NIENTE TEORIE GENERALI IN EPOCHE DI TRASFORMAZIONE
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1. Negli anni ’60 e ’70 si sviluppò la polemica e la lotta, soprattutto per merito di Althusser & C., contro la duplice “deviazione” del (nel) marxismo rappresentata dalla coppia antitetico-polare di umanesimo ed economicismo. A dir la verità, in Italia vi era un bell’impasto tra le due che prese il nome di storicismo, di cui fu pregna la cultura piciista (mi rifiutai fin da allora di considerare comunisti quelli del Pci); e che fu l’ideologia del cedimento opportunista (dicevamo “revisionista” perché eravamo convinti, erroneamente, che si trattasse della ripresa della lotta tra “neokautskiani” e “neo-leninisti”) di tale partito, della sua progressiva integrazione nella formazione capitalistica italiana, addirittura al servizio di quella che indicavo, con vecchia terminologia, come “grande borghesia monopolistica”; mentre i futuri neo-opportunisti che allora erano gli “ingraiani” (con la stragrande maggioranza di quelli usciti dalle file del ’68 e, ancor peggiori, quelli del ’77) sostenevano la tesi che si trattava di appoggio a “correnti piccolo-borghesi”. Fui in pratica l’unico ad affermare decisamente la prima tesi, esposta in un articolo redatto all’inizio degli anni ’70 e uscito nel 1973 nella rivista Che fare (diretta da Francesco Leonetti).
Sarebbe però errato esporre qui i principali temi di quella querelle, per quanto sarà un giorno utile riesaminarli non superficialmente giacché ha qualcosa (non più moltissimo) da insegnare ancor oggi. In ogni caso, va esplicitamente detto che i dibattiti di quegli anni sembrano, letti di questi tempi, di una “grandezza” inaudita, di una capacità intellettuale totalmente persa dai dementi odierni. Come sopra scritto, mi rifiutavo ci considerare comunisti quelli del Pci, ma – che so – un Amendola, rispetto ai vermiciattoli attuali, appare un gigante ultrarivoluzionario. Non nomino nemmeno Togliatti – eppure fui d’accordo, e non lo rinnego, con il documento cinese Le divergenza tra il compagno Togliatti e noi e il successivo Ancora sulle divergenze…. ecc. – perché si tratterebbe di pura offesa nei confronti di quel dirigente piciista (detto Il Migliore, ma perché lo era effettivamente, e tale è rimasto per tutti i decenni successivi fino ai tempi di questi squallidi e deficienti dirigenti della presente sinistra; anzi, mi scuso e arrossisco per aver osato fare un simile paragone).
Oggi non avrebbe più senso riprendere i temi della polemica di allora contro lo storicismo, l’umanesimo e l’economicismo. Anche in tal caso, sarebbe vergognoso paragonare quegli studiosi e teorici, contro cui gli althusseriani polemizzarono, ai personaggi intellettuali odierni che ancora sostengono tesi simili; solo simili, ma profondamente deteriorate, vero aceto rispetto al vino di quei tempi lontani. Si tenga inoltre presente che ormai il marxismo non conta quasi più niente. Ci sono orride Marx renaissances, che non si sa bene di quale autore stiano parlando. Ho letto un libro intelligente di Denis Collin, e poche altre cose, ma per il resto mi sembra che oggi si dovrebbe mettere mano alla pistola non appena qualcuno parla del fondatore di quel pensiero, divenuto azione, che ha caratterizzato cent’anni di storia, fino appunto agli anni ’70 del XX secolo. Vi è attualmente la meritoria scuola althusseriana italiana (che annovera pure molti studiosi di altri paesi), ma non è in grado di invertire una corrente “negativa” ormai stabilmente affermatasi.
Dunque, non avrebbe senso polemizzare adesso contro umanesimo ed economicismo marxisti, divenuti, da una parte, sciocco buonismo umanitario legato ad una concezione dell’uomo molto simile alla credenza religiosa – non quella alimentata da ottima teologia, bensì quella delle Parrocchie – e, dall’altra, greve teoria economica che ripete gli stereotipi economicisti del vecchio marxismo, tentando di rivitalizzarli con alcuni strumenti matematici dei moderni “tecnici ed esperti” dei dominanti. Marx pubblicò nel 1867 il I libro de Il Capitale, cui è legata la sua imperitura fama per chi possiede ancora un cervello pensante, mentre lasciò allo stato di appunti l’enorme materiale redatto circa dieci anni prima, poi sistemato, con abbondanti – direi eccessive – interpolazioni di Engels, che lo pubblicò, dopo la morte dell’autore, come II e III libro della stessa opera (lascio perdere i Grundrisse, all’origine di una operazione ideologica compiuta molto più tardi, che dovrebbe riempire di rossore e vergogna chi l’ha manovrata in quel modo osceno).
Mi limito a citare, sempre da Le glosse a Wagner, un’affermazione di Marx, fatta incidentalmente e di passaggio:
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“già in Per la critica dell’economia politica e in alcune note del Capitale [avete capito bene? Marx sta accennando alla stesura della sua massima opera, alla parte da lui pubblicata, e parla di note, non di elaborazioni con tanto di schemi matematici, pur elementari, quali sono quelle contenute nel III libro de Il Capitale, “rimesso a posto” da Engels!] io ho sottolineato espressamente che valori e prezzi di produzione (i quali non fanno altro che esprimere in denaro i costi di produzione) non coincidono. Il motivo per cui non coincidono io non l’ho detto al sig. Wagner” [ultimo corsivo e grassetto miei].
Dunque, un anno prima di morire (il testo è del 1882), Marx, che aveva a disposizione tutti i vari manoscritti da cui Engels trarrà, con amplissime aggiunte e rimescolamenti, il terzo libro del Capitale, non riporta nemmeno un rigo, nemmeno uno spunto, della “sua” famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione al fine di confutare Wagner. Lascio perdere una inutile, e allora solo dottrinale, discussione sull’affermazione che i prezzi di produzione “non fanno altro che esprimere in denaro i costi di produzione”. L’importante è che Marx non se la sente di dare alcuna anticipazione sul problema e si limita a dire a Wagner: io non te l’ho detto. Solo perché pensava che ci avrebbe rimesso le mani (nessuno sa quando deve morire)? Dalla fine degli anni ’50 (un quarto di secolo prima delle Glosse a Wagner!), non aveva proprio trovato un minuto di tempo per “risistemare la questione” contenuta nel mare dei suoi manoscritti? Il vero fatto, a mio avviso, è il solito e ben noto: per Marx “il capitale non è cosa ma rapporto sociale”. Dunque, non aveva alcuna intenzione di trattare i prezzi di produzione quale mera espressione in denaro dei costi di produzione; Marx non era un banale economista, un tecnico e non uno scienziato allora! Voleva inquadrare la soluzione (e ancora non vi riusciva) nell’ambito del suo grande affresco di teoria della società, quella che, per dirla con Althusser (poi chiarirò il mio punto di vista), aveva aperto alla scienza il “Continente Storia”.
Lungi da me aderire ancora alla concezione di Althusser secondo cui la teoria del valore è puramente contabile; non è soltanto questo, ma lo sarebbe diventata se Marx avesse trattato della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, attenendosi soltanto al fatto che questi ultimi si limitano ad esprimere in denaro i costi di produzione. Così hanno però trattato la questione i “marxisti”, falsi seguaci di Marx; solo gretti, superficiali, economisti, che hanno preso la critica dell’economia politica quale semplice critica logica della teoria economica dei “classici”, poi estendendola ai “neoclassici” (si pensi agli economisti detti neoricardiani, che non hanno capito di Marx un niente di nulla, da bravi allievi istruitisi nelle alte Università anglosassoni, il “tempio” di questa falsa scienza ridotta ad ideologia tecnicistica)1. Ma anche i critici antineoricardiani, gli ortodossissimi, non hanno capito un accidenti, hanno seguito i precedenti nelle loro fisime logico-matematiche. Da oltre cent’anni, predicano la risoluzione della trasformazione; e come tutti gli ideologi che si rispettano, ognuno dice che il precedente non ha risolto il problema, mentre lui invece….. Una vera massa di cervelli fasulli con una spiccata vocazione alla deformazione ideologica tipica del buon filisteo paracapitalistico. Vogliamo parlare di “teoria economica critica”? Secondo me, nemmeno di questa; solo tanta ideologia e qualche abilità da prestigiatore con i numeri e i simboli. Del capitale come rapporto sociale, nemmeno l’ombra, nemmeno una virgola. Questo è l’economicismo “marxista”; non autentico antimarxismo ma sostanziale tradimento dell’effettiva genialità di Marx, ridotta a gretto calcolo economico e basta.
Risparmio al lettore l’altro pilastro di questi aberranti “marxisti”: la caduta tendenziale del saggio di profitto con continue profezie di crolli del capitalismo, che sono stati soltanto crolli del loro stato di salute mentale! Lasciamo andare adesso questi ideologi “da cortile”; hanno sempre trovato
1 Uno dei pochi economisti colti e intelligenti, Napoleoni, fece un giusto rilievo a Sraffa quando affermò che la sua teoria risolveva (secondo lui) logicamente il problema, ma era “storicamente muta”; cioè, detto nei miei termini, non aveva nulla a che vedere con la teoria della società (capitalistica) così come l’aveva impostata Marx; stava proprio da un’altra parte, dalla parte dell’“economica” dei dominanti.
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giornali ed editoria dei dominanti (e posticini nell’accademia) per sproloquiare su questi alti temi che pretendono di distruggere il capitalismo (no, adesso sono impreciso: solo ne prevedono l’imminente fine da cent’anni e più!). Comunque, non contano quasi più nulla, quindi lasciamoli ai prossimi cent’anni sia di predicazione del crollo del capitalismo per caduta del saggio di profitto che di ulteriore risoluzione del problema della trasformazione.
2. Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso fu altissimo merito di Althusser, seguito dai migliori marxisti in circolazione, combattere aspramente contro umanesimo ed economicismo, che pure contavano tra le loro file alcuni cervelli pensanti, a differenza di quelli esistenti oggi che di Marx non conoscono nemmeno l’abc; al massimo si possono ricollegare al “comunismo medievale” di stampo religioso oppure alla “moderna religione” dell’economica, divenuta ormai uno dei rami della “tecnica” priva di illuminazione razionale, che è appunto quella coltivata dai meschini ideologi odierni di ceti dominanti in grave decadenza (non per “crollo del capitalismo”, ma semplicemente per fine di ogni ottimismo circa le finalità di questo tipo di società, culturalmente degradata fino all’inverosimile).
Sia chiaro che, quando io accenno a volte ad “errori” di certi pensatori, quasi sempre mi riferisco ad errori rilevati “con il senno di poi”, cioè ad errori che tali appaiono dopo le “verifiche” storiche di tanti decenni. Se ad esempio io affermo che Marx ha sbagliato previsioni nell’immaginare il formarsi, per dinamiche oggettive, del soggetto rivoluzionario (l’operaio combinato o lavoratore collettivo cooperativo, come lo denomino io) in grado di realizzare il “comunismo in quanto movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, è ovvio che non intendo parlare di svarioni commessi da Marx nell’epoca in cui egli formulò la sua geniale teoria, bensì di previsioni che il tempo ha dimostrato errate; spettava ai suoi successori capirlo e attuare le opportune modifiche, che ormai debbono essere del tutto radicali.
