzato dalle maggioranze, soprattutto instauratore di un più forte legame sociale; con l’ascesa – inutile farsi sempre illusioni “populistiche” – di nuovi gruppi dominanti, i quali tuttavia, per la politica perseguita e la cultura promossa, vengano ritenuti più appropriati alla nuova fase storica dalle maggioranze e aprano quindi un’epoca di relativa nuova ascesa, non solo in termini di benessere materiale. Le nuove forze possono invece instillare un veleno che conduce al cambiamento con disgregazione della struttura sociale, con imbarbarimento dei rapporti, con progressivo degrado culturale. Quanto, ad es., accaduto nel cosiddetto “occidente”, dal ’68 in poi è paradigmatico. Stiamo giungendo al massimo dissolvimento di una civiltà plurisecolare.
Nessuna pregiudiziale preferenza, dunque, per il nuovo in quanto nuovo, per il cambiamento purchessia. Tuttavia, va detto che, perfino in casi come questi, non si ottengono risultati apprezzabili se ci si limita soltanto a difendere la “tradizione”. Peggio ancora se si vogliono recuperare vestigia di passati indubbiamente gloriosi, senz’altro meritevoli di nostalgia, ma quasi soltanto presso le più vecchie generazioni. E’ necessario valutare attentamente il passato in base all’efficacia e capacità innovativa delle concezioni in esso vigenti e alla loro adeguatezza al mutamento delle strutture di rapporti sociali esistenti allora; o, al contrario, individuando gli errori di prospettiva commessi e che hanno condotto infine determinati tentativi di trasformazione a risultati del tutto diversi da quelli desiderati e creduti in fase di realizzazione.
2. Le considerazioni generali svolte fin qui aprono la strada a quelle, piuttosto sconsolanti, che nascono dall’analisi e valutazione di quanto sta accadendo nella presente fase storica. Ci si è trascinati dietro per troppo tempo sistemi ideologici ormai obsoleti. Cianciare di superamento delle ideologie è esercizio di deboli pensatori o di falsificatori consapevoli. Nessuno di noi pensa la “realtà” se non attraverso determinati punti di vista; che sorgono spontaneamente dalla vita quotidiana o sono frutto di successive riflessioni mediante le quali ci si distacca dall’oggetto percepito (in prima istanza) e, passando attraverso successive costruzioni (ipotetiche) della sua presunta struttura, si arriva infine a formulare previsioni circa la sua dinamica (che è in realtà una cinematica).
Ogni costruzione viene effettuata partendo da determinati punti di vista dell’osservatore. In un primo tempo, se la costruzione (ipotetica, insisto) sembra funzionare e dunque attribuire efficacia all’intervento di chi si serve d’essa per agire nel mondo, ci si convince di avere di fatto individuato correttamente la realtà di quest’ultimo. In ogni caso, anche chi resta maggiormente avvertito e dubbioso sul significato interpretativo di date teorie sembra accontentarsi dei risultati raggiunti (tramite il pensiero astraente) poiché appunto i risultati appaiono complessivamente soddisfacenti; e possono quindi essere definiti realistici. Le teorie, però, non smettono per questo di essere orientate da quei punti di vista, da sistemi di idee, da convincimenti che credo possano allora essere definiti ideologici (in un senso del termine che credo tutto sommato positivo). Arriva però sempre il momento dell’insoddisfazione, dell’inefficacia crescente delle teorie, comunque dei dubbi sempre più forti circa il loro realismo. A quel punto chi insiste nell’utilizzare quelle determinate costruzioni del “reale”, chi continua a credere di averlo in realtà colto nella sua effettiva strutturazione, trapassa gradualmente nel campo dell’ideologia nel senso spregiativo del termine, quello solitamente in uso quando si afferma pomposamente che si deve eliminare ogni ideologia.
Siamo precisamente entrati in una di queste fasi: è necessario distruggere in noi non la passata adesione a passioni e ideologie che hanno supportato il nostro agire e conseguito a volte risultati non disprezzabili, pur se quasi sempre (oserei togliere il quasi) differenti da quelli pensati e che hanno mosso le nostre azioni (“appassionate”). Nemmeno ha senso non provare alcuna nostalgia per quel passato, riempirsi di rancore e rabbia o come minimo di amara delusione. Bisogna distruggere il coccolare quella nostalgia, l’adagiarsi in essa e piagnucolare per gli ideali irrealizzati. Con la ragione non possiamo conoscere quella che chiamiamo realtà. Questa è continuo sommovimento, incessante trasformazione “caotica” dell’esistente. In un simile bailamme, è difficile dare un senso qualsiasi al nostro agire, porsi un obiettivo minimamente credibile e tale da poter essere seguiti da schiere sufficienti ad ottenere il suo raggiungimento. Non è un caso che, quando desideriamo far andare “nel pallone” un avversario, renderlo incerto e bloccare le sue azioni, applichiamo spesso la “strategia del caos”.
Il caos deve però sussistere per chi è contro di noi. A questi deve essere indirizzato. Nella nostra azione, invece, dobbiamo seguire un diverso procedimento: stabilizzare un campo d’azione, trovare nuove coordinate di costruzione dello stesso per muoverci su un terreno solido, che supporti appunto i nostri movimenti e le direzioni ad essi impresse. Coscienti, tuttavia, che si tratta di una solidità soltanto temporanea (per periodi di diversa lunghezza a seconda delle sfere del nostro agire). Abbiamo scelto la stabilizzazione – data dalla teoria – semplicemente perché essa è indispensabile a combattere le nostre battaglie che, condotte nel bel mezzo di un magma in continuo rimescolamento, non avrebbero alcun senso minimamente definito. Non sarebbe mai possibile vincere una qualsiasi battaglia; è però necessario essere consapevoli che ogni vittoria, pur quando ottenuta, ha una durata più o meno limitata, sarà sempre rimessa in discussione dalla tumultuosa “realtà”. Vana ogni credenza di riprodurre quest’ultima (“nel cammino del pensiero” come sostenuto da Marx) per quello che essa è; sempre allora resteremo delusi e spiazzati.
E’ necessario accettare l’ineliminabile iato tra ciò che desideriamo e ciò che conseguiamo; uno iato che, se incompreso, andrà allargandosi e poi ci travolgerà. Basta presunzione; mai giungeremo alla definitiva comprensione di una “realtà” che sempre ci trascina con sé e in cui dobbiamo nuotare senza la pretesa di sapere dove siamo realmente diretti. In ogni fase, in ogni epoca, dovremo riadattare i nostri (poveri) “saperi” e ricominciare. Siamo appunto in una nuova fase: vanno lasciate le vecchie sponde e si deve puntare al mare aperto. Armiamo le “tre caravelle” e cerchiamo “nuove terre”. Vedremo dove approderemo!