NON CADIAMO NELLE SOLITE TRAPPOLE di Giellegi il 20 feb 12

1.Personalmente mi schiero, anche se in modo un po’ particolare che illustrerò subito appresso, con AM; e resto sorpreso di come alcuni lettori di questo blog siano caduti nella trappola rappresentata dalla scelta relativa alle Olimpiadi del 2020, che è, al di là dell’occasione specifica, in carattere con le altre di questo governo, assai coerenti nel deprimere l’intero sistema per condurlo alla più completa complementarietà con i padroni, di cui i “sobri” seguono supinamente le operazioni tese a sfibrare e rendere pantanosa ogni area sociale in cui poter allungare i propri tentacoli. Sia chiaro che a me non interessa minimamente lo sport, non lo seguo né pratico più, grosso modo, da quando avevo venticinque anni (non ho alcuna intenzione di vantarmene, è solo una constatazione).

Intanto, proprio esulando dal problema sportivo, mi rivolgo a coloro che ogni tanto rispolverano Keynes contro le scelte liberiste governative (non solo di questo governo e non solo in Italia). Ho visto citata proprio in questi giorni in Facebook l’intervita radiofonica del grande economista nel 1933; che in questo blog è già apparsa almeno un paio di mesi fa. Vorrei ricordare che, da qualche parte, costui scrisse – per paradosso, ma per ribadire comunque la sua concezione – che sarebbe stato persino utile impiegare operai a scavare buche e poi ricoprirle. Tutti citano scandalizzati le Olimpiadi del ’60 a Roma, fonte di sprechi, di lavori infrastrutturali, di edifici, ecc. lasciati all’incuria del tempo. Non credo per nulla (ero già pienamente adulto all’epoca e la ricordo bene) sia stato tutto così negativo come si sostiene, ma non nutro alcuno sfizio di svolgere una ricerca circa la percentuale degli investimenti di allora che hanno dato vita ad opere restate poi inutili. Il problema centrale è: costruire un ponte, una strada, un edificio, ecc. è più inutile (e spreco di soldi pubblici) che scavare buche e poi ricoprirle, qualunque sia poi stata la fine di quanto posto in essere?

Ovviamente le ricette keynesiane volevano semplicemente aumentare la domanda, in quanto l’economista inglese era convinto che dalla sua carenza derivasse l’innesco della crisi (e già questa tesi, comunque, è un merito almeno di fronte a quelli che terrorizzano la “ggente” con i crolli di Borsa, i titoli “tossici”, ecc., il tutto dovuto all’atteggiamento dei finanzieri che sono “cattivi” per natura; per alcuni maniaci, poi, se sono pure ebrei non c’è più altro da aggiungere). Ovviamente, la domanda era da Keynes considerata un volano dell’economia in quei sistemi che avessero potenzialità produttive rimaste inutilizzate, “disoccupate”; dove questa disoccupazione non doveva riguardare solo la forza lavoro (secondo l’abitudine dei limitati “critici” anti-sistema odierni, che oltre ai salariati e al loro conflitto con il capitale non vedono nulla di nulla in una qualsiasi società nazionale), bensì anche i mezzi di produzione, cioè la possibilità di riapertura delle “fabbriche”, più in generale dei centri di produzione (di beni e servizi) che prima erano stati chiusi, appunto, per la caduta della domanda.

Quando nel dopoguerra si tentò di applicare tale ricetta a dati paesi sottosviluppati – dove la frantumazione sociale provocata dall’opera dei colonialisti aveva creato forte inurbamento di masse contadine in orrende periferie cittadine – l’insuccesso fu netto perché di forza lavoro ormai “sciolta” dalla campagna ce n’era a iosa, ma non vi erano fabbriche e altri centri d’occupazione; e mancavano pure le infrastrutture necessarie a lanciare un’economia di tipo mercantile cui ormai stavano soggiacendo, almeno tendenzialmente, quelle società arretrate. In Italia, nel 1960 esisteva una simile situazione? Non scherziamo, eravamo già entrati nel periodo del boom (1958-63 all’incirca). E oggi, a maggior ragione, manchiamo forse di potenzialità produttive? Perfino dal centro-destra, in chiave liberale e liberista, si è protestato contro l’ultima manovra montiana, composta per il 90% di entrate dovute a maggiorazione del carico fiscale, con ulteriore decurtazione del reddito e conseguente diminuzione della domanda (privata) già fiacca. Se a questo aggiungiamo il terrorismo del debito e dello spread, ecc. per preparare una riduzione della spesa pubblica (soprattutto per investimenti vari, non militari però), l’effetto depressivo sull’economia è garantito. Infatti siamo in recessione, che i dati Istat – esattamente come per l’inflazione – rilevano in modo riduttivo.