Quando il leninismo venne definito “il marxismo dell’epoca dell’imperialismo”, tale definizione, all’inizio, conteneva profondi nuclei di buon senso se non di “verità ultima”. Lenin mantenne un’apparente ortodossia, ma modificò in realtà profondamente il pensiero di Marx (la “rivoluzione contro il Capitale”, intelligentemente intuita da Gramsci, che era in realtà una revisione di quel pensiero con l’introduzione di geniali innovazioni). Lenin non arrivò a capire fino in fondo la non rivoluzionarietà di quella che veniva erroneamente definita classe operaia (esistevano gli operai, non la classe! Non almeno nel senso in cui l’intendevano Marx e il marxismo); si limitò a pensare che solo quella inglese, grazie alle briciole legate allo sfruttamento imperialistico (cioè al plusvalore estratto a lavoratori non inglesi), si fosse imborghesita.
Lenin non comprese, ma non poteva non essere così in quella fase storica, che gli operai di cui parlava – per nulla affatto gli stessi di cui aveva discusso Marx, ma la classe operaia così come definita da Engels e Kautsky, i veri fondatori del marxismo, dottrina che riprendeva solo la superficie dell’analisi marxiana – erano semplicemente il raggruppamento dei lavoratori prevalentemente esecutivi, privi delle potenze mentali della produzione, diretto da certi gruppi in quanto mere lobbies in conflitto per il governo politico con quelle dirigenti altri raggruppamenti sociali; e tutte queste lobbies entrano tra loro in un complesso gioco di scontri e mediazioni, che mai e poi mai deve rimettere in discussione i meccanismi della riproduzione capitalistica, altrimenti i loro interessi vanno in fumo.
Lenin non contrastò con radicalità il marxismo di Kautsky, in un certo senso limitandosi a combatterne l’opportunismo, l’evidente connivenza con le grandi potenze capitalistiche (ormai imperialistiche), di cui veniva contrabbandata la missione civilizzatrice legata alle imprese coloniali. Lenin criticò l’identificazione kautskiana di imperialismo e colonialismo: critica giusta, di cui non posso però qui fare l’analisi, che del resto sarebbe ormai un po’ pleonastica; si accetti quindi la mia affermazione circa la giustezza della critica leniniana senza dimostrazione alcuna. L’importante è rilevare che il leninismo fu di fatto la teoria della fase storica in cui entrarono – nel gioco mondiale dei grandi sconvolgimenti verificatisi nei rapporti di forza tra paesi e gruppi sociali a livello internazio-
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nale – le masse contadine, in particolare d’oriente. Non si trattò affatto di riedizione, “corretta”, delle guerre contadine nel medioevo europeo, anch’esse a volte mosse da confuse aspirazioni comuniste.
I comunisti d’oriente guidarono i contadini in nome dell’ideologia del “socialismo scientifico” legato alla supremazia della classe operaia: appena esistente in Russia, quasi inesistente in tutti gli altri paesi delle rivoluzioni “comuniste”. Non essendoci simile classe, la stessa teoria, coadiuvando mirabilmente la prassi, si inventò la distinzione tra classe in sé e classe per sé, affidando i compiti di quest’ultima alla sua pretesa avanguardia, un gruppo fortemente organizzato e strutturato di rivoluzionari di professione. La (inesistente) classe operaia e il socialismo scientifico furono in definitiva l’ideologia che fece da tramite per l’affermarsi di un atteggiamento teso alla formazione di gruppi rivoluzionari coesi, con forti attitudini all’analisi oggettiva del campo in cui si svolgeva la lotta, tenendo debito conto degli schieramenti in campo; quindi con attenta valutazione dei rapporti di forza e la capacità – senza più appelli alla “giustizia”, garantita dalla religiosità e credenza in Dei redentori o in ideologie del Bene, ecc., pericolose per il successo dei rivoluzionari – di mettere in atto tattiche e strategie appropriate e adeguate alle varie situazioni sociali “locali”. Da qui la tesi dell’anello debole, e il vario atteggiarsi dello scontro: o immediato per abbattere dati punti chiave del potere avversario o invece orientato ad una prolungata guerriglia per logorare tale potere, ecc.
Laddove ci fu la ripresa della “romantica avventura” legata alle tesi guevariane dei “fochi guerriglieri”, il disastro fu totale. Il leninismo, con il suo prolungamento maoista, fu invece la traduzione del “socialismo scientifico” nella tattica e strategia vincenti di un attacco al cuore del potere o invece di una lotta di logoramento di lunga durata, a seconda delle condizioni sociali sussistenti nelle varie società particolari. In ogni caso, però, il conflitto fu condotto al successo appoggiandosi di fatto, al di là dell’ideologia operaia, alle masse contadine, tenendo tuttavia conto del prevalente spirito individualista del contadino, contrastato e inquadrato – basandosi sull’effettiva miseria degli strati poveri di questo maggioritario raggruppamento sociale – mediante la direzione di una ferrea organizzazione d’avanguardia: un vero esercito (ma non del tipo tradizionale), capace di una mobilità del tutto sconosciuta agli eserciti normali, e con una disciplina fondata su un solidissimo impianto ideologico (e ideale) e non semplicemente su premi e punizioni.
Oggi, quella fase è tramontata, e gli ultimi esiti, ormai degenerativi, di quella grande epoca sono: a) nei paesi a capitalismo avanzato, un decadente umanitarismo imbelle e sciocco o gruppi di credenti “scientisti” nel finale crollo capitalistico per raggiunti limiti di sviluppo economico; b) nei paesi non compiutamente capitalistici, ancora in gran parte contadini o comunque non industriali, la ripresa di contenziosi religiosi che rendono meno incisiva la lotta contro i principali occupanti di quest’epoca, gli Stati Uniti, coadiuvati da quelli che ancora restano loro subordinati (i subdominanti dei paesi capitalistici avanzati) come nell’epoca bipolare dei “due campi”. E’ ovvio che siamo in una fase di transizione; ancora sembrano mordere vecchie contraddizioni, non più però sorrette dall’efficace strategia e tattica delle forze leniniste e maoiste, mentre il campo occidentale, senza più il suo antagonista unitario e compatto (almeno all’apparenza), annaspa e continua a restare in surplace, senza aggiornare i suoi criteri di analisi geopolitica.
Tuttavia, al di là delle intenzioni dei “singoli” (paesi, istituzioni economiche e politiche, ecc.), sta avanzando la fase multipolare. Ancora il polo più potente è uno, ma è evidente che si tratta di situazione transitoria (in senso storico, s’intenda bene questa transitorietà per non pensare che il domani sia già alle porte). Vediamo allora quali conclusioni si possono trarre da quanto appena sostenuto.
3. Ogni pensatore, quand’anche formuli una teoria che vuol essere di guida all’azione di trasformazione rivoluzionaria del mondo in cui vive e opera, tende sempre a sistemare la teoria in senso generale. Così fece anche Marx. La sua teoria, oggi lo si capisce bene, era la sistematizzazione delle idee tratte dall’indagine di una formazione particolare, quella inglese, giunta all’apogeo della sua potenza di dominatrice del mondo, di paese centrale di quell’epoca monocentrica. Tale forma-
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zione sociale, le cui caratteristiche storiche specifiche furono assunte soprattutto in seguito alla rivoluzione industriale, fu elevata a modello generale dell’epoca detta capitalistica; e poiché ciò che differenziava quest’ultima, rispetto alle altre epoche storiche, era il peso preponderante assunto dalla sfera economica, tali caratteristiche – considerate quelle strutturali del capitalismo in generale – furono riassunte nel concetto di modo di produzione capitalistico. Tale concetto rappresentava comunque il punto di arrivo dell’analisi compiuta a partire dalla cellula fondamentale della sfera economica, la merce, in quanto forma generale, universale, di ogni singola unità della produzione sociale complessiva; con la conseguente e necessaria duplicazione monetaria, da cui derivava quindi anche la forma denaro con tutto quel che ne consegue.
Quando il capitalismo inglese entrò in declino e altri competitori capitalistici iniziarono la loro lotta per la successione – in primo piano Usa e Germania, ma anche il Giappone con cui gli Usa ingaggiarono un lungo conflitto per il predominio nell’area del Pacifico; solo in un secondo tempo, gli Stati uniti si avvidero che era ormai a portata di mano il predominio anche in occidente, dove si potevano sconfiggere sia la Germania sia le “ufficialmente” alleate Inghilterra e Francia (questo il risultato effettivo della seconda guerra mondiale al di fuori dei peana ideologici degli storici di quel periodo) – si entrò nel lungo periodo di conflitto policentrico (l’imperialismo), che fu troppo frettolosamente ricondotto al semplice passaggio dalla concorrenza allo “stadio monopolistico”. Da simile errore d’analisi (sempre secondo la prospettiva storica odierna), ne derivarono due conclusioni opposte; una opportunistica e l’altra rivoluzionaria.
La prima, kautskiana, pensava alla graduale e pacifica conquista del tendenziale unico centro regolatore (monopolistico) del sistema (economico) complessivo. L’altra, leniniana, pensava ad un ormai lungo e finale processo tumultuoso di sviluppo ineguale dei diversi capitalismi (cioè dei diversi paesi, divenuti potenze in conflitto per la supremazia mondiale) con rotture negli anelli deboli; rotture nel senso della perdita sia di capacità egemoniche sia del controllo dei “corpi speciali in armi” da parte delle borghesie nazionali più deboli nei confronti dei loro popoli (abbiamo già detto in prevalenza contadini), in rivolta a causa di condizioni di estrema miseria aggravata dai conflitti tra potenze. Tale rivolta, per giungere al successo, doveva però essere guidata dalle “avanguardie” rappresentanti la classe operaia (pur quasi inesistente), eccetera, eccetera.
Il leninismo divenne una nuova teoria generale dell’ “ultimo stadio” del capitalismo, in cui si sarebbe andati verso una crescente, pur se per successivi gradini di accentuazione, turbolenza del sistema capitalistico con il progressivo estendersi della rivoluzione proletaria mondiale, poi successivamente teorizzata, da Mao, come inizialmente innescata nelle “campagne” (terzo mondo) con successivo accerchiamento delle “città” (le potenze capitalistiche, cui venne aggiunta quella detta socialimperialista, l’Urss, con un notevole errore di prospettiva). Anche il leninismo si diramò nei suoi esiti opportunistici e attendisti, nelle sue correnti rivoluzionarie, nei suoi “estremismi ultrarivoluzionari” (tipo trozkisti e bordighisti), ecc.
