NON FATEVI INGANNARE DAGLI ECONOMISTI

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Avendo ben presente la reale differenza tra pubblico e privato ci sarebbe da chiudere la bocca ai keynesiani (post e neo) ed ai soliti liberisti (neo e tradizionali). Tutto nasce, come sempre, da un equivoco, dal fatto che sia la forma giuridica della proprietà a stabilire quanto sia buono e giusto o al contrario cattivo e ingiusto, per la collettività ed i suoi membri. Uno statalista vi racconterà che il pubblico opera a favore di tutti i cittadini mentre il mercato solo a sostegno degli interessi egoistici dei singoli. Il liberista, invece, vi offrirà una narrazione uguale e contraria, attribuendo alle Istituzioni un’invasività nella sfera individuale che frena il progresso e gli animal spirits imprenditoriali. Né uno e ne’ l’altro. Dovremmo ormai sapere che lo Stato non è organo contemperatore degli interessi generali ma, preponderantemente, macchina dedicata a funzioni di alto livello strategico e di coercizione, in cui operano gli agenti della sfera politica, i quali, usano le risorse a disposizione per indirizzare l’intero corpo nazionale verso certi obiettivi (anche se il corpo nazionale non è omogeneo ma composto da blocchi sociali di cui i dominanti in lotta tra loro si servono per disputarsi il comando degli apparati statali). Sui mercati, che non sono luoghi esterni alle imprese ma reticoli di relazioni – anche cooperative ma, soprattutto competitive, tese a prendere il sopravvento sul concorrente, avvolgenti la sfera economica-finanziaria – si verificano lotte speculari, ad un livello diverso, ma con i necessari collegamenti con la sfera statale perché ogni conflitto ha, per così dire, un indirizzo politico che compone “trasversalmente” (includendo pure gli attriti nella sfera ideologico-culturale) drappelli dominanti i quali si scontrano per ottenere la supremazia interna e (anche)una proiezione internazionale, utile a confrontarsi con le concentrazioni di potere di altri paesi. E’ vero che in Italia le cosiddette privatizzazioni, iniziate negli anni ’90, hanno distrutto eccellenze produttive ed indebolito la sovranità nazionale. Tuttavia, non sono stati i processi di privatizzazione in sé a determinare questo sfascio ma la santa alleanza banditesca tra politici servi di potenze estere e parassiti economici di medesima risma. I partiti dell’epoca post-tangentopoli hanno svenduto a compagini economico-finanziarie ad essi legate un patrimonio di saperi e di produzioni faticosamente accumulato nei decenni precedenti. La regia di queste operazioni scellerate era quasi certamente statunitense, anche se le liquidazioni furono gestite localmente, in una cornice di ridefinizione degli equilibri mondiali, dal bipolarismo Usa-Urss all’unipolarismo Usa, dopo l’implosione dell’Urss.
Come scrive La Grassa: “L’elemento fondante la società (non solo capitalistica, ma di questa comunque stiamo parlando) non deve più essere considerato la proprietà o meno dei mezzi di produzione. E’ necessario fissare invece l’attenzione sulle complesse strategie del conflitto; dove tale nuova attenzione non è rivolta tanto allo studio delle battaglie strettamente belliche, con le loro mosse specifiche, le loro specifiche forze e strumenti impiegati, ecc., quanto invece all’analisi della formazione di nuovi strati e segmenti della società, di cui è rilevante l’eventuale coinvolgimento nello scontro politico-ideologico, che comporta la costituzione dei diversi blocchi sociali. Un simile spostamento del fuoco attorno a cui ricostruire una diversa teoria della(e) formazione(i) sociale(i) ha decisivi effetti”… il passaggio al conflitto strategico, quale fulcro della dinamica dei sempre più complicati rapporti tra gruppi sociali in continua ramificazione e differenziazione (in orizzontale come in verticale), comporta modificazioni sostanziali circa la concezione di ciò che chiamiamo Stato. La prima conseguenza è che esso va trattato nella sua articolazione in apparati, rappresentanti il precipitato cosale, materiale, visibile, di flussi di energia conflittuale che non segue andamenti antagonistico-duali: capitalisti/operai (in pratica sinonimo di borghesi/proletari), proprietari feudali/servi della gleba, proprietari di schiavi/schiavi, e via dicendo…”
Detto ciò, in determinate fasi storiche non sono le ricette economiche che portano fuori dalla crisi. Non fatevi impressionare da chi vi mostra grafici e soluzioni cervellotiche con le quali far riprendere l’economia, si tratti di più spesa pubblica, con impegno diretto dello Stato in alcuni settori sensibili per la popolazione (nel caso dei keynesiani) o di maggior controllo della stessa e più liberalizzazioni(nel caso dei liberisti). E’ tutta fuffa, almeno se non viene messa prima in evidenza la necessità di rilanciare una politica d’indipendenza (dagli Usa) e di potenza strategico-militare, per tornare ad essere protagonisti della scena mondiale. L’inversione delle problematiche è già un tradimento dell’interesse nazionale.