OSSERVAZIONI, SOSTANZIALMENTE BANALI, ATTORNO ALLA CRISI DEI “CETI MEDI” CON UNA BREVISSIMA CONSIDERAZIONE SU ALCUNE TESI DI PIKETTY

Karl-Marx

 

Sul Sole 24 ore del 23.05.2016 Carlo Carboni ripropone la problematica dei ceti medi e delle trasformazioni che essi hanno subito in seguito alla crisi mondiale e alle dinamiche da essa  innescate nei paesi di prima industrializzazione e in quelli emergenti. La politica globale, osserva l’editorialista, sembra navigare

<< a vista tra crescente astensionismo ed emergenza di forze populiste che sfruttano le “grandi” paure sociali di questo inizio secolo, metabolizzate dal ventre molle dei ceti medi>>.

Anche il “grande spauracchio” Donald Trump sembrerebbe orientato verso una politica di protezione nei confronti del ceto medio, persino sbilanciandosi in favore di più tasse per i super-ricchi. La Clinton propone misure diverse sempre orientate in direzione di un recupero del loro ruolo sociale. Cameron, a sua volta, paventa l’ipotesi di Brexit come la causa di una totale disfatta per il  benessere delle middle classes britanniche. Sgravi Irpef e varie detrazioni vengono ipotizzate, in maniera irrealistica, anche dal nostro governo che invece fatica ancora a mantenere il bonus degli 80 euro da esso introdotto. Carboni pare temere soprattutto la deriva politico-culturale, con conseguenze destabilizzanti per il consenso dei governi liberali, che la crisi dei ceti medi comporta:

<<Lo scivolamento verso il basso dei ceti medi rende questi vulnerabili alla paura del globale e, di conseguenza, propensi al disincanto, all’individualismo cinico, al risentimento. Un mood che conduce o nella terra di nessuno, uno spazio dell’indifferenza e ignavia elettorale, o nella terra incendiaria di mercati politici assediati da forze populiste e astensioniste>>.

E i dati socioeconomici che stanno alla base del problema sono sempre più allarmanti perché negli Usa – se si adotta la classificazione di Lester Thurow – la somma della popolazione che sta sopra al 125% del reddito mediano e quella sotto, con il 75%, è ormai superiore alla classe di mezzo. Meglio andrebbe in Europa, dove Svezia e Italia presentano divari più contenuti tra i redditi del 10% più ricco e i redditi mediani. Il tecnological change avrebbe, poi, già oggi e ancor più in futuro un ruolo  devastante soprattutto con l’avvento dell’ “Industria 4.0”, ossia addirittura di una quarta rivoluzione industriale con una nuova ondata di progresso tecnico legata alle tecnologie industriali digitali nei processi manifatturieri. Alla base di questo nuovo modello produttivo ci sarebbe una rottura tecnologica caratterizzata dalla fusione tra il mondo reale degli impianti industriali e il mondo virtuale della cosiddetta “Internet of Things”. La riduzione dei ceti medi e della loro capacità di contribuzione fiscale avrebbe aggravato, tra l’altro, la possibilità di mantenere un sistema di welfare che risultava decisivo per il tenore di questi strati sociali oltre che per quelli a più basso reddito. L’autore dell’articolo accenna poi ad alcune problematiche sviluppate nel celebre best seller di Thomas Piketty(1). Nel cosiddetto “capitalismo patrimoniale”, fondato sull’accumulazione, da parte di pochi, di redditi costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro, il passato “divorerebbe” il futuro. Se il processo di crescita del prodotto netto, ovverosia del valore aggiunto, rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) e la quota del  capitale – intesa come ricchezza soprattutto monetaria ma, comunque, sempre come patrimonio – cresce più rapidamente del reddito nazionale, i redditi da capitale assumono un’importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro. Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono escluse, provocando un impoverimento del capitale umano.  L’approccio di Piketty, completamente opposto rispetto alla nostra analisi (La Grassa) che considera il capitale come rapporto sociale, continua a godere di larga considerazione tanto da trasformare il suo saggio più popolare – in una fase che viene vissuta come una sostanziale  rivincita dei fautori del modello liberale classico – in una sorta di testo “sacro” per quella che dopo la fine dei “quattro socialismi” (socialdemocrazia, socialismo liberale, socialismo riformista “evoluzionista” e comunismo) continua a essere denominata “sinistra”. Una “sinistra” che pone il suo baricentro ancora sul tema dell’eguaglianza riproponendo le tesi caldeggiate da Bobbio e dal primo Rawls. In un articolo di Maria Grazia Turri viene riportato questo passo del libro di Piketty:

<<l’imprenditore tende inevitabilmente a diventare un rentier sempre più dominante su coloro che non posseggono altro che il proprio lavoro, il capitale si riproduce più velocemente dell’aumento della produzione e il passato divora il futuro.>>

La studiosa così commenta poi le frasi di Piketty:

<<L’eguaglianza diventa così il parametro morale a cui fare riferimento e il suo contrario la disfunzione a cui porre rimedio, e viene denunciato il dato che le diseguaglianze economiche aumentano fino a poter risultare «incompatibili con i valori meritocratici e i principi di giustizia sociale su cui si fondano le moderne società democratiche» (p. 26). Per Piketty il “capitale” è uno strumento a disposizione degli esseri umani, ai quali compete unicamente la responsabilità del suo cattivo o buono utilizzo>>.

Mentre in Marx la separazione tra i capitalisti diventati rentier e il corpo lavorativo associato era vista come il risultato dello sviluppo di una relazione sociale tra classi – caratterizzate da una determinata maniera di confrontarsi con i mezzi di produzione in un determinato stadio della formazione della società – in questa visione economicistica e feticistica viene ancora riproposto il modello dell’individuo, o della classe di individui, che come soggetto pieno si rapporta immediatamente alle cose e solo secondariamente agli altri attori sociali. Secondo questa visione – in cui l’impostazione neoclassica non viene neanche scalfita – le scelte soggettive, magari di gruppi sociali omogenei, possono dare luogo a risultati molto diversi indipendentemente dalle dinamiche strutturali della formazione sociale a cui si fa riferimento.

Tornando all’articolo di Carboni annotiamo osservazioni riguardanti la minore incidenza del lavoro sul reddito nazionale con una relativa aumentata polarizzazione salariale (Atkinson) che vedrebbe una parte contenuta dell’ex-ceto medio avanzare verso “i più ricchi”, mentre la parte lower, più consistente, si troverebbe sul filo del rasoio della “deprivazione relativa”. Un concetto quest’ultimo,  anch’esso tra l’altro  utilizzato  da Piketty,  particolarmente ambiguo e quindi amato dai “sociologi” e  la cui assunzione principale consiste nella tesi che

<<lo stato di deprivazione (o soddisfazione) di una persona o di un gruppo è relativo, non è oggettivo. Le valutazioni di sé avvengono tramite il confronto. Se mi confronto con altri che stanno peggio di me, o con una situazione passata che reputo peggiore, allora non provo deprivazione>>(2).

Carboni annota poi la grave incidenza sulla domanda interna dell’indebolimento della classe media ma rileva anche l’importanza che una buona parte di essa (il ceto medio produttivo) ha avuto nello sviluppo di alcuni sistemi economici tra i quali spicca il “caso” italiano. Bagnasco, verso la fine degli anni settanta, aveva introdotto l’ipotesi  delle “Tre Italie”: la prima sarebbe stata quella della grande impresa del Nord-Ovest; la seconda quella del Centro Nord-Est con piccole imprese situate localmente ma orientate, seppure con elementi di dipendenza, verso una dimensione globale grazie alle loro capacità innovative e a forme socio-produttive particolari; la terza quella del Meridione, disaggregata, dipendente e con caratteristiche semicoloniali. Questo glorioso e idealizzato “ceto medio produttivo” – che sarebbe stato spazzato via dall’avvento della “società del rischio e dell’incertezza” affermatasi definitivamente con la grande depressione del XXI secolo –  dovrà, secondo l’editorialista, rinascere grazie ad un mix, anche culturale, che trarrà stimoli da una nuova mobilità sociale, da nuovi consumi, senso di appartenenza, uso di tecnologie e rivendicazioni di diritti e doveri di cittadinanza. Tutto questo comporterà, aggiungiamo noi, che nella migliore delle ipotesi assisteremo ad un lungo e “sanguinoso” travaglio in cui si incroceranno trasformazioni concrete come la de-professionalizzazione, in tempi digitali, dei ceti medi tradizionali e all’opposto, la massiccia adesione di quelli nuovi al know how scientifico e tecnologico.

(1) Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siècle, Éditions du Seuil, 2013.

(2)Definizione, didattica, tratta da internet

Mauro Tozzato           31.05.2016