Il vero fatto è che l’imperialismo fu una semplice fase policentrica in cui si sviluppò la lotta per un nuovo monocentrismo; mai perfetto dato il dinamismo capitalistico e lo sviluppo ineguale, che resta come acquisizione essenziale del leninismo. Tale lotta, comunque, implica la trasformazione non solo della configurazione relativa alla formazione mondiale, ma anche quella delle strutture sociali dette capitalistiche. L’ultimo stadio preconizzato da Lenin era l’ultimo stadio del capitalismo borghese, quello inglese studiato da Marx e generalizzato quale capitalismo (anzi modo di produzione capitalistico) tout court. In effetti, i marxisti hanno sempre parlato della classe dominante capitalistica quale borghesia (quella monopolistica essendo la classe dominante nell’ultimo stadio imperialistico). Dopo il capitalismo borghese non si sarebbe potuto che entrare nell’epoca dell’avvento al potere della classe operaia (nemmeno più considerata in senso marxiano, quale unione di lavoro intellettuale e manuale, di direzione ed esecuzione); poiché questa latitava in senso rivoluzionario, si pensò all’alleanza con le masse contadine, sfruttando intanto la carica di ribellione di queste ultime nei paesi oppressi dall’imperialismo. Di fatto quindi, malgrado la giusta distinzione leniniana tra imperialismo e colonialismo, si tornò alla decisività della lotta di liberazione dal colo-
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nialismo e neocolonialismo dei paesi capitalistici avanzati. Malgrado questa lotta fosse diretta da presunte avanguardie della quasi inesistente classe operaia, dalle masse inizialmente poco differenziate che condussero le guerre rivoluzionarie non potevano, alla fin fine, non emergere nuovi gruppi dominanti: com’è accaduto in Cina, in Vietnam e in ogni dove tale lotta abbia vinto.
Per inciso, debbo dire che anche il tanto criticato libro di Lukàcs, La distruzione della ragione, fu espressione dello stesso modo distorto di valutare quell’epoca. In realtà, si trattava della fine della “ragione borghese”, sostanzialmente illuminista (e poi positivista), ma anche dei suoi sbocchi “dialettici”. Lukàcs interpretò la crisi di un’intera cultura – ivi compresa quella del grande romanzo borghese – come fosse legata alla decadenza e fine di un’epoca, ormai trapassata in quella del capitalismo imperialistico: una società supposta marcia, morente, minata dall’imminente avvento della rivoluzione proletaria. Non era affatto così, poiché si trattava soltanto di un passaggio di fase interno ad una formazione che non so se si dovesse ancora chiamare capitalistica; comunque tutti, non i soli marxisti, hanno continuato a denominarla in questo modo, anche perché gli importanti cambiamenti verificatisi – adombrati soprattutto da molti pensatori dei dominanti, e fra tutti cito il Burnham della Rivoluzione manageriale – non hanno né portato il proletariato al potere né eliminato le forme generali, impresa e mercato, esistenti nella sfera economica, ancora considerata quella più dinamica: sia dagli ideologi dei dominanti che dai neomarxisti.
Nella seconda metà del XX secolo Althusser, attribuendo a Marx l’apertura alla scienza del Continente Storia, in qualche modo riaccreditò la tesi di una teoria generale della società capitalistica. Rinverdì anche quella dei due diversi stadi, concorrenza e monopolio, del modo di produzione capitalistico, sostenendo che, nel primo, la sfera economica era determinante e dominante, mentre nel secondo essa continuava ad essere determinante (“in ultima istanza”) perdendo però la dominanza a favore di quella politico-ideologica. Bisogna ben considerare che, più o meno, tutti vivevamo quell’epoca come impantanamento del “socialismo” – pensato quale lunga fase di transizione al comunismo in cui continuava la lotta di classe tra borghesia e proletariato (o classe operaia) – con la speranza, però, di poter riprendere la marcia in avanti, rifondando veramente la teoria marxista e la prassi comunista.
L’ultima fase dell’althusserismo, il materialismo aleatorio, mi sembra, ma la butto là per il momento, l’ammissione dell’ormai avvenuta sconfitta dei comunisti marxisti, con il ripiegamento sulla casualità di certi avvenimenti storici; almeno per quanto concerne l’intrecciarsi e concatenarsi, in un processo allora riproduttivo di una data struttura, di determinati elementi della stessa, che potrebbero però anche non “incontrarsi storicamente”, non dando quindi vita a quel processo riproduttivo (di rapporti sociali, sia chiaro). Mi sembra accettabile e sensato (e sobrio) il richiamo all’aleatorietà degli accadimenti storici, abbandonando così ogni “filosofia della storia” (e dell’Uomo nella Storia, con il suo procedere per necessari “sorpassamenti dialettici”). Tuttavia, una teoria simile – soprattutto in un “animale politico” come Althusser, che aveva fatto della pratica teorica un mezzo importante di conflitto (pur ancora interpretato come lotta di classe) in date congiunture, in ciò riprendendo la decisiva lezione leniniana – sembra un po’ rinunciataria proprio sul piano della lotta di congiuntura. Almeno questa è l’impressione che ne ricavo. Bisogna forse rompere radicalmente con una certa tradizione.
4. Su un piano generale, di storia della società umana, e del succedersi in essa di date forme di società (di rapporti sociali), mi sembra opportuna l’ammissione dell’aleatorietà nel concatenamento di determinati elementi, che danno vita a particolari processi di riproduzione dei rapporti appunto secondo forme specifiche, caratterizzanti le varie grandi epoche della formazione sociale. Vi è però il problema del conflitto, nel suo aspetto di pratica teorica, da condurre in ambito congiunturale. Può trattarsi di un breve periodo, ma anche di una fase storica in cui mutano radicalmente alcuni sistemi di relazioni: sul piano della formazione sociale mondiale, con riflessi anche interni alle varie formazioni particolari. Esclusa ogni forma di determinismo – umanistico od economicistico – è però necessario formulare ipotesi non fondate sulla semplice aleatorietà, bensì sul come se gli avve-
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nimenti si verificassero in base a probabili concatenazioni di cause ed effetti. La probabilità conduce all’azzardo di previsioni comunque dotate di un certo grado di determinatezza (sempre in via di ipotesi).
E’ dunque evidente che una teoria, per quanto a brani e bocconi, deve essere formulata in base a quelle ipotesi; la tendenza alla sistematizzazione è in ogni caso presente. Senza una teoria siffatta, è inutile procedere a previsioni, che presuppongono anche interpretazioni del passato e del più immediato presente, sempre in base al tutto torna ma diverso. Non ci si può soltanto affidare alla “cecità” del caso, punto e basta. Nella congiuntura data – e dunque nella teoria di fase ad essa congrua – qual è in realtà l’atteggiamento che deve essere abbandonato? Quello che comporta la formulazione di teorie generali circa lo sviluppo della società. Bisogna avere inoltre il coraggio di ributtare all’indietro tale atteggiamento, reinterpretando le teorie passate con questa nuova prospettiva, più limitata nel tempo.
La teoria sociale formulata da Marx appare allora in effetti quale teoria di quella società formatasi attraverso i processi sfociati nella rivoluzione industriale e nel predominio, durato fin verso gli anni ’60-’70 dell’ottocento, della formazione particolare inglese. La teoria marxiana può dunque essere considerata relativa alla sola formazione capitalistica borghese, mentre è stata indebitamente generalizzata mediante il concetto di modo di produzione capitalistico (tout cort). La teoria di Lenin è stata quella del periodo (di conflitto policentrico) tra la guerra franco-prussiana e la prima guerra mondiale, periodo di scontro generalizzato per arrivare ad un nuovo monocentrismo – imperfetto, anche a causa della Rivoluzione d’ottobre con i suoi vari effetti prodottisi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, assai diversi comunque da quelli pensati dai comunisti – che sarà quello dominato dagli Stati Uniti, una formazione sociale che possiamo considerare ancora capitalistica ma di tipologia differente. L’ho denominata formazione dei funzionari del capitale, ma sia chiaro che di essa non esiste alcuna teoria dello stesso tipo di quella marxiana relativa alla formazione capitalistica borghese. Quella di Marx era in qualche modo generale, pur se si è esagerato poi, da parte dei marxisti, nel considerarla completa e onnicomprensiva (non lo era nemmeno in sede sociale; figuriamoci quindi quali gravi errori teorici, seguiti da quelli pratici, sono stati commessi quando la si è voluta estendere a tutto lo scibile possibile e immaginabile).
Purtroppo, della formazione dei funzionari del capitale abbiamo solo una serie di spunti e notazioni. Nel mentre siamo così deficitari (teoricamente), si ha la netta sensazione che si stia entrando in una fase storica multipolare che dovrebbe condurre a nuovi conflitti policentrici, cioè ad un nuovo trapasso di formazione sociale. Possiamo del tutto ragionevolmente supporre che sarà ancora una società fondata sul predominio di certi strati sociali e sulla subordinazione di altri; nulla che sia ragionevole, e non semplicemente fantasticato da “nuovi utopisti”, lascia invece prevedere l’avvento di società comunistiche o similari. Semmai, appare molto probabile che le forme generali della sfera economica capitalistica – forma di merce e forme dell’organizzazione imprenditoriale – perdureranno lungo l’arco di questa trasformazione conflittuale policentrica. Il tutto però, lo ripeto, in assenza di teorie più sistematiche.
Va comunque ammesso lo sforzo di conseguire una migliore sistematicità; non è invece lecito voler trarre dalle trasformazioni in atto nuove teorie generali da estendere all’intera società, soprattutto se poi da queste teorie si intende dedurre l’avvento del comunismo o simili. Una formazione sociale, quest’ultima, delle cui caratteristiche, una volta smentite le realistiche previsioni marxiane, non siamo in grado di fornire alcuna descrizione che non appartenga ai desideri o ai sogni di nuove categorie di pseudo-pensatori adusi a fantasie infantili, che vorrebbero contrabbandare per “profondi” pensieri filosofici; riuscendo comunque a ben venderle ai dominanti, sempre pronti a comprare tutta la merce avariata che serva a sviare l’attenzione dei dominati dai loro misfatti.
E’ però indispensabile ricordare un altro ben preciso errore in cui si può incorrere. C’è sempre fretta di intervenire nella congiuntura con la prassi politica, la più frammentaria e disorganizzata che si possa immaginare. Poiché nessuna teoria è attualmente in grado di illuminare la prassi, ci si butta alle spalle la teoria e si immagina di immergersi nel flusso della Storia, seguendo le “masse”, i
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“movimenti”. Così si comportano i cialtroni e i mestatori, ma purtroppo anche molti ben intenzionati; di cui è del resto comprensibile la fretta. Comprensibile ma dannosa al massimo grado, e di fatto sempre egemonizzata poi dai cialtroni e mestatori. Ci si deve rendere conto della verità della famosa frase relativa alla “Nottola di Minerva ecc. ecc.”. Una teoria, pur sempre ipotetica e sempre rivedibile (pena la sclerotizzazione dogmatica), nasce a giochi fatti. Pensare alla possibilità che una teoria come quella di Marx potesse essere formulata, diciamo a mo’ di esempio, nel 1820 è una sciocchezza colossale1.