Del resto, vi sono altri indici precisi dei motivi effettivi, e nascosti, per cui è stata presa la decisione di risparmiare i nostri soldi; altrimenti sprecati, si sostiene, mentre siamo assillati dal problema (pur esso enfatizzato ad arte) del debito e del deficit annuale. Oltre a impedire, con tale risparmio, la corruzione, i favori fatti ai palazzinari romani, ecc. Non a caso, se i politici del Pdl hanno dovuto lamentarsi della decisione – non Berlusconi, ormai in pieno appoggio al governo per la cui messa in sella, a causa della fifa presa, è stato pieno complice di Napolitano e dunque, di fatto, di “padron Obama”; e oggi è reo confesso di tale autentico scempio della nostra sovranità – è perché devono tener conto dei loro elettori distribuiti in tutte le regioni d’Italia. Tuttavia, i giornali di tale schieramento (Giornale e Libero, con i loro direttori in primo piano) sono stati molto soddisfatti di Monti in simile occasione; e lo stesso dicasi della Lega che ha rispolverato il “Roma ladrona”, ha ricominciato con la solfa del centro-sud mantenuto e palla di piombo al piede di quella bella macroregione (interstatale) che sarebbe il nord Italia (soprattutto ad est) assieme a Carinzia, Baviera, ecc.

2. Quali sono questi indici delle menzogne raccontateci? Intanto che si sono “risparmiati” soldi per poi acquistare gli aerei da combattimento americani, che non solo costano ma ci legano militarmente sempre più al carro di quel paese; non a caso, i francesi – i migliori sicari degli Usa per quanto riguarda l’aggressione e lo sfacelo della Libia – e i tedeschi hanno i loro aerei da combattimento (rinvio comunque all’intervista concessa da Gaiani a Scalea su questi argomenti). E non si tratta solo di acquisto di materiale bellico che ci rende dipendenti, ma dell’aver dovuto rinunciare ad una serie di affari, tipo vendita agli Usa di elicotteri e altro materiale per cui esistevano fior di contratti. Si tratta allora di soldi risparmiati ma “sprecati” in altra direzione? Tolti alle Olimpiadi per darli ai nostri “padroni”? Non precisamente. Non abbiamo a che fare con soldi spesi (e che gravano sul famoso debito, il deficit, e dunque lo spread, ecc.), da una parte (per acquisto aerei), e con soldi non introitati dall’altra (vendita di elicotteri, ecc.). Abbiamo semplicemente dimostrato il nostro servilismo e quindi “i meriti” conquistati (ma dai “cotonieri” italiani a spese della maggioranza del paese) nei confronti degli Stati Uniti, accettando di caricarci di spese e di alleviare invece le loro. Lo ripeto: non conta però tanto la somma spesa (da noi) o non sborsata (da loro) quanto l’acquiescenza ai progetti statunitensi in un momento di loro decisa riformulazione delle strategie geopolitiche a livello mondiale.

