ONORE AL DEMERITO di G.P.

Tra i tanti temi che vengono lanciati quotidianamente nella campagna elettorale è venuto fuori anche quello sulla meritocrazia che in Italia langue da “secoli”, in ogni settore lavorativo e della vita sociale. La costante riproduzione dei meccanismi notabilari e clientelari, tanto a livello locale che a livello nazionale, impedisce il riconoscimento delle capacità individuali e gli stessi sistemi di selezione (sia nel pubblico che nel privato) non prendono nella dovuta considerazione il criterio della competenza.

Sappiamo anche che tali ingranaggi sono perfettamente oliati da un’oligarchia dominante la quale detiene le chiavi delle numerose porte d’accesso ai posti ambiti (distribuiti, per lo più, su base ereditaria o per cooptazione mirata nell’esclusivo circolo della “noblesse” al potere).

Più si discende lungo la scala di questo squallore “preferenzialistico” e più abbietti sono i personaggi con i quali occorre fare i conti per vedere riconosciuti i propri diritti.

Come spesso accade di questi tempi, i due principali leaders degli “schieramenti avversi” (per usare il nuovo codice linguistico da educande introdotto da Veltroni) si rimpallano tematiche “struggenti” con le quali si pretende di toccare il cuore degli italiani, al fine di sensibilizzarli su questioni che olezzano di presa per il culo da quanto sono state regolarmente disattese in questi anni.

Più che stimolare la “pompa cardiaca” della gente si finisce, il più delle volte, per gravare sugli organi genitali di quelli che, nei fatti, sono considerati alla stregua di sudditi da raggirare a scadenze prefissate di 5 anni.

Su Rai due, l’altro ieri, è andato in onda un ennesimo sketch a “staffetta” (della serie “dal dentista”, come lo ha giustamente definito uno dei due contendenti) che aveva per protagonisti un illusionista compassato e fintamente serafico ed un attempato cantante di piano bar col cuscino sotto lo sgabello.

Entrambi, con perfetta coordinazione mediatica, hanno ripetuto le loro scarne ricette per l’ "avvenire", dinnanzi all’alta corte giornalistica, schierata a mo’ di tribunale inquisitorio, ma solo per meglio celare l’atavica remissività del mondo dell’informazione di fronte alle “eminenze” politiche che ne dettano i tempi carrieristici. E non si può certo dire che per intelligenza ed acume gli intervistatori siano superiori ai politici che pretendono di “sfrugugliare”, stando almeno al tenore delle domande che formulano. 

Non voglio annoiarvi con il solito corollario di banalità inflitto agli elettori da Veltroni e Berlusconi, anche se il secondo non ha velleità intellettuali (potendo al massimo incarnare la traslazione, nella sfera politica, di un Gino Bramieri) mentre il primo è più che mai convinto di essere l’eruditissimo Diogene Laerzio.

Veltroni, pacatamente, serenamente, si rivolge agli italiani chiedendone il consenso, poiché in un momento così critico, ci sarebbe bisogno di un uomo serio alla guida del paese, di un leader di caratura europea alla stregua di un Tony Blair, di una Angela Merkel o di uno Zapatero. E chi sarebbe questo principe illuminato che sa far uso delle virtù della “Golpe e del Lione”? Lui, naturalmente, e chi sennò! Il romano de Roma è quasi riuscito a far dimenticare il Romano registrato all’anagrafe del comune di Bologna, tanto sembra che a governare l’Italia in questi due anni sia stato un ectoplasma.

Se non fosse per il precipizio sul quale la nazione danza pericolosamente a causa della crescita dei prezzi (al 3,3%, dato più alto dal 1996), degli stipendi al palo e di un’economia che gira a vuoto (quando ancora gira), c’è da giurarci che l’opera di “buonificazione” veltroniana avrebbe dato dei risultati migliori, in virtù di quell’inestirpabile smemoratezza italica sulla quale i lestofanti possono sempre contare. Fortunatamente non sarà così e Uolter l’afroamericano riuscirà al massimo a convincere il popolo identitario della sua tribù.

Dando un’occhiata ai sondaggi, senza esagerare sulla loro precisione, si vede ancora che la differenza tra PD e PDL è quella degli inizi della campagna elettorale e resta fissata tra un minimo di 5,5 punti percentuali ed un massimo di 8,6 punti (secondo i sondaggi in possesso di Berlusconi i punti di scarto sarebbero addirittura 10).

A ragione di un recupero che non avviene, Veltroni sta snocciolando, uno dopo l’altro, i problemi irrisolti della nazione, arrogandosi, al contempo, la capacità di appianarli nonostante i suoi sodali, dai quali oggi prende timide distanze, siano riusciti solo a peggiorare le cose.

E qual è la proposta di Veltroni per valorizzare il merito? Quella di favorire condizioni di partenza equanimi, nonché quella di creare una Bocconi del Sud, un centro di eccellenza che sospinga i migliori spiriti meridionali.

Ora, più o meno tutti noi sappiamo cos’è la Bocconi di Milano e, se si esclude qualche eccezione che non fa la regola, conosciamo anche il profilo sociologico di questa Università.

Veltroni non fa altro che riprendere vecchi temi della tradizione liberaldemocratica spogliandoli persino della loro carica ideale (John Stuart Mill, molto prima di lui, riteneva necessario garantire a tutti le stesse basi di partenza ma attraverso interventi  di decurtazione dei patrimoni accumulati e trasmessi in eredità, cosa che Veltroni non si sogna nemmeno di affrontare) senza nemmeno una parola di denuncia  sulla natura familistica e oligarchica del capitalismo italiano.

Veltroni, come al solito, si nasconde dietro gli slogan ad effetto ma, nella sostanza, non ha alcuna intenzione di dare seguito a quello che dice. La prova? Date una scorsa alle liste elettorali del PD e ricaverete, pari pari, il significato che l’ex sindaco di Roma attribuisce alla parola merito.

Un discorso serio sui meccanismi meritocratici dovrebbe necessariamente partire dallo scardinamento dei poteri costituiti nella sfera politica, in quella economica e in quella ideologico-culturale, al fine di dare avvio ad un consistente ricambio della classe dirigente (non solo generazionale, per carità), soprattutto alla luce dei fallimenti che sono sotto gli occhi di tutti. Non si tratta certo di fare la rivoluzione, quanto di esprimere una classe dirigente più autonoma e più lungimirante di quella attualmente in sella e che non abbia come solo obiettivo quello di svendere il paese per la propria misera sopravvivenza da saprofita.