Dobbiamo quindi essere ben consci che, in questo periodo storico, siamo solo in grado di assolvere la funzione di pensatori della crisi, del trapasso d’epoca, dello sbriciolamento degli “ismi” dell’epoca che sta tramontando (o quanto meno noi scommettiamo che sia in fase di superamento). Dobbiamo pensare il nuovo, ma sapendo che non abbiamo sotto mano la “realtà” verso cui ci stiamo presumibilmente avviando. Rendiamoci inoltre conto che, se avremo ragione, ci troveremo in un’epoca caratterizzata da profondi sconvolgimenti e lotte per la supremazia: non semplicemente tra “classi” (raggruppamenti sociali dominanti e dominati) ma tra intere formazioni particolari (paesi, nazioni) divenute potenze. Quindi, questa transitoria fase di passaggio lo è ad un’epoca in cui non sarà affatto ancora stabilizzata una nuova formazione sociale (in generale) e, dunque, non si saprà ancora quale formazione particolare, imponendo un nuovo monocentrismo, avrà (probabilmente, non tassativamente) imposto anche una nuova forma ai rapporti sociali preminenti nella nuova epoca. E tutto questo, lo ripeto, mentre ancora né il marxismo né le varie teorie dei dominanti ci hanno fornito un’esauriente e sistematica conoscenza della formazione dei funzionari del capitale, di fatto affermatasi tra le due guerre mondiali e, più stabilmente, dopo la seconda.
Non voglio scoraggiare nessuno né dal praticare la teoria né dal praticare la tanto beneamata “prassi”. Voglio solo ricordare i limiti delle nostre azioni, pratico-teoriche e pratico-pratiche. Con la semplice voglia soggettiva di fare, di agire, non siamo in grado di risolvere quella che possiamo indicare quale immaturità della presente fase di transizione all’epoca in cui si arriverà – in forme del tutto imprevedibili attualmente – alla solita resa dei conti tra diverse formazioni particolari con passaggio effettivo ad una nuova forma dei rapporti sociali. Io sono comunque per il massimo impegno politico, lasciando però e chiacchiere e sogni ai nuovi utopisti, che sempre proliferano in qualità di saprofiti in queste epoche di crisi. Voglio solo ricordare ai frettolosi che siamo uomini del nostro tempo, pensatori della crisi. Il procedere per prova ed errore è particolarmente indicato in epoche del genere. Basta rendersi conto del problema e dedicarsi alla pratica teorica con cognizione di causa. Lasciate agli scadenti filosofastri (non certo filosofi) odierni di cianciare sugli “immancabili” destini dell’Uomo. Noi siamo seri pensatori interessati alla politica, quindi ci concentriamo sulla fase, nella quale non è per nulla facile barcamenarsi dopo tanta inerzia e ripetitività (e infantilismi inenarrabili).
5. Come più volte rilevato negli ultimi tempi – per cui sintetizzo la questione – ormai da più parti, direi da quasi ogni parte, si sostiene adesso il “ritorno delle nazioni”. Ho spesso chiarito che queste ultime non erano mai sparite, ma solo apparentemente surclassate dall’incipiente, e poi fallito, predominio imperiale statunitense. Il sedicente ritorno delle nazioni va per me suddiviso in due periodi (sempre in base a previsioni realistiche e, con tutta probabilità, realizzantesi nei prossimi, ben pochi, decenni). Per il momento, credo si entrerà nel multipolarismo, che definisco, per effettuare opportune distinzioni, quale periodo transitorio in cui un polo ha una non più schiacciante, ma ancora ben evidente, preminenza; ed è soprattutto inattaccabile dal punto di vista militare. Non si tratta però solo di quest’aspetto. Tale polo (gli Usa) dovrà passare una crisi economico-finanziaria pesante, che già lo mette infatti nella situazione di mutare la strategia apertamente aggressiva adottata dopo il crollo del “socialismo reale” e fin verso gli ultimi tempi della presidenza Bush jr. Dal punto di
1 Ricordo di essermi reso conto della pochezza teorica di un Bateson, molto reclamizzato negli anni ’80 ed oggi giustamente dimenticato, quando lessi in uno dei suoi libri che la teoria nasce dal cervello di un individuo; e ciò può accadere oggi oppure domani (ma un oggi e un domani separati da epoche storiche). Un pensiero proprio peregrino.
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vista dell’epoca di crisi più generale, non semplicemente economica, gli Usa mostreranno però, ne sono convinto, di avere ancora molte carte da giocare: non semplicemente militari ma come solido apparato industriale e avanzata ricerca scientifico-tecnica in cui sono per il momento in vantaggio sugli altri competitori. Inoltre, tenteranno di applicare più adeguate strategie di potenza, cioè di difesa di sfere di influenza proprie e di attacco (non soltanto militare) a quelle degli altri.
Il multipolarismo dovrebbe aprire la strada al vero policentrismo – policentrica fu ad esempio l’epoca del “classico” imperialismo – caratterizzato dal conflitto tra più potenze di non troppo dissimile forza, da cui non si può uscire senza un regolamento di conti per la supremazia. Una serie di precisazioni sono però necessarie. Intanto non si pretenda di indicare fin d’ora chi sarà il prossimo vincitore; per quel che ne sappiamo potrebbe anche essere di nuovo l’attuale paese prevalente. Dubito però che, in tale eventualità, esso sarebbe ancora la stessa formazione particolare odierna, quella definita dei funzionari del capitale; è tuttavia inutile lanciarsi in futurologie circa la “struttura sociale” che caratterizzerà il paese in grado di assumere la predominanza centrale. Quanto appena detto chiarisce comunque il motivo per cui utilizzo di preferenza l’espressione formazione particolare, pur sapendo che oggi coincide in pratica con paese o anche nazione. In una prospettiva storica più lunga, però, uno stesso paese rappresenterà assai probabilmente, dopo il periodo policentrico di conflitti internazionali e di profondi rivolgimenti sociali, una diversa formazione particolare1.
In secondo luogo, possiamo ragionevolmente prevedere un regolamento di conti per la supremazia, ma sarebbe errato pensare alle guerre novecentesche. Per formulare qualche previsione, credo sarebbe più utile rivolgersi alla fantascienza, che già anticipò in epoche passate, sia pure all’ingrosso e con molte forzature, alcune “cose del futuro”. Tuttavia, non mi sembra proprio sia nostro interesse fantasticare sulle forme dei conflitti che verranno; possiamo solo essere realisticamente convinti che accadranno e non saranno piacevoli. Piuttosto, è da precisare un punto fondamentale. Le caratteristiche dell’epoca policentrica sono da ritenersi l’aspetto principale del flusso degli eventi storici. Non è l’equilibrio il lato predominante di quella che chiamiamo “realtà”, quella in cui viviamo, agiamo, ecc.; lo è invece lo squilibrio. Quello che Lenin individuò come sviluppo ineguale non riguarda solo il conflitto (policentrico) tra nazioni, tra paesi, cioè tra formazioni particolari. Tutte le varie “parti” – in cui, a livello sia macro che microsociale, può essere “tagliata” quella realtà che denominiamo società: nazioni, paesi, estese aree geografico-sociali o invece raggruppamenti e gruppi sociali di varia forma e dimensione, famiglie, club, associazioni e …..insomma ogni cosa – conosce lo sviluppo ineguale.
Quest’ultimo dipende appunto dalla predominanza dello squilibrio, legato al conflitto, da cui nascono continue alleanze (tra parti macro o micro) che si fanno, disfano e rifanno in base alle esigenze del conflitto in questione e dell’ineguaglianza di sviluppo. Dallo squilibrio nascono le continue mediazioni nel tentativo di stabilizzare date situazioni, che poi si rimettono sempre “in fibrillazione”, esigendo allora nuovi conflitti o nuove mediazioni con nuove alleanze, ecc.; dallo squilibrio, e dal conseguente bisogno di stabilizzazione con mediazioni e alleanze tra le varie “parti” (macro e microsociali), nascono gli apparati, le istituzioni e quant’altro consenta di vivere in un mondo apparentemente ordinato, in cui si possano fare previsioni e progetti d’azione. Previsioni che, in tempi brevi o invece lunghi, si dimostreranno sbagliate; progetti che, in periodi più o meno brevi o lunghi, verranno disattesi. Ciononostante le scelte sono solo due: o ci dedichiamo al puro fantasticare (non quello da cui comunque traluce con chiarezza il mondo in cui viviamo, ma proprio la fuga da quest’ultimo) oppure accettiamo di prevedere, progettare, sbagliare obiettivo, fallire e ricominciare da capo, sgombrando il campo dagli zombi del passato e ributtandoci nelle braccia di un futuro incerto con nuovi progetti orientati e nuove convinzioni.
1 Si pensi all’epoca del predominio centrale inglese, in cui tale paese fu caratterizzato dalla formazione capitalistica borghese. Dopo il periodo policentrico (l’imperialismo), definitivamente chiusosi, almeno nel “campo capitalistico occidentale”, con il predominio centrale statunitense, ogni paese di detto campo (ivi compresa l’Inghilterra) fu trascinato nell’orbita della formazione dei funzionari del capitale, “struttura” sociale caratteristica appunto degli Usa.
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Tutti quelli che pensano all’equilibrio, alla stabilizzazione, quale aspetto predominante della vita individuale, sono quelli che si convincono di essere padroni del proprio “destino”; sono come i piccoli imprenditori, convinti di essere tutti (o quasi) geni nel periodo delle “vacche grasse” mentre sono in crisi e, in buona parte, si sentono inetti perché adesso non riescono più a “fare affari”. Tutti quelli che pensano all’equilibrio, alla stabilizzazione, come aspetto predominante dell’evolversi della società, sono quelli che prediligono gli apparati e le istituzioni, sono quelli (tipo Kautsky, ma ce n’è a bizzeffe!) che prevedono il formarsi tendenziale di centri regolatori globali e permanenti, sono quelli che predicono per il prossimo secolo quale sarà il paese mondialmente predominante (“imperiale”) nella (probabile) nuova fase monocentrica (per esempio, quelli che già vedevano il Giappone, e oggi considerano la Cina, quale sostituto degli Usa nel corso del XXI secolo).
In realtà, negli apparati, ad esempio in quello denominato Stato, predomina un campo di conflittualità pur contenuto per lunghi periodi e svolgentesi secondo specificità proprie. Nella fase monocentrica non smette affatto di agire, pur in modo meno manifesto, lo sviluppo ineguale, cioè il conflitto tra parti macro e microsociali, con tutto il corteggio di alleanze, mediazioni, ecc. che, indubbiamente, la nettamente maggior potenza di un polo tiene in qualche modo sotto temporaneo controllo, non senza innumerevoli smagliature e “sussulti vibratorî”, che infine prenderanno il sopravvento; certamente sempre poggiando sui portatori soggettivi del conflitto e dello sviluppo ineguale. E’ infatti senz’altro necessario che ci siano i giocatori, ed è altrettanto indispensabile che questi cerchino di interpretare e svolgere il gioco nel modo migliore; è però sempre il gioco ad imporsi.