Non a caso un giornalista, che in altre occasioni abbiamo parzialmente apprezzato (Giacalone), ha con la sua lucidità messo il dito sulla piaga; per lui si è trattato di buone mosse di tipo bellico (e di fedeltà all’“Alleanza atlantica”), con riguardo sia all’acquisto degli aerei sia con il non ridurre le spese delle nostre missioni all’estero, in particolare quella in Afghanistan dove ce ne andremo solo quando si ritireranno anche gli Usa (la cui strategia è chiaramente orientata allo sganciamento da quell’area, ma con cautela), mentre invece la Francia sta completando il ritiro e la Germania non ha mai inviato truppe. Dice Giacalone – nell’ambito dell’attuale polemica della nostra stampa e politica contro Sarkozy e Merkel, polemica atta solo a stornare l’attenzione dal nostro essere servi di ben altro “padrone” – che dovremmo far valere presso gli Usa, e contro le suddette nazioni, la nostra “buona volontà” (di servizio, dico io) al fine di ottenere vantaggi economici e politici, quei vantaggi che erano in ribasso (almeno rispetto alla Francia) durante l’aggressione e il massacro della Libia. Quindi, lo ripeto: non sono stati soldi “sprecati” (in materiale bellico e missioni militari all’estero); per certuni dovremmo invece farli valere chiedendo agli Stati Uniti un posto da “camerieri di primo rango”, mentre siamo ancora “sguatteri”.

Altro indice: sia per una Olimpiade che per una Expo è ovvio che i soldi cominciano ad essere sborsati con anticipo di anni. Tuttavia, le Olimpiadi di cui si parla cadevano fra otto anni. Questo governo di mentitori ci rompe i timpani, sostenendo che ormai siamo sulla via del risanamento. Se qualcuno mi dice qualcosa del genere, io ne traggo la conclusione che, al massimo entro un biennio (e sono largo di manica), l’Italia sarà in netta e decisa ripresa quanto a crescita economica (lasciamo correre lo sviluppo che è altra cosa ancora). Se così si prevede, e se si afferma nel contempo che è stata molto ben impostata la lotta all’evasione fiscale (altro tormentone che ha del comico se non fosse tragico per i poveri tartassati), non si dovrebbe enfatizzare il problema del debito e del deficit, continuando a parlare di manovre pazzesche (e ultradepressive per i motivi già sopra addotti) per i prossimi 10, forse perfino 20, anni. Con la crescita, e con il recupero dell’evasione, crescerebbe pure l’introito fiscale e si dovrebbe perciò guardare al problema della spesa con maggiore tranquillità. Al massimo, si potrebbe programmare una serie di uscite molto contenute fino, che so, al 2015-16, per poi accentuare l’allargamento dei cordoni della borsa tra questa data e il 2020. Invece, nulla, siamo e saremo sempre in ristrettezze, dobbiamo risparmiare (cioè spendere a favore degli Usa) e prepararci a nuovi salassi; quindi l’incoerenza delle chiacchiere sulla “sana e robusta ripresa” si palesa; ma solo ad occhi non foderati di prosciutto come quelli dei “padani” e dei “moralisti” anti-corruzione, ecc.

3. Andiamo alle questioni di fondo. Mi sono ormai mille volte permesso, da “picciol uomo”, di criticare il grande economista (Keynes), che aveva teorizzato in forma brillante e sistematica quanto era stato eseguito con spirito pratico durante il New Deal roosveltiano (dal 1933 in poi, mentre la decisiva opera teorica dell’inglese è del 1936). Non si può negare che la spesa pubblica del New Deal sia servita a qualcosa; almeno nei primi tempi ha contribuito ad alleviare la crisi e a rimettere in moto un meccanismo inceppato da anni e soprattutto nel 1932. Tuttavia, malgrado l’economista avesse anche una preparazione politica (e ampi collegamenti con tale sfera, non era certo un “topo di biblioteca” avulso dalla realtà mondana), mi è sembrato che avesse troppo confidato nei meccanismi economici. Nel ’36 la crisi era di nuovo all’ordine del giorno, pur se non con la virulenza precedente, e continuò strisciante anche negli anni successivi; non a caso alcuni economisti (tipo Alvin Hansen, convertitosi al keynesismo) svilupperanno tale discorso estendendolo al lungo periodo e formulando le varie teorie stagnazioniste (smentite ampiamente nel dopoguerra).