Neppure si pensi che siano le regole del gioco a dominare le partite (conflittuali) – come esempio attuale ricordo gli sciocchi esaltatori della “meravigliosa” Costituzione italiana, veri conformisti e banali ripetitori di stantii luoghi comuni, che hanno la pretesa di “fermare il mondo” – poiché queste solitamente cambiano di periodo in periodo. Le regole vanno dunque, esse stesse, interpretate e utilizzate nel modo migliore, ben sapendo che, se rimaniamo fissi al gioco già appreso, alla fine saremo spazzati via da altri giocatori “migliori”, cioè da altri portatori soggettivi di un gioco nuovo, ma pur sempre fondato sul conflitto; ecco perché tutto torna ma in forme nuove e sempre spiazzanti, che vanno continuamente reinterpretate e riclassificate, con la consapevolezza che, se pure abbiamo visto giusto in una data fase, tale vista si appannerà nuovamente in un lasso di tempo di durata non prevedibile; e verranno in netta evidenza gli errori compiuti nell’interpretazione della fase precedente, in cui eravamo convinti di star realizzando i nostri progetti, mentre la nostra vecchia prassi ci si mostra adesso in una luce diversa, con tutte le derive impensabili, non predeterminabili a priori, cui essa ha dato luogo.
6. Se quelle appena enunciate sono le coordinate generali cui dobbiamo attenerci nel nostro cammino nel mondo – da persone interessate alla “realtà” di fase, non alle fantasmagorie di cervelli o impazziti o interessati a pescare nel torbido per loro banditeschi interessi – ne risulta immediatamente che la “discesa” dalle categorie astratte, pensate in linea generale, alla concretezza (mai la realtà così com’essa è, ma come invece la interpretiamo per agire nel presente e nel vicino futuro), non è il semplice e cieco, inconsulto, calarsi nella prassi, nel movimentismo più irresponsabile e pernicioso. Occorre un orientamento teorico, non soltanto in generale bensì soprattutto quale teoria di fase, di congiuntura; una teoria che è battaglia, polemica, accesa disputa, una pratica teorica che non fa sconti e a volte può diventare assai acida poiché, soprattutto quando si entra nelle epoche del conflitto policentrico, i tempi si accorciano, le fibrillazioni si accentuano, le mediazioni saltano o ne occorrono di completamente nuove; ed ognuno deve sia essere in possesso della precisa coscienza che ogni realtà (macro e microsociale) è un campo di conflitto, è squilibrio e sviluppo ineguale, sia rendersi consapevole del suo essere portatore soggettivo del movimento squilibrante oggettivo. Ognuno ha dunque una sua responsabilità prettamente individuale, da non nascondere dietro l’inconcludente, e vile, appello alla “calda comunità” di intenti collettivi: quella collettività che è il paravento di chi fugge appunto dalla propria responsabilità, volutamente dimenticando il suo ineli-
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minabile ruolo di portatore soggettivo (e individuale) di dinamiche oggettive di conflitto e di squilibrio.
Il portatore soggettivo, l’individuo umano, non vive però intere epoche storiche, non può calare l’amo delle sue idee più generali se non nell’acqua (fangosa e inquinata da altri portatori soggettivi “nemici”) che sciaborda sulla riva del tempo in cui egli staziona, cercando di pescare quel che trova lì, attorno a lui. Solo il pescatore sognante fantastica sulla fauna che potrebbe esserci a molti kilometri in alto mare, e a profondità insondabili, mentre lui dispone al massimo di una piccola barchetta per spostarsi e, “se ci sta ancora” con il cervello, di qualche rete “appesantita” che riesce a trascinare con un pescaggio di una decina di metri. Stiamo entrando in una fase multipolare, in cui viene in evidenza il conflitto tra diverse formazioni particolari, fra le quali una è ancora il polo più forte, mentre però ne stanno crescendo altre in via di divenire nuove potenze. Nello stesso tempo, è ormai giunta alla fine – senza ancora ricevere onorata sepoltura, il che comporta miasmi velenosi con rischi di epidemie di colera e peste – l’epoca detta, di volta in volta, del movimento operaio, del comunismo, della lotta emancipatrice delle masse lavoratrici e in tanti altri modi, che oggi fanno venire l’orticaria non appena se ne sente ancora pronunciare la mera espressione letterale, non più corrispondente a nulla che non sia la meschinità di stanchi residui ormai “morti al futuro”.
Il problema non è di dimenticare i dominati; sono questi che hanno abbandonato il campo, lo hanno lasciato a piccoli gruppi di nostalgici o talvolta anche peggio. Bisogna ripartire dai dati di fatto esistenti. Non sono io ad essermi inventato che il conflitto tra dominanti è quello nettamente più acuto e dinamico in merito ai prossimi mutamenti d’epoca. La visione (ipotetica, lo tengo sempre ben presente e lo dichiaro a chi mi legge) che ho dei tempi in arrivo, multipolarismo versus policentrismo, mi consente di prevedere che le stesse lotte dei popoli oppressi, in realtà lotte anticoloniali e di liberazione nazionale – rese meno lucide e compatte di quelle di ieri a causa dell’ormai assente prospettiva, pur ideologica, circa la rivoluzione sociale comunista e, dunque, private della loro direzione ad opera delle “avanguardie della classe operaia” munite del “socialismo scientifico”, fonte di vincenti tattiche e strategie non soltanto militari (anzi!) – andranno progressivamente involvendo e “infistolandosi”.
Non cesseranno, queste lotte, saranno sempre endemiche e resteranno quindi quale riserva, a volte importante, dei conflitti geopolitici tra potenze in fase di acutizzazione: non però secondo il modo della continuità, bensì con alti e bassi il cui trend risulterà in crescita. Il tono generale dell’epoca – pochi decenni, non i secoli futuri e nemmeno l’intero XXI secolo – sarà dato da questa tipologia di conflitto (tra potenze, appunto) per cui si giungerà a certe somiglianze con l’epoca del “classico” imperialismo otto-novecentesco. Siamo però ben lontani da quella situazione in cui i leninisti poterono lanciare la parola d’ordine di trasformare in rivoluzione la guerra generale tra le borghesie imperialistiche. Non esistono più i leninisti, è scomparso di fatto il “movimento operaio” (per quanto prevalentemente socialdemocratico) in occidente, non hanno la stessa valenza sociale e politica le masse contadine ancora esistenti nel mondo. Il passato non morde più; immaginarsi un futuro anche solo per l’intero XXI secolo – o addirittura per un periodo indeterminato nei secoli dei secoli – è il massimo dell’inettitudine di gruppetti di intellettuali neoutopisti e di piccole sette di fanatici; alcune delle quali tentano di sfruttare questi sciocchi intellettuali megalomani, sperando di pescare nel torbido di nuove avventure ponendosi come l’ala populista (e soprattutto squadraccia d’azione) di sperate rivoluzioni dentro il capitale.
Pur in un contesto assai diverso, tornano buone certe affermazioni di Marx nel Manifesto del 1848; anzi, in questo secolo XXI appaiono molto, ma molto rafforzate. Ne riporto solo alcune:
“L’importanza del socialismo e comunismo critico utopistico sta in rapporto inverso allo sviluppo storico…..anche se gli autori di quei sistemi erano rivoluzionari per molti aspetti, i loro scolari costituiscono ogni volta sette reazionarie” [corsivo e grassetto miei]; “Non c’è cosa più facile che dare una tinta socialistica all’ascetismo cristiano”; “Il lavoro dei letterati tedeschi consistette unicamente nel concordare le nuove idee francesi con la loro vecchia coscienza filosofica, o, anzi,
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nell’appropriarsi le idee francesi dal loro punto di vista filosofico Con la letteratura francese
profana i letterati tedeschi usarono il procedimento inverso; scrissero le loro sciocchezze filosofiche sotto l’originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti patrimoniali essi scrissero ‘alienazione dell’essere umano’, sotto la critica francese dello Stato borghese scrissero ‘superamento del dominio dell’universale in astratto’, e così via Così la letteratura francese socialista e comunista fu letteralmente evirata. E poiché essa nelle mani dei tedeschi aveva smesso di esprimere la lotta di una classe contro l’altra, il tedesco era consapevole d’aver superato l’unilateralità francese, d’essersi fatto rappresentante non di veri bisogni, ma anzi del bisogno di verità, non degli interessi del proletariato, ma anzi degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, e appartiene soltanto al cielo nebuloso della fantasia filosofica. Questo socialismo tedesco, che prendeva così solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni scolastiche, e tanto ciarlatanescamente le strombazzava, perdette tuttavia, a poco a poco, la sua pedantesca innocenza” [corsivi e grassetti miei].
Abbiamo oggi nuovi “grilli parlanti”, intellettuali ritardatari e disonesti, nonché nuovi gruppetti di “sottoproletari” (da capitalismo avanzato), che li seguono come tante sette religiose (ma spesso, come appena sopra rilevato, con la speranza di entrare in sporchi giochi da cui trarre qualche effimero vantaggio). I dominanti, anch’essi in grande confusione, li alimentano – certo solo in quanto gruppetti minoritari rispetto alle grandi correnti dell’ideologia più consona al loro predominio – per non consentire che si possa rigenerare un pensiero critico-rivoluzionario. Si tratta delle “azioni di disturbo” tipiche di ogni tattica e strategia di forze preponderanti, che ancora non sanno però, nemmeno loro, come attestarsi in posizione favorevole sul nuovo terreno di conflitto in cui sono oggi obbligate a muoversi. Un pensiero critico-rivoluzionario, che si senta quanto meno erede dell’impostazione del “socialismo scientifico”, deve saper prendere atto delle coordinate del tempo attuale, ben conscio però della sua arretratezza teorica che nessuna fantasia soggettivistica, nessuna generica e nebulosa creazione mentale di “soggetti rivoluzionari”, di “masse in movimento” (solo nei cervelli malati di intellettuali o stupidi o mascalzoni), può sanare.
Nessuno deve immaginarsi che mutamenti sociali positivi (per i dominati) vengano volontariamente innescati dalle formazioni particolari oggi potenze o in via di diventarlo nella fase multipolare. Nessuno, con la testa sulle spalle, può credere ad una politica emancipatrice da parte dei competitori – al momento ancora per molti versi solo potenziali – degli Usa. Non c’è Russia o Cina che tenga. Ma nemmeno si deve credere che siano magari gli sciiti iraniani o i talebani, o chissà chi altro dello stesso genere, le avanguardie di una lotta di emancipazione come quella che i comunisti d’antan avevano condotto, tentando “l’assalto al Cielo”. L’appoggio alla Russia, alla Cina, all’Iran o ai combattenti afghani, è comportamento obbligato data l’attuale (e non certo di breve durata) configurazione geopolitica mondiale nella fase di avanzante multipolarismo, che tuttavia è ancora ben lontana dall’essere compiutamente policentrica; poiché allora, e solo allora, sarà possibile pensare a un profondo mutamento di atteggiamento strategico e tattico. Sia chiaro però che, personalmente, sono contro ogni antiamericanismo preconcetto e permanente, come si trattasse del “nemico per tutti i secoli futuri”. Sono decisamente contro un filo-islamismo o filo-arabismo altrettanto demenziale e ottuso, che si schiera addirittura a favore di certi caratteri chiusi, opprimenti, autenticamente reazionari, di quella cultura.
Basta vedere quel che è accaduto in Irak, dove i sunniti erano i più decisi oppositori dell’occupazione americana (con i loro servi europei alleati), mentre ora mi sembra che le loro posizioni siano completamente mutate; e forse lo sono dopo opportune “compere” da parte degli “imperialisti”. E stiamo attenti che non accada la stessa cosa con le varie “tribù” afghane. Solo gli sciocchi nutrono simpatia “senza se e senza ma” per popolazioni infide, che appartengono ad un “evo” pre-moderno, ad un “modello socio-culturale” che è semplicemente ridicolo propagandare nei nostri paesi. Non c’è bisogno di essere così scemi. Si deve chiarire in che senso è utile combattere il predominio, non più incontrastato ma comunque ancora prevalente, degli Usa, favorendo la più rapida
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entrata possibile nel multipolarismo. Sarà già molto difficile spiegare le motivazioni di questa scelta, essendo del tutto prevedibile il disordine crescente che detta fase provocherà, con evidenti effetti negativi sulle condizioni di vita di porzioni maggioritarie della popolazione, soprattutto nei paesi a maggior sviluppo industriale e, dunque, finanziario (i nostri per l’appunto). Complichiamoci ulteriormente la vita divenendo “musulmani” o predicando frugalità e ascetismo o ritorni all’antico e alla Tradizione (premoderna) oppure una semplice violenta opposizione culturale antiamericana; poi staremo a vedere in quale “discarica” finiremo!
Per quanto mi riguarda, sono violentemente critico nei confronti dei gruppi dominanti nordamericani per i genocidi e massacri da loro compiuti fin dall’inizio e nel corso di tutta la storia di quella formazione particolare; comportamento tenuto però da tutti i dominanti in ogni altra epoca e parte del mondo. Tengo comunque conto che apparteniamo alla stessa formazione sociale, a quella che contraddistingue una determinata sfera geografico-socio-politica. Quindi, al di là dell’odio per certe ben determinate caratteristiche dei dominanti, non posso esimermi dal pormi all’interno delle coordinate essenziali di tale formazione sociale; aderire ad altre – verso i cui gruppi dominanti non nutro sentimenti così diversi da quelli nei confronti dei dominanti statunitensi e “occidentali” in genere – mi sembrerebbe di una stupidità tale da vergognarmene terribilmente.
Quindi, per favore, ci si muova non in base ad “antipatie” o “simpatie”, ma fondando invece la propria pratica (anche teorica) sull’analisi “concreta” della “concreta” fase storica in cui ci stiamo inoltrando; sia quest’analisi – eredità preziosa del “socialismo scientifico”, però profondamente trasformata – a guidare la nostra azione e la nostra elaborazione teorica; non invece le fantasticherie umanitarie o le fisime buoniste dei “professori con fantasie filosofiche”, di cui parlava già Marx (e aveva a che fare con personaggi, di fronte ai quali quelli odierni sono solo nanerottoli petulanti pronti a farsi utilizzare, per il loro smisurato e incontrollabile narcisismo, da gruppastri in cerca di nuove torbide avventure).
7. Sull’analisi teorica e l’atteggiamento politico da tenere in merito alla situazione esistente in sede mondiale nell’epoca del previsto multipolarismo, quanto sopra detto serve già a dare sufficienti indicazioni per un orientamento di massima. Siamo favorevoli a tutto ciò che può favorire tale multipolarismo. Ovviamente sarà da spiegare, non però in questa sede, i vantaggi che possono derivare dall’instaurarsi di una fase del genere, malgrado essa sarà caratterizzata da disordini e quindi dal malessere di buona parte delle popolazioni, anche di quelle dei paesi per lungo tempo al riparo da essi, avendo conosciuto un lungo periodo (sessantennale all’incirca) di costante miglioramento delle proprie condizioni di vita. Soprattutto va spiegato come certi processi storici non siano controllabili a piacimento dai progetti, scelte, decisioni, né dei popoli né dei loro gruppi dirigenti (dominanti). Bisogna analizzare la fase per attrezzarsi a divenire i migliori (o meno peggiori) portatori soggettivi dei processi oggettivi, che solo pii desideri e roboanti dichiarazioni ideologiche affermano essere pienamente indirizzabili secondo la volontà di singoli gruppi o addirittura – ingenuità o demagogia vera e propria – di popoli, delle famose masse.
Mi consento un détour metaforico. Un esercito (il fu “campo socialista”) è in rotta totale, anzi si è dissolto; a meno che qualcuno non voglia demenzialmente considerare la Cina e il Vietnam società ancora socialiste o magari Cuba e la Corea del Nord come avanguardie in tal senso. Se ci sono dei matti, lasciamoli pure a discutere fra loro. L’altro esercito, il capitalismo – per il momento ancora “strutturato” secondo quella tipologia di rapporti sociali in riproduzione detta formazione dei funzionari del capitale – sta dominando, perfino attraverso la crisi che sta passando. La lotta endemica contro di esso, che lo colpisce in alcuni suoi reparti posti ai lati del grosso delle truppe, non è al momento troppo preoccupante per tale esercito. Quando viene però a mancare un vero nemico, il vincitore non sa bene che fare, come occupare il terreno in cui avanza o staziona stabilmente, come organizzare le sue strutture atte a questa stabile stanzialità, ecc. Alcune armate dell’esercito cominciano a prendere le distanze da altre, ad autonomizzarsi, a cercare nuove soluzioni anche prendendo
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forza e rendendosi conflittuali verso il corpo maggiore rappresentato dalle altre armate (guidate da quella più grossa: fuor di metafora dagli Stati Uniti).
L’avanzata o anche stazionamento, ma soprattutto il crescente conflitto tra le armate, crea in esse la necessità di organizzarsi meglio all’interno, con particolare riguardo ai reparti d’avanguardia e alle divisioni che formano il “corpo grosso” di ognuna di esse. A tali compiti sono preposti i gruppi di vertice dei migliori comandanti (i maggiori politici e ideologi dei dominanti). Tuttavia, nelle retrovie, restano gruppetti di ritardatari, frammenti di truppe che l’avanzata, perfino il consolidamento su posizioni già acquisite, ma soprattutto il nascente e sempre più insidioso interconflitto tra armate, mettono allo sbando, rendono sempre più sbriciolati e senza orientamento, con crescente mentalità anarcoide e ribellistica. In quella zone vanno allora a farsi le ossa i minori agenti (politico-ideologici) dei dominanti che, fingendosi consentanei e in accordo con la mentalità di tali “frattaglie” ipermescolate e disorganizzate, preparano di fatto squadre di guastatori utili nel caso servano, temporaneamente, operazioni avventuristiche e disgreganti (però al margine), in grado di fornire l’occasione agli alti comandi di avviare dure repressioni autoritarie e disciplinari.
Una parte di questi minori agenti, dopo la “meritoria azione” compiuta, viene ammessa nei gradini della gerarchia più vicini agli alti comandi. Così, in genere, si compiono le rivoluzioni dentro il capitale. Gli inizialmente minori agenti, apparentemente contro i dominanti (tipo le ben note, in altri tempi, “plutocrazie anglosassoni” o la “perfida Albione”, ecc.) vanno tenuti d’occhio perché intingono le loro idee in “pasticci”, non sempre banali anzi spesso abbastanza ben confezionati, buoni per palati abituati ai “mille sapori” confusi, che si costituiscono in “gruppi d’azione”. Le SA di Róhm così si formarono (furono formate); servirono e poi furono evirate perché l’ordine deve infine essere restaurato dopo ogni rivoluzione, di qualunque tipo essa sia.
La Tradizione, la Terra, insomma la premodernità e il ritorno all’antico – in quanto ideologia di unione e compattamento di varie regionalità in Nazione – vengono alla fine messe al completo servizio di dominanti perfettamente consapevoli del fatto che, senza il massimo avanzamento tecnologico indispensabile alla potenza, non si conquistano nuovi orizzonti; chi credesse veramente al premoderno – non ai più avanzati carri armati e navi e aerei, magari con l’aggiunta di V1 e V2 – sarebbe spazzato in men che non si dica. Invece, furono spazzate via le squadre dei “guastatori” (autori di punizioni di massa, di massacri e quant’altro). Certi intellettuali e politici, demandati a guidare e influenzare tali gruppastri, furono ben ricompensati (i più fessi ci rimisero invece “molto”).
Ovviamente, accenno a queste rimembranze d’altri tempi convinto però che le forme di manifestazione di certi processi saranno assai diverse; chi è rimasto a impostazioni teoriche e filosofiche, più ancora ottocentesche che dell’ultimo secolo, non credo abbia più molto filo da tessere. Sono altrettanto convinto, però, che la storia non solo non è in panne, ma riprenderà, su altri cammini, il suo viaggio più incisivo, che è quello intriso di dramma, di tragico. Tuttavia, quella che in non pochi consideriamo – e penso cogliendo nella sostanza, non magari nelle forme, il problema – un’epoca di fondamentale decadenza, che dura da almeno un trentennio e più, è una vera cesura rispetto al passato; come lo fu del resto l’epoca del preteso ultimo stadio (imperialistico) del capitalismo (della formazione capitalistica borghese), della distruzione della ragione (illuministica, ecc.). Questa cesura, cui si riallaccia oggi il cosiddetto ritorno delle nazioni, detto con più precisione il multipolarismo quale transizione al policentrismo, condurrà appunto a nuovi inquietanti eventi critici e, dunque, alla ripresa della “grande” storia, dopo quella “piccola, piccola” di questi tempi grami.
Voglio essere chiaro. Non sono in grado di valutare fino in fondo la gravità dell’attuale crisi economica. Secondo la mia netta sensazione, tutti i commentatori e le Autorità preposte all’andamento produttivo e finanziario sono allo sbando, dicono ora un cosa ora un’altra, manifestando un’abborracciata conoscenza dei problemi di cui trattano. Sarebbe però errato, e dimostrazione di altrettale scarsa serietà, manifestare certezze immarcescibili nella catastrofe, che – lo si nota in un batter d’occhio – sono preconcette e manifestano la solita speranza, non solo da sinistra ma pure da destra (entrambe le “ali estreme”), di uno sprofondamento del capitalismo visto con odio solo perché non si è riusciti ad abbatterlo in altro modo, così come pensavano, ottimisticamente, i
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comunisti marxisti di un tempo ormai lontano. L’atteggiamento degli attuali catastrofisti sulla crisi fa il paio con quello di coloro che profetizzano – ma perché ci sperano tanto per gli stessi motivi – il degrado, o meglio ancora, il disastro ambientale in grado di mettere in ginocchio questa società; i cui gruppi dominanti stanno dimostrando di ben sopravvivere intanto alle “sciagure” ambientali – e all’uso di energie alternative – guadagnandoci non poco; e del tutto capitalisticamente.