Solo la seconda guerra mondiale fece uscire decisamente dalla crisi, lanciando il mondo in una avventura ben più drammatica. I keynesiani, anche uno Sweezy che poi divenne in qualche modo marxista, interpretarono il fatto sempre negli stessi termini: la guerra aveva teso al massimo lo sforzo produttivo d’armi. Quest’ultimo aumenta il reddito e dunque la domanda (compresa quella di investimenti per la produzione bellica) mentre non ingorga i mercati con l’offerta di beni che, essendo appunto armi, prendono un’altra strada e vengono fra l’altro in buona parte distrutti. Poi ci furono gli immani danni della guerra che richiedevano riparazione e ricostruzione, ecc. Mi sono sempre permesso di avanzare qualche dubbio su questa tesi, quanto meno di ritenerla solo una parte (e non la più rilevante) della verità circa la ripresa economica, che è stata lunga e ha conosciuto momenti critici ridefiniti recessioni per segnalare che nulla avevano a che vedere con la “grande crisi”; fino, in fondo, al 2008 quando qualcuno ha fatto paragoni con la stessa o comunque ha sostenuto che si sta trattando della più grande crisi dopo quella di allora.

A mio avviso, come spero una parte dei lettori sappia, la crisi assunse nel dopoguerra (e a lungo) aspetti meno sconvolgenti, non mettendo in netta sofferenza le economie (in quanto intelaiatura delle società) capitalistiche, perché il regolamento dei conti aveva creato, nel campo costituito da queste ultime, un nuovo monocentrismo fondato sugli Stati Uniti, in qualche modo regolatori dell’insieme. Il mondo bipolare, oggi lo si può meglio constatare, ebbe due effetti. Da una parte, il campo detto socialista contribuì a rafforzare la situazione monocentrica dell’altra area. D’altra parte, il “socialismo” fu in realtà un fallito tentativo di “costruire” (verbo quanto mai significativo) una formazione sociale diversa da quella dei funzionari del capitale, in grado di dare corso ad un tale sviluppo delle forze produttive da mettere in asfissia e progressivo superamento l’antagonista. Quest’ultimo vinse invece nettamente la sfida proprio sul piano dello sviluppo e, alla fine, restò quindi il semplice monocentrismo, con tuttavia una serie di potenze collaterali, in crescita malgrado le difficoltà del momento presente, che di fatto hanno sregolato nuovamente il “mondo globale”, un mondo tutto sommato basato sul mercato e sull’attività, fondamentalmente “anarchica”, che in questo svolgono i vari centri produttivi.

Se qualcuno ha compreso il mio testo (ancora molto imperfetto, senza dubbio) Puntualizzazioni teoriche, sa che oggi ritengo improponibile pensare all’avvento di una società in cui la cooperazione (tra “produttori”) superi in forza e rilevanza il conflitto tra più centri (politici, economici, ideologici), i quali impiegano la politica in senso specifico – una serie di mosse in date sequenze non deterministiche, costituenti strategie di lotta – per conseguire la vittoria e affermare la propria supremazia; una lotta implicante pure alleanze, ma solo subordinate alla più opportuna conduzione della stessa. Non esiste coordinamento da un centro che non sia infine “logorato” dai continui squilibri che si creano dando corso a tensioni e antagonismi. In un “mondo”, in cui si vada sviluppando il conflitto e che si renda quindi via via più caotico, i vari centri da cui promana la politica devono adattarsi alla situazione e agire di conseguenza in base alla loro più o meno rilevante potenza.

4. Oggi, si dibatte sul fatto se gli Usa sono o non sono in declino. Non dico che si tratti di dibattito inutile (anzi), ma non è al momento decidibile in un senso o nell’altro; tanto meno in conformità a schemi semplici quali l’importanza o meno della finanza (mero strumento delle strategie della politica) in questa fase storica. Nel 1880-900, diciamo, non era ancora decidibile in modo sicuro e non più contestabile che l’Inghilterra fosse in declino. Si dovette aspettare come minimo la prima guerra mondiale; e tuttavia, anche dopo e fino alla seconda, vi furono dubbi su tale declino: sia tra le potenze antagoniste (fascismo e nazismo le concessero fin troppa importanza, uno dei motivi del probabile “abbindolamento” di Hitler da parte di Churchill, con sottovalutazione degli Usa e dei loro progetti in Europa, l’errore madornale dell’aggressione all’Urss, ecc.) sia nella stessa Inghilterra, che tentò perfino un ultimo sussulto (agonico), assieme alla Francia, nel 1956 provocando la “crisi di Suez”.

Nell’ultimo quarto del secolo XIX fu ben visibile il disordine mondiale, l’acuirsi delle contraddizioni tra potenze (e subpotenze), non però ancora tutte sullo stesso piano di forza e “risorse” disponibili (comprese le aree coloniali, le più vaste essendo sempre quelle inglesi). Iniziò la lunga crisi di depressione, in cui vi furono comunque tumultuose innovazioni tecniche e di prodotto, vi furono guerre “locali” di assestamento, ecc. In tale contesto, si sviluppò gradualmente il multipolarismo (per arrivare infine al reale policentrismo, foriero della prima guerra mondiale), e i vari paesi giocarono le loro carte in esso, senza troppo chiedersi – nel mentre sviluppavano la loro politica di conflitto; ricordo che questa interessa tutte le sfere dell’agire sociale e non la sola sfera così denominata, quella che fa capo principalmente al sistema di apparati detto Stato – se l’Inghilterra fosse effettivamente in tendenziale declino “secolare” (ancora dava ben filo da torcere e mollava le sue belle legnate).

In una fase storica del genere, va attentamente valutata la forza che è possibile mettere in campo, ben sapendo che quest’ultima può essere concentrata in un dato punto di emanazione della stessa oppure deve trovare, tramite il sistema delle “alleanze” e dunque con una qualche distribuzione tra più punti, il modo di essere accresciuta e più adeguatamente coordinata; sempre avendo consapevolezza che le alleanze non sono mai sicure nella situazione di costante squilibrio in atto, e che un sistema di centri alleati non ha la stessa sicurezza della sua forza rispetto ad un centro sufficientemente compatto nella sua unità che, piaccia o meno (soprattutto agli “internazionalisti”), è ancor oggi di tipo nazionale. Venendo ad una questione più attuale, l’idea dell’Europa Unita è rimasta appunto un’idea. Gli organismi messi concretamente in piedi, quelli della sedicente Unione europea, giocano di fatto contro la forza dei singoli Stati, perché risentono della presenza militare della Nato (e la potenza bellica conta, eccome, è il fattore decisivo d’ultima istanza); questi organismi, definiti europei con involontario umorismo, agiscono dunque in sostanza come propaggini e longa manus degli Stati Uniti.

E’ dunque evidente che un paese europeo, se vuole mantenere un minimo di autonomia nell’attuale mondo caotico – in cui agiscono fuori della nostra area sia la più forte potenza mondiale sia quelle “potenzialmente” sue concorrenti – deve (diciamo dovrebbe) innanzitutto saper giostrare fra le contraddizioni di tali potenze, lavorando progressivamente alla dissoluzione degli organismi ormai legati alla prospettiva della permanente dipendenza europea dagli Usa, e iniziando a saggiare le mosse per un progressivo avvicinamento (e alleanza) tra i più importanti paesi della zona. Tra queste mosse, le prime possono tuttavia anche non essere immediatamente indirizzate alle alleanze in detta zona; magari, per un certo periodo di tempo, conviene utilizzare vie traverse collegandosi a paesi oggi interessati a contrastare la predominanza statunitense. In questo senso, il nostro blog aveva considerato con favore, pur sapendo bene che erano resi ambigui e deboli da interessi personali o quasi, alcuni legami dell’Italia con paesi come la Russia. Oggi, comunque, è una prospettiva tramontata; e la velocità della sua sconfitta dimostra la labilità delle forze che vi stavano dietro. Ciò non toglie che quella via dovrebbe essere riproposta da ben altra politica e da ben diversi personaggi.

E’ un discorso che dovrà impegnarci a lungo in futuro, qui mi basta solo dire un cosetta semplice semplice. Se il risparmio di spesa in una direzione è utilizzato in altre direzioni, è necessario valutare quale di queste implica maggiore o minore atteggiamento servile (o invece autonomo) di un paese nei confronti di altri. Per il momento tralascio, e rinvio ad un pezzo successivo, il problema di che cosa significa servile o autonomo nel contesto del mio discorso che, come si sa, denomina “cotonieri” i ceti dominanti interessati alla subordinazione italica agli Stati Uniti. Questo andrà spiegato con esempi, che magari ho già fatto, ma constato che bisogna sempre ripetersi. Qui mi limito a quanto già rilevato. Intanto, che se devo scegliere tra liberismo tradizionale, oggi di nuovo in voga, e keynesismo del deficit spending, tutto sommato ritengo meno dannoso quest’ultimo.

5. Tutto il terrorismo sul debito insostenibile (perché un paese con il suo Stato è grettamente paragonato ad una famiglia, che non deve spendere più delle sue entrate), poi rinforzato con quello relativo allo spread (rispetto ai bund tedeschi) e all’aumento degli interessi sul debito, ecc.; e poi ancora con tutto il can can sulla necessità delle “liberalizzazioni” (aumento di un po’ di licenze per taxisti e farmacisti), della riforma delle pensioni (e della sospensione della loro indicizzazione parziale al costo della vita, già calcolato al ribasso dai truffaldini dell’Istat), della riforma del lavoro (eliminazione dell’art. 18, “flessibilizzazione” del lavoro stesso cioè sua precarizzazione perché il posto fisso sarebbe un’anacronistica pretesa dei “bamboccioni”, ecc.), tutti questi autentici imbrogli e menzogne, insomma, servono a piegare l’intero paese agli interessi di una quota minoritaria dei suoi abitanti (con al vertice i subdominanti, ormai legati “per la vita” ai dominanti centrali), servono a preparare la liquidazione delle imprese strategiche o la loro riconduzione ad una funzione complementare ai suddetti dominanti, in una parola ad accrescere la nostra integrazione e dipendenza totale dal loro sistema economico-politico, accettato come preminente e nostro orizzonte principale.

L’ultima manovra del governo (ma anche quelle di governi precedenti, sia chiaro) è stata pensata per i fini politici appena visti, andando a vantaggio di una minoritaria quota della popolazione (di cui parleremo in altra occasione), nel mentre costituisce un’ulteriore spinta alla depressione per quanto riguarda il lato prettamente economico relativo all’intero nostro sistema, al sistema economico del paese Italia. Comunque, se si accresce il carico fiscale, se si contengono o annullano date spese, si pretenderebbe allora almeno che le “risorse” così ottenute dallo Stato siano altrimenti indirizzate. Il minimo possibile – per non rompere immediatamente e bruscamente con la UE e con la zona euro – dedicato al tormentone della diminuzione del debito. Si dovrebbe invece spingere verso l’autonomia delle nostre imprese strategiche, ormai pochine davvero.

Sarebbe stato necessario impedire che l’Eni scendesse al 20% nel Southstream e fare, in prospettiva (ravvicinata), di questo gasdotto (certo in unione con la Gazprom, cioè con la Russia) un mezzo di influenza sui paesi europei da rifornire con il gas ivi immesso e condotto il prima possibile. Si sarebbe dovuta difendere tale azienda energetica italiana da ogni separazione tra produzione e distribuzione con la grossolana menzogna della competizione concorrenziale a favore dei consumatori; una simile azienda andrebbe guidata politicamente (nel senso della politica come insieme di strategie) e si dovrebbe allora decidere, da tale cruciale punto di vista, se è prioritario, di fase in fase, abbassare i prezzi per favorire i “consumatori” o invece sfruttare certe situazioni anche di monopolio (sempre parziale e non certamente solo in area italiana) per raggiungere altri scopi politici. La stessa cosa dicasi della Finmeccanica, obbligata a dipendere dal “mercato” americano (cioè in realtà dai centri strategici statunitensi) e sottoposta ad attacchi giudiziari, del tutto politici e guidati, miranti a bloccare la sua espansione in altri “mercati”, oggi ampiamente ridimensionati o persi. Del resto, questi sedicenti mercati erano in realtà a noi aperti (spesso in esclusiva rispetto ad altri paesi dell’“occidente” capitalistico avanzato) grazie a intrecci politici e parziali alleanze con paesi verso i quali non eravamo obbligati a rapporti di dipendenza; si pensi agli accordi con Russia e Libia.

Ancora: bisognerebbe ripulire da influenze “atlantiche” i nostri Servizi e utilizzarli, in accordo con altri che sono concorrenti rispetto a quelli statunitensi, per penetrazioni di vario genere, persino contrastando, negli opportuni modi (anche “discreti”), le varie opzioni degli Usa circa le “rivoluzioni colorate” (molto oscure e criminali) in vari paesi, l’aggressione o l’embargo economico a danno di sedicenti Stati “canaglia”, soprattutto in aree a noi vicine. Bisognerebbe servirsi delle “risorse” rese disponibili per aiutare le nostre imprese o interi settori a penetrare in altri “mercati”. Penetrazione che solo la superficialità, o magari l’essere venduti, dei liberisti nostrani attribuisce al rispetto delle regole della virtuosa concorrenza mercantile a suon di prezzi migliori, che esigono costi più contenuti; da cui poi deriva l’altra banale affermazione circa il fatto che la nostra competitività è carente per colpa del mancato contenimento salariale, della rigidità del fattore lavoro, ecc. (da qui dunque l’ossessiva campagna contro l’art. 18, la spinta all’innalzamento dell’età pensionabile, ecc.). Alla faccia del fatto che in un paese industriale avanzato è assai alto il rapporto capitale (mezzi di produzione)/lavoro (massa salariale); non si vince il competitore in base alla riduzione dei costi salariali, ma con innovazioni tecnologiche e di prodotto, pur soltanto limitandosi allo stretto economicismo.

Sono proprio gli Usa ad insegnarci la rilevanza della capacità innovativa, che esige investimenti cospicui nei settori della ricerca, non accettando la “fuga dei cervelli” (elogiata da Monti quando ha affermato che gli italiani non possono trovare tutte le occasioni di lavoro in patria). A parte questi fattori direttamente relazionati con l’economia, è indispensabile l’abilità e astuzia nel conquistare preziose posizioni in dati paesi, mediante legami politici (difficilmente per semplice amicizia, è necessaria in genere qualche “unzione”) con personaggi e apparati di Stato degli stessi. Ne accenneremo in futuro ricordando un piccolo esempio relativo a Moro e ai suoi contatti con il presidente cileno Frei (prima della sua sconfitta ad opera di Allende nel 1970, evento foriero di molte disgrazie anche per l’Italia nel decennio successivo, negli “anni di piombo”). Altro che le colossali panzane sulle virtù del “libero mercato”. Si deve combattere con molte armi a disposizione e occorrono uomini del tipo di Mattei (o perfino di Moro), non meschini omiciattoli come Berlusconi, rinnegati e venduti come i “sinistri”, grigi servitori come gli attuali governanti.

6. Metto termine qui a questa parte del discorso. Il lettore attento, e non semplice moralista, capirà quante balle ci stanno raccontando; utili però per il “poppolo”, ormai disorientato e semplicemente disgustato dalla “politica”, giacché non capisce che il disgusto nasce invece dalla fine della politica. Quando, quasi vent’anni fa, avvertivo circa i guasti che avrebbero provocato i rinnegati del “comunismo” (già un’ideologia abborracciata e ingannevole se ci si riferiva al sedicente campo “socialista”, ma il Pci preparò inoltre il passaggio di campo verso gli Usa almeno a partire dalla segreteria Berlinguer), avevo ragione da vendere e lo si vede oggi.

E non mi sono fermato lì; ho segnalato la formazione del ceto medio semicolto (altro che riflessivo), autentica infezione (o cancro) della società italiana (e non solo). Ho segnalato che la risposta berlusconiana era quella “malata”, “autoimmunitaria”, dell’organismo ormai sotto stress. Ho continuamente messo in guardia contro il virus dell’antiberlusconismo (con reazione eguale e contraria dall’altra parte) che avrebbe liquefatto il tessuto cerebrale dei più. Adesso ci siamo, siamo nel pieno della malattia e di antidoti non se ne vedono. Mi limito a rilevare che questa svolta governativa, mettendo comunque termine al precedente (quasi) ventennio, prepara aggravamenti non indifferenti se non verrà combattuta. Al momento, anche quelli che ci sembravano almeno vagamente “sovranisti”, si sono squagliati o intessono discorsi sbiaditi. Dei partiti esistenti (cioè inesistenti) meglio ridere. Vedremo che cosa accadrà.