Ci sono pure i profeti di sventure che si comportano assai più seriamente, come ad esempio quelli del Leap (francese) – dei cui bollettini periodici abbiamo pubblicato spesso ampie parti – che hanno previsto con anticipo la crisi in atto, l’hanno seguita con una certa competenza, pur se ricordo bene che ne prevedevano la fase culminante per i primi mesi di quest’anno (massimo per Pasqua) mentre adesso hanno spostato il termine all’ultimo trimestre. Deludente poi la lettera inviata dal loro direttore al G20 che si è riunito in questi giorni a Londra. Non per le nere previsioni – su cui si dovrà appunto aspettare la fine anno prima di pronunciarsi – ma per le proposte formulate ai fini dell’uscita dalla crisi. Proposte esclusivamente finanziarie con addirittura l’invito a varare una moneta (stabilita d’accordo tra le principali aree monetarie) cui si dà il nome di Global. Non ho visto gran che di differente dal Bancor proposto da Keynes nel 1942 e bocciato dagli accordi di Bretton Woods, poiché gli Usa – ben sapendo che Inghilterra (e Francia) erano nella realtà sconfitte quasi quanto Germania e Giappone e che dunque essi sarebbero divenuti i “padroni” del campo capitalistico – imposero il dollaro senza tante discussioni (se non alcune per la forma).
Adesso, qualcuno, fra cui il Leap, crede che gli Usa si trovino a mal partito, anche più della UE, e che dunque possano accettare un simile compromesso, implicante la tanto sognata – e mai verificatasi in tutta la storia del capitalismo – cooperazione per il bene comune. Utopia bella e buona: sia che gli Usa escano da questa crisi più malconci e irrimediabilmente indeboliti (come potenza) rispetto agli altri, sia che si manifesti utile, soltanto per qualche aspetto superficiale, la cooperazione, il “siamo tutti sulla stessa barca”. Utopia e, oltretutto, sopravvalutazione del lato economico della crisi, quando l’aspetto decisivo, ma non nel breve periodo, sarà l’entrata nella fase del conflitto policentrico per la supremazia, rispetto alla quale, fin da oggi, le varie potenze – sia quella ancora decisamente più forte, sia quelle in rapida crescita “ad est” – si studiano e molto superficialmente cooperano (spesso, del resto, con nemmeno ben nascoste manovre protezionistiche) dal subordinato punto di vista economico (anzi, ancor più superficialmente, da quello finanziario), non certo da quello fondamentale della potenza militare, del predominio negli spazi aerei, delle sfere di influenza anche terrestri, del perfezionamento dei sistemi comunicativi e apparati elettronici (di controllo o altri).
Se ci fosse autentico spirito cooperativo, sarebbe molto più significativo il non invio di ulteriori truppe Usa in Afghanistan (dovremo anche noi potenziare il nostro contingente di qualche centinaio di soldati), anzi il graduale ritiro da quell’area. Non dovremmo assistere alle mene per tenere sotto controllo un Pakistan infido, per sfruttare i contenziosi cino-indiani e cino-russi in quella zona e nel centro-Asia, ecc. Possiamo essere certi che nemmeno tra area del dollaro e area dell’euro ci saranno accordi realmente ed efficacemente cooperativi1, perché non vi è nessuna intenzione statunitense di lasciar risalire l’Europa verso una maggiore autonomia (a questo fine, allora, più che accordi monetari sarebbe utile lo scioglimento della Nato).
Per concludere, quale che sia la gravità della crisi economica (finanziaria e poi reale), non è questo l’aspetto fondamentale per cui l’attuale periodo storico si presenta quale decadenza di una certa formazione sociale: probabilmente (non lo si può predire con certezza assoluta) quella dei funzionari del capitale. Più decisivo è invece l’affermarsi sempre più evidente del multipolarismo e il preannuncio del policentrismo. Questo il nostro problema cruciale dell’oggi, cui non servono filosofemi vari, ma analisi concrete della fase attuale, dei rapporti di forza geopolitici, intanto, in tale fase. Chi
1 Ho scritto queste righe prima delle “bizze” – poi rientrate – di Sarkozy e Merkel al G20, che denotano differenziazioni (ancora da subordinati) rispetto agli Usa di Obama, che aprono intanto tattiche trattative, accettate con lo stesso spirito, con la Russia e ammorbidiscono l’atteggiamento sui “diritti umani” nei confronti della Cina. Siamo già nel pieno dei movimenti cui il multipolarismo ci abituerà d’ora in avanti.
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sfugge questo problema deve essere considerato un sostenitore degli attuali dominanti e va dunque combattuto; costui predica il ritorno a tradizioni più antiche per lasciare che la decadenza odierna venga guidata dagli agenti strategici del capitale (delle diverse formazioni capitalistiche) verso l’apertura dell’epoca, in cui più acuto diventerà il loro confronto. Coloro che distraggono dall’analisi di fase servono i dominanti, consentendo loro di cercare con tranquillità – mentre i loro servi ideologici disquisiscono su improbabili contrapposizioni (tra antico e moderno, tra crescita e decrescita, ecc.) – la conquista delle migliori posizioni per affrontare lo scontro “finale” senza che nessuno “disturbi il manovratore”. Non saranno certo gli antimodernisti, gli ecologisti, i cultori del “grillo del focolare”, ecc. ad almeno cercare di capire quello che sta accadendo.
8. Come ho appena sostenuto, è intanto necessaria l’analisi dei rapporti di forza geopolitici tra il polo ancora preminente e gli altri di cui cresce la potenza e dunque la capacità di contestazione del primato americano. Si creerebbero assai maggiori fastidi ai dominanti – che non sono semplicemente le classi o gruppi sociali al vertice di una società capitalistica sempre pensata, non dai soli marxisti, nei termini di una formazione sociale in generale, di cui studiare cioè la struttura dei rapporti tra i suoi strati disposti in verticale, mentre è oggi invece decisivo indagare i gruppi al vertice di formazioni particolari in crescente contrasto nel mondo – se fossimo in grado, dopo attenta valutazione del fondamento oggettivo dei conflitti tra queste formazioni, di acuire le loro contraddizioni, favorendo l’avvento più rapido possibile dell’aperto policentrismo. Non siamo in grado di farlo; se lo credessimo, ci comporteremmo come le famose “mosche cocchiere”. Tuttavia, poiché è necessario assolvere come meglio si può il compito ritenuto primordiale nell’epoca in cui si è presenti (cioè vivi e attivi) – che è la fase di gestazione degli eventi futuri più immediati – diventa improrogabile, con atteggiamento politico che prende posizione, approfondire la conoscenza della “realtà” attuale e delle tendenze in essa supposte esistenti per quanto concerne la configurazione dei rapporti di forza a livello mondiale: quella configurazione che, appunto, presumo tenderà al multipolarismo.
Non però ancora al policentrismo; dunque sbaglia chi, con i vecchi schemi della lotta antimperialistica – tipica della fase precedente la prima guerra mondiale – lancia oggi l’accusa di voler favorire un imperialismo contro un altro. Il nostro appoggio, lo ripeto, conta quando il “due di coppe” (“quando la briscola è a spade”); per quel che ci compete, però, l’indagine teorica conduce ad accordare la preferenza a qualsiasi politica in grado di imprimere, direttamente o indirettamente, una spinta oggettiva al rafforzamento delle potenze in crescita contro l’attuale polo ancora predominante (Stati Uniti). Lo ribadisco: senza alcun preconcetto antiamericano, che non mi appartiene, avendo sempre avuto apprezzamento per questo paese, per la sua cultura (alla quale mi sono abbeverato); non invece, mi dispiace, per la sua “democrazia”, una invenzione ideologica dei nostri dominanti europei, servi di quelli americani. Né tanto meno per l’arroganza e lo spirito di sopraffazione, che raggiungono i loro vertici massimi proprio nella politica statunitense e in quella del suo sicario prediletto: Israele. Nemmeno mi faccio incantare da “San Obama” e dai necessari adeguamenti tattici in quest’epoca in cui è fallito il disegno “imperiale” di quel paese.
Ancora una volta si constata come ogni teoria non debba affermare, rigidamente, principi generali avulsi dal contesto specifico dell’epoca in cui ci si trova ad agire e a fare quindi politica, di cui è parte integrante la pratica teorica in quanto lotta schierata, combattuta in base ad una netta scelta di campo; una scelta però oculata, orientata dalla ragione che deve analizzare, sia pure nel solo modo in cui è capace, cioè tramite ipotesi, il campo in cui si combatte e le forze in campo in quella particolare fase. Se fossimo già nel policentrismo, le scelte da compiere sarebbero certamente diverse e, probabilmente, differenti sarebbero pure gli schieramenti in campo. Nel multipolarismo, bisogna sapere appoggiare a volte politiche che, di fatto, favoriscono certi dominanti contro altri. Tale decisione è però anche condizionata, resa inevitabile, dalla “struttura” dei rapporti sociali che, sia nelle formazioni particolari del capitalismo detto avanzato (sviluppato) sia nelle aree ancora poco capitalistiche (comunque non industrializzate), ha subito trasformazioni radicali, ben poco conosciute per il ritardo accumulato da tutte le teorie sociali e, in modo speciale, da quella – il marxi-
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smo, nella versione leninista – che aveva guidato le lotte rivoluzionarie nella precedente fase storica, quella del policentrismo denominato imperialismo tra otto e novecento.
Chi si dedica ad astratte esercitazioni di marxismo fossilizzato in dottrina chiesastica, chi torna addirittura a teorie di stampo premarxista, utopista, contro ogni modernità, con la pretesa di far girare all’indietro la ruota della storia, va espunto dal campo dei nostri orizzonti teorici e politici. Nessun contatto vada mai più stabilito con simili individui e gruppastri, del resto non sempre in buona fede, poiché spesso, come sopra rilevato, assumono un compito di retroguardia a favore delle prevalenti forze politico-ideologiche dei dominanti. In ogni caso, credo che questo blog-sito sia compatto nel non voler alcun rapporto con individui e gruppazzi così ambigui, e che hanno la sola intenzione di far perdere tempo alla possibile riformulazione di un pensiero critico-rivoluzionario.
Nessuno ha intenzione, per principio, di espungere dal discorso analitico gli strati sociali dei dominati. Nessuno afferma che essi non contano nella storia; o che, sempre (un termine che dovrebbe essere espunto dal linguaggio sia teorico che politico), questa storia è solo storia di lotte tra dominanti. Non ci sono principi da affermare in generale e con mero spirito di sistema. Certamente, è pratico sforzarsi di conseguire una certa sistematicità, poiché l’ordine è essenziale per muoversi perfino nel semplice campo interpretativo, che è poi la base delle stesse previsioni su cui dovranno fondarsi nuovi progetti. Tuttavia, se la sistematicità e l’ordinamento di certe ipotesi hanno uno scopo essenzialmente pratico, ai fini dell’azione (politica), bisogna capire quando tale sistematicità diviene puro dogma, cristallizzazione di ciò che è ormai irrimediabilmente superato. Lo ribadisco una volta di più: dobbiamo assumerci la nostra responsabilità di portatori soggettivi dei processi; da questo a crederci però “costruttori” del mondo reale, ce ne corre. Per me, chi così ragionasse è semplicemente fuori di testa; ha studiato troppo ed è “schizzato”.
Nulla si realizza mai così come noi l’avevamo pensato, ipotizzato, previsto. L’aleatorietà del mondo è l’unico atteggiamento a mio avviso sensato per chi non crede di essere Dio. Tuttavia, non possiamo muoverci nel mondo, esercitare le nostre pratiche, senza imporci un ordine e un sistema, della cui transitorietà essere però sempre consci. Dobbiamo proporci come soggetti e comportarci di conseguenza. Tale posizione conosce tuttavia differenti atteggiamenti di fase. Oggi dovremmo essere consci che un vecchio ordine (teorico-pratico) è caduto e siamo in transizione verso qualcosa di assai diverso, ma che ci lascia ancora ampiamente in scacco. Cominciamo con l’abbandonare i vecchi ordini e sistemi, divenuti autentiche fisime, ormai solo degli abitudinari tic mentali.
Prendiamo atto che non esistono le classi; tanto meno semplicisticamente definite, e polarmente divise, con riferimento alla mera proprietà o meno dei mezzi di produzione. Per il momento, siamo obbligati a indicare genericamente i raggruppamenti sociali, quando usiamo classificazioni di notevole ampiezza, o i gruppi, in senso più ristretto. Utilizziamo spesso i termini dominanti e dominati, ma dobbiamo essere consci che si tratta di linguaggio assai fumoso e impreciso. Non esiste una così netta divisione in verticale della società, non esistono soprattutto soltanto due raggruppamenti considerati quelli “essenziali” perché in presunto irriducibile antagonismo.
Per questi motivi, è importante cominciare a fare intanto distinzioni all’interno dei dominanti, sia per quanto concerne la sfera sociale di pertinenza (economica, politica, ecc.) sia, ancor più, con riferimento alla loro appartenenza a diverse formazioni particolari (semplificando: paesi o nazioni), senza quelle banali semplificazioni – prolungamento della tesi, ormai “falsificata”, della fine degli Stati nazionali – che considerano la classe dominante unificata a livello mondiale; un’unificazione fondata su autentiche sciocchezze quali l’inglese comunemente parlato, certi generali gusti e consumi di lusso, certe abitudini di vita, certi luoghi di frequentazione, ecc. Il francese era comunemente parlato, e Parigi con il suo train de vie da bell’époque era il luogo più frequentato, dalle borghesie imperialistiche che poi si affrontarono con inaudita violenza per la supremazia.
In una fase che si avvicina – o almeno suppongo si avvicini, in tempi non brevi ma nemmeno secolari – all’effettivo policentrismo, torna in evidenza l’analisi delle nuove fratture e scontri tra i dominanti delle varie potenze: quella ancora preminente e quelle in crescita. Un ulteriore motivo di interesse per questo tipo di contraddizioni sta nelle più che sensate affermazioni dei due maggiori
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rivoluzionari del XX secolo, Lenin e Mao, secondo cui la lotta contro i dominanti ha maggiori probabilità di affermarsi non dove è più forte il “proletariato” (usando la loro terminologia, certo di un altro tempo), bensì dove è più debole la “borghesia”, cioè i vari gruppi di dominanti in conflitto. Nel momento attuale, mi sembra assai evidente sia il forte dinamismo impresso al (caos del) mondo dal più o meno sordo o aperto urto tra quei dominanti che rappresentano le diverse formazioni particolari divenute, o in via di divenire, potenze; sia l’altrettale caos e dinamismo legato alla “competizione” (in effetti, vera conflittualità in fasi critiche come questa) tra i dominanti interni alle diverse formazioni particolari.
Usare il termine dominanti non deve dunque indurre nell’errore di pensare all’esistenza di un unico e generico raggruppamento sociale, in conflitto con i dominati (termine egualmente generico e onnicomprensivo). La vecchia terminologia – borghesia capitalistica contro proletariato o classe operaia, ecc. – sottintendeva un’enfasi eccessiva posta sul modo di produzione (sia pure sociale) capitalistico; metteva in rilievo solo il carattere proprietario (dei mezzi produttivi) dominanti, lasciando in ombra la loro preminente funzione di agenti strategici del conflitto per la preminenza. E’ dalla decisione di illuminare tale aspetto principale che deriva la necessità di articolare in modo assai differente i rapporti tra i suddetti agenti, appartenenti a sfere sociali diverse (semplificando: economico-finanziaria, politico-istituzionale, ideologico-culturale), senza presupporre una generale e sempre esistente prevalenza di quelli di tipo economico.
Quanto affermato non toglie affatto valore all’indagine della strutturazione (spesso interconflittuale) del raggruppamento genericamente indicato come dominati, abbandonando però, anche qui, il privilegiato riferimento ad una presunta Classe degli operai (che poi, nel marxismo successivo a Marx, fu ridotta a semplici “tute blu” ), sempre puntando poi in realtà sulla radicalità della lotta soltanto sindacale, indicata come conflitto capitale/lavoro, da cui non è mai risultato alcun rivolgimento decisivo della formazione sociale capitalistica. E’ ora di dire con nettezza che anche il passaggio “interno” (definiamolo per il momento così) tra formazione capitalistica borghese e quella dei funzionari del capitale non deve molto al confronto sindacale, quello travestito ideologicamente da lotta antagonistica tra capitale e lavoro. E non è a quest’ultima che si dovrà l’entrata nel futuro policentrismo con probabile ulteriore passaggio ad un’ancora differente formazione sociale; sulle cui caratteristiche è però inutile arrovellarsi adesso, poiché sarà necessario un altro regolamento di conti generale e l’affermarsi, assai lontano, di un nuovo monocentrismo.
Concludo con un’ultima notazione. Uso i termini dominanti e dominati, ma con imprecisione e dunque malvolentieri. Meglio sarebbe servirsi, come altre volte ho proposto, di quelli di decisori e non decisori, sempre con l’avvertenza di non farne il mezzo per una semplicistica visione dicotomica della società, implicante la stolta credenza in un possibile scontro frontale che è la visione fantasiosa di certi “rivoluzionari” assai sempliciotti. Decisori e non decisori sono composti di vari gruppi fra loro interconflittuali. Ci sono congiunture storiche in cui essi tendono a coagularsi in fronti contrapposti, ma i decisori non sono mai soli a combattere contro gli altri; storicamente non è mai stato così, giacché le “armate” dei decisori o dominanti sono per la maggior parte composte di appartenenti allo schieramento che dovrebbe essere loro contrapposto. Chiunque voglia capire qualcosa di una rivoluzione deve tener conto di tale questione così elementare.
L’uso dell’espressione decisori/non decisori consente pure un altro vantaggio. Chi pensa esclusivamente al conflitto capitale/lavoro (borghesia contro operai o proletariato) è incappato spesso in semplificazioni tali da oscurare le strategie, mai fissate in principi solo generali, impiegate nel corso di questa lotta. Poiché, secondo la vulgata (falso)marxista si verifica – da sempre e per tutta l’“eternità” futura – la centralizzazione dei capitali, considerata quale mero passaggio al monopolio (forma di mercato), i “marxisti” economicisti si sono intestarditi nel voler credere che, alla fine, sono 100-150, magari perfino 50 e comunque pochissimi, i capitalisti (monopolisti) che decidono le sorti dell’intera umanità: una società mondiale divisa in innumerevoli formazioni particolari!
Le decisioni esigono sistemi strutturati e apparati decisionali piuttosto complessi; non tutti formati da reti relazionali fra loro simili e organizzate secondo le medesime regole. Appare in partico-
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lare rozza e semplicistica la regola che tutto decide chi ha maggiori ricchezze o, comunque, una maggiore potenza economica e finanziaria. Non si deve più perdere un solo minuto con certi “marxisti”, residuati di epoche tanto passate da sembrare ere geologiche. I sistemi decisionali sono formati da migliaia, perfino da decine e centinaia di migliaia, di individui stratificati in base a ruoli e funzioni di vario grado e livello di decisionalità; ogni strato di ruoli, inoltre, comprende numerosi segmenti tra loro differenziati quanto a tipologia funzionale (nelle diverse sfere sociali). Spesso, le diverse strutture decisionali riescono ad affermare particolari condensazioni ideologiche, che riescono a compattare dati blocchi sociali (di cui fanno parte strati e segmenti di non decisori) sotto l’egemonia di determinati gruppi di agenti decisori.
Per quanto l’analisi teorica serva generalmente a semplificare il quadro dell’ipotizzata struttura dei rapporti sociali, tale atteggiamento semplificatore è particolarmente nocivo nelle epoche di transizione, in cui il flusso (reticolare) di detti rapporti è in netto movimento e trasformazione; ogni eccessiva semplificazione è dannosa e “appanna la vista”, mai però quanto restare alla vecchia “visione” che rende ormai ciechi. Anche se una situazione di crisi e di crescente malcontento può compattare vasti raggruppamenti, per periodi transitori, è bene non perdere di vista l’esigenza di una più particolareggiata analisi. Il malcontento che va generalizzandosi – non certo per presunte acquisizioni di una inesistente “coscienza di classe”, dichiarata ancor oggi da gruppetti di scadenti ideologi e di mestatori di professione scarsamente intelligenti e sempre bastonati, ma per la perdita di precedenti posizioni di benessere che si intende riconquistare – favorisce di solito quella che ho genericamente indicato quale rivoluzione dentro il capitale, alla fine guidata da particolari gruppi di decisori, abili nel mettere in piedi nuovi sistemi decisionali mediante opportune forme di egemonia in grado di sconvolgere i vecchi blocchi sociali. E nei nuovi blocchi, non meno che nei vecchi, affluiscono larghe masse di non decisori, spesso assai radicali e violenti nel combattere le vecchie forme ed egemonie sociali1.
In questo tornante storico, che si preannuncia complicato e largamente aperto a mutamenti erratici – dove la casualità dei mutamenti storici, del tutto ineliminabile, è però enfatizzata dall’uso degli strumenti teorici non rinnovati di cui si dispone – vi sarebbe bisogno di stretta collaborazione tra pratica teorica di fase e rinnovate analisi sia geopolitiche (per la comprensione dell’attuale evoluzione delle relazioni tra formazioni particolari) che delle strutture, in mutamento, dei rapporti tra raggruppamenti (e gruppi) nelle diverse aree geografico-sociali (comprendenti dati insiemi di formazioni particolari relativamente simili). Ovviamente, per quanto ci concerne, dovrebbe essere approfondita la struttura dei rapporti sociali (economici, politici, culturali) nel nostro paese, dedicando inoltre speciale attenzione alla sua storia: in particolare quella del dopoguerra e degli ultimi anni, quelli successivi alla dissoluzione del “campo socialista” e del mondo bipolare. Altre “chiacchiere”, possiamo risparmiarcele; sono frutto di impostazioni tanto generali, ultrasecolari o addirittura “eterne”, tipiche dell’atteggiamento megalomane di chi si crede onnisciente e onniveggente. Come c’è chi crede d’essere Cesare o Napoleone, esiste pure chi si crede Dio.
Mi auguro che sia possibile impostare, con varie persone di buon senso, un lavoro più fruttuoso di quello svolto finora. I tempi stringono!
Aprile 2009
1 La si smetta di far finta di non sapere che nazismo e fascismo – e le altre forme derivate –— seppero (e sanno) conquistare larghi strati di “operai” oltre che di “sottoproletari”, che sono fra i più decisi nel portare a fondo operazioni di sfondamento delle vecchie forme sociali, ma non certo in direzione del comunismo, il quale vinse –— dimostrandosi poi incapace di transizione alla “società senza classi” –— in paesi a stragrande maggioranza contadina, per i motivi già più volte messi in luce